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Il nero vince in due mosse (cap. 5)


di eborgo
08.06.2023    |    1.814    |    3 8.7
"Benchè parzialmente lubrificato dal suo seme il mio uccello avanza a fatica..."
Capitolo quinto. Un viaggio può cambiarti la vita

Nives esce dalla camera da letto e entra in cucina. In dieci minuti siamo tutti e tre seduti a tavola, divorando panini di prosciutto e bevendo latte freddo. Cucina da campo. La pistola rimane comunque sul tavolo in bella vista.
Parlano fra loro in dialetto yoruba, probabilmente di quello che hanno combinato nel pomeriggio. Si direbbe che i loro traffici vadano a gonfie vele.
Poi, anche la cena finisce. Mi sento meglio, avevo fame. «Ora Romilda ti deve legare, » mi informa Nives alzandosi da tavola «fai il bravo, non creare problemi.»
Si padrona. Qui siamo in un film di Tarzan alla rovescia, il bovero biango sono io. Romilda viene vicino alla mia seggiola, il braccio lungo i fianchi, la pistola in mano.
«Dai, andiamo» mi dice come se avessimo un appuntamento. Mi alzo e lo seguo al centro della stanza. Raccoglie un lungo tratto di corda e mi fa voltare. Del resto sto scoprendo che farmi legare come un salame non mi dispiace, è eccitante. Anche essere in potere di un'altra persona non è male, lo sto trovando erotico.
«Dammi i polsi» dice stando alle mie spalle. Incrocio le mani dietro alla schiena e subito la corda comincia a stringere legando i miei polsi strettamente uno con l’altro. Stringe bene i nodi poi la corda che rimane, senza staccarla dalla legatura la fa girare due o tre volte attorno alla mia vita. La tira per bene e ne fa passare nuovamente il capo un paio di volte attraverso le corde che mi legano le mani. Finisce di fissare il tutto e io mi ritrovo con i polsi legati strettamente, a metà della schiena, alla quale sono tenuti aderenti dai giri di corda che mi passano attorno all’addome. Questo mi costringe a tenere i gomiti sollevati e mi impedisce del tutto di muovere le braccia.
«Dove hai imparato?» gli domando con curiosità un po’ ingenua. «A legare la gente in questa maniera voglio dire.»
Mi fa voltare e mi sorride poi si accoscia ai miei piedi «Ci ho campato negli ultimi dieci anni.» Mi dice costringendomi ad avvicinare le caviglie. Prende un altro pezzo di corda e comincia a legarle assieme. «Sai cos’è una “domina”, una “mistress”?» mi domanda lanciandomi un’occhiata.
Annuisco, non sono proprio il buon Garrone o roba del genere.
«Beh» continua, «questo è quello che siamo io e Nives, una coppia di mistress e gente paga molto per essere dominata, legata.» Stringe il nodo «Alla lunga impari a fare cose molto bene.»
Si rimette in piedi, avvicina la seggiola di legno e mi fa sedere.
«Adesso stai seduto bravo» mi prende il mento con una mano e mi carezza le labbra un paio di volte con il pollice «dieci minuti e poi andiamo.»
Si volta e raggiunge Nives che nel frattempo si è seduta al computer. Lo guardo allontanarsi. Questo la dominazione ce l’ha nel sangue, mi fa sentire una sua proprietà, mi avvolge e mi controlla in maniera sconcertante. Ogni suo gesto ha qualcosa di erotico. Sarebbe eccitante anche se lavorasse all’uncinetto.
Li osservo mentre parlottano nella loro lingua scorrendo lunghi tabulati sul computer. Vorrei tanto sapere cos’hanno combinato questi due. Lei è seduta sulla sedia, davanti allo schermo. Lui è in piedi, chinato in avanti con i gomiti sul tavolo e un ginocchio appoggiato alla sedia di lei.
Nives lo sta lentamente accarezzando sul sedere, distrattamente ma con gusto, facendo scivolare la mano su e giù lungo la chiappa coperta da quegli argentei pantaloni satinati. Le due “mistress” hanno un lato umano, dopo tutto. E io ci sono finito dritto in mezzo.
Parlottano ancora qualche minuto, poi si alzano e spengono il computer. Romilda prende dal divano il suo lucido e leggero impermeabile di cintz e se lo infila. Lo abbottona lentamente, in piedi davanti a me «dobbiamo andare» mi dice. Faccio per tirarmi in piedi ma le mani di Nives compaiono davanti alla mia bocca reggendo il bavaglio tra le dita. «Aspetta» mormora «non vogliamo svegliare i vicini, vero?.»
Apro la bocca e mi ritrovo nuovamente fra le labbra quella stupida pallina ricoperta di seta. Annoda il foulard dietro la mia nuca e mi aiutano ad alzarmi in piedi. Romilda si china, mi afferra per le chiappe e mi si carica in spalla come un sacco, il tutto senza sforzo apparente. La mia testa e rivolta verso il basso, alle sue spalle e le sue mani mi tengono in equilibrio posate sulle cosce. Ci avviamo verso l’ingresso. Si parlano in yoruba stretto, poi Nives apre la porta ed esce sul pianerottolo. Sento i suoi passi che ticchettano sulle piastrelle e il rumore dell’ascensore che sale. La donna torna vicino a noi. Tutto questo lo sento ma dalla mia posizione non lo posso vedere. Muovo i polsi e gemo. Una delle mani di Romilda mi dà un colpetto sulla coscia poi prende ad accarezzarmi lentamente.
Che storia ragazzi, se la raccontassi nessuno mi crederebbe! Con un piccolo schianto l’ascensore arriva al piano. Ci avviamo verso la cabina. Nives apre le porte e Romilda e io entriamo per primi poi lei ci segue e richiude l’ascensore. Bottone, altro schianto. Stiamo scendendo, probabilmente nei garage, a meno che non vogliano presentarmi a qualche inquilino dei piani bassi.
Mentre scendiamo la mano di Romilda continua ad accarezzarmi lentamente, penetrando a fondo tra le mie cosce velate da quello straccetto di raso giallo che mi hanno costretto ad indossare.
Sono irritato e mi scuoto flebilmente mugolando ma la cosa non sembra inquietarlo. Con un ennesimo schianto asmatico la cabina si ferma al piano. Nives apre le porte e una zaffata di olio motore misto a benzina e immondizia mi arriva alle narici. Siamo nel garage interrato. La donna esce a dare un’occhiata in giro mentre Romilda e io rimaniamo fermi dove siamo. Ha smesso con le carezze. La voce di Nives ci chiama. Usciamo dall’ascensore e voltiamo a sinistra. L’auto dev’essere subito lì vicino perché immediato arriva lo scatto di un portellone che si apre. Chinandosi in avanti Romilda mi fa passare sopra la sua spalla e mi aiuta a sedermi nel bagagliaio di quella che dev’essere una piccola giardinetta. La mia schiena nuda si appoggia su un lenzuolo di cotone. Fa passare anche le mie gambe e mi sistema bene aiutandomi a trovare la posizione meno scomoda. Ora possiamo vederci in faccia. Mi sorride e poi fa una piccola smorfia come a dire che a tutto questo non c’è alternativa. Chiudo gli occhi e appoggio la testa sul fondo del baule. Lui mi copre con l’avanzo del lenzuolo e chiude il portellone. Cristo, ho il batticuore e sono di nuovo spaventato. Mi chiedo dove diavolo mi stiano portando. Sento brevemente le voci ovattate dei due che discutono poi la porta dalla parte del guidatore si apre. Ancora due parole in quella loro lingua astrusa e Romilda sale in macchina.
Chiavetta, motore, partiamo.
L’auto si inclina sulla rampa dei garages poi si immette nello scarso traffico della notte. Luci e ombre passano sul lenzuolo. Gli altri automobilisti non sanno che in quest’auto c’è un povero sequestrato, nudo e legato. Roba che, nel caso, finirebbe in prima pagina sul giornale.
Romilda guida senza fretta, fermandosi ai semafori rossi. Sai che ridere se lo ferma la pula. Vorrei vederlo a spiegare al signor agente cosa ci fa vestito in quel modo, con un tizio nudo, legato come un salame, nel bagagliaio. Questo naturalmente non avviene, né adesso né durante i restanti venti minuti circa di viaggio.
L’auto che si inclina nuovamente su una rampa in discesa mi indica che siamo arrivati. Due curve a bassa velocità, gli pneumatici che stridono sul parterre lucido e la vettura si ferma. Il motore si spegne.
Porta che si apre e si chiude, lieve ciabattio, serratura del portellone che scatta, una sottile ventata quando si apre. Il lenzuolo mi viene tolto di dosso.
Romilda mi aiuta ad uscire. Prima le gambe poi mi prende sotto le ascelle e mi tira fuori dal baule aiutandomi a rimettermi in piedi. Mi appoggio al bordo del baule.
Ci guardiamo brevemente. Lui si mette un dito sulle labbra per dirmi di fare silenzio. Devo avere un’aria terribile perché mi sorride e mi spettina con un gesto insolitamente affettuoso.
Il garage è più piccolo di quello dal quale siamo partiti e molto délabrée. Un paio di box sono aperti e vuoti, ovunque c’è pattume abbandonato, scatoloni, cartacce, pneumatici usati, latte d’olio per motore e chi più ne ha ne metta.
Romilda mi scosta dall’auto e chiude il portellone. Mi viene davanti, si piega verso di me e mi riprende in spalla come un tappeto arrotolato. Ci avviamo verso l’ascensore. Dev’essere tardi e la probabilità di incontrare qualcuno appare piuttosto remota. Mi chiedo cosa farebbe se incrociassimo un inquilino. Lo prenderebbe a pistolettate? Gli darebbe una botta in testa? Sarebbe una bella scena ad ogni modo, piuttosto imbarazzante.
Con un sospiro asmatico le porte dell’ascensore si spalancano.
Entriamo. Il viaggio dura poco, secondo o terzo piano. Il pianerottolo è spoglio e scuro, male illuminato da una lampadina nuda appesa a un filo. Dove diavolo mi ha portato? Se mi mollano qui, non mi troverà nessuno per i prossimi duecento anni.
Sento scattare la serratura e la porta si apre. Entriamo e quando Romilda si gira per chiudere la porta sollevo il capo per guardare la stanza. Anche al buio posso distinguere un monolocale di medie dimensioni. Al contrario del resto del palazzo la camera è spoglia ma piuttosto ordinata. In un angolo brillano i particolari in acciaio inox di un angolo cottura e al fondo della stanza, dall’altra parte di un tappeto kilim c’è un letto matrimoniale. Accende un’abatjour a piantana e la stanza mi si rivela. É piccola ma confortevole. Il letto coperto da lenzuola di raso nero è disfatto. Forse è lo scannatoio di Romilda o comunque dove vive quando non è da Nives. Il batticuore non mi molla. Se continuo così mi beccherò un infarto prematuro.
Ci avviciniamo al letto e mi ci scarica sopra. Mette i due cuscini contro la spalliera e mi aiuta ad appoggiarmici contro. Si leva l’impermeabile e lo getta su una sedia. Alla fioca luce della stanza il suo plasticoso completino d’argento brilla di mille lucide piegoline. Un fiotto di ansia mi scuote il petto.
Romilda prende un telefonino dalla tasca dell’impermeabile e compone un numero. Attende la risposta fissandomi, a un metro dal letto, le braccia conserte e un sorriso da Monnalisa nera sulle grandi labbra scure.
Parte la conversazione che si svolge nel solito, inintelligibile linguaggio. Poche parole. Qualcosa come «siamo arrivati, tutto bene, non ho dovuto sparare a nessuno, e ci vediamo più tardi.»
Non parlo yoruba ma sono forte in deduzione, anche sotto stress.
La comunicazione termina e Romilda getta il cellulare sul’impermeabile. Mi osserva brevemente poi viene a sedersi sul letto all’altezza della mia vita. Ad ogni suo movimento il completo argentato si muove liquido sul suo corpo formando miriadi di piegoline lucide e riflessi luminosi. Chi l’ha inventato sapeva il fatto suo.
Allunga le mani dietro la mia nuca e snoda il foulard che mi imbavaglia levandomelo di bocca. Mi riappoggio ai cuscini, la schiena dritta e l’aria dignitosa.
«Grazie» gli dico umettandomi le labbra con la lingua.
Nella penombra i suoi occhi brillano e cosi la sua bella bocca scura. «Giornata faticosa» mi dice carezzandomi un ginocchio. «Vuoi un massaggio?»
Batticuore allucinante, fiotti di adrenalina nel mio povero petto. Sono quasi scosso dalla tensione e non riesco a levare lo sguardo dal suo. Lui si protende appena in avanti, il viso a una decina di centimetri dal mio. «Se preferisci questa sera ti lascio stare» mi dice con la sua voce profonda, un po nasale.
Con il cuore che batte nel petto come un tamburo mi sollevo leggermente e lo bacio sulle labbra, mordicchiandole con le mie e spingendo la punta della mia lingua nella sua bocca. La sorpresa lo lascia quasi di stucco ma si riprende in fretta e con un sospiro di estremo piacere risponde al mio bacio con passione. Mentre la sua lingua si incrocia alla mia e la sua bocca si impadronisce delle mie labbra mi prende per i fianchi e mi attira contro di se. Ci baciamo quasi con violenza, ansimando, lasciandoci appena il tempo di respirare. Le sue mani corrono sui miei fianchi, accarezzano la mia pelle, grandi calde e morbide. Lascio le sue labbra e lo bacio sul collo, risalendo piano, dal pomo d’Adamo che mi fa avere una stretta allo stomaco fino alla zona dietro le orecchie cosa che fa avere a lui un gemito di piacere. Ricambia la cortesia e le sue labbra scivolano sulla mia spalla. Mordicchio il lobo del suo orecchio, il viso contro i suoi capelli. Odora di shampoo, di profumo e lievemente di sudore. Riprende le mie labbra nella sua bocca e la sua lingua cerca la mia, più lentamente questa volta, mi penetra dolcemente tra i denti, esplora il mio palato si muove sinuosamente all’interno della mia bocca. Sono ad un livello di eccitazione quasi euforico, riesco appena a respirare. I miei polsi, stretti dalle corde dietro la schiena sono tesi nel desiderio di liberarsi, di vincere le pastoie che li legano e di essere finalmente liberi. Lo voglio toccare, carezzare, voglio sentire la sua pelle sotto le mie dita, il tessuto lucido dei suoi pantaloni scorrere sotto le palme delle mie mani.
Mi stacco dal bacio e porto le labbra sui piccoli rilievi formati dai suoi capezzoli sul lucido tessuto che li ricopre ma lui mi allontana spingendomi tranquillamente per le spalle «Aspetta» sussurra, lo sguardo eccitato. «Sono sporca e sudata, ho bisogno di fare doccia.» Si alza dal letto. Il suo uccello lungo e duro sembra schizzare fuori dal tessuto dei pantaloni. Il tessuto elastico lo disegna in maniera quasi anatomica.
Mi si avvicina e lascia che la mia bocca scorra un paio di volte lungo il gonfio rilievo d’argento, avanti e indietro, avanti e indietro. Lo sento ancora inturgidire sotto le labbra.
Con un sospiro roco spinge indietro la mia testa e va a chiudersi in bagno.
Sono in uno stato febbrile, lampi di eccitazione di un’intensità incredibile mi si scatenano all’interno del petto. Il mio coso duro come un palo spinge contro il raso dei pantaloni del pigiama e ogni tanto è scosso da una pulsazione.
Nessun rumore arriva dall’esterno. Da dietro la porta del bagno comincia a provenire lo scroscio dell’acqua. Guardo la stanza nella penombra. É una stanza spoglia, con poche cose di scarso valore, ma di un ordine che colpisce. Su un cassettoncino alcune foto ritraggono Romilda a una cena o una festa, fasciata in un elegante vestito di lamè rosa. Un secondo guizzo di eccitazione scuote il mio uccello.
I minuti scorrono lunghi, il solo suono adesso è quello del mio respiro. Chiudo gli occhi e cerco di rilassarmi. Troppe cose sono successe, in così poco tempo. Tutto il mio mondo è stato sconvolto, rivoltato come un guanto. Un lungo respiro... Un altro... Un altro ancora... La porta del bagno si apre con uno scricchiolio.
Per la seconda volta nella mia breve vita rimango con la bocca aperta. Romilda esce dal bagno, camminando lentamente, ancheggiando appena, i capelli sciolti sulle spalle e uno sguardo assatanato. Indossa una specie di calza di lycra nera, elastica e trasparente, dai riflessi metallici che la ricopre come una seconda pelle facendo appena delle sottili grinze più scure sulle giunture. Inguaina il suo corpo snello come vi fosse dipinta sopra, rivelando ogni suo singolo muscolo, ogni particolare del suo corpo atletico e asciutto. All’altezza del bacino si trasforma in una gonna lunga alle caviglie, ampia appena a sufficienza per poter camminare, molto elastica, che si riempie di lucide pieghe ad ogni suo passo. Ai piedi dove ci si aspetterebbe di trovare sandali col tacco a spillo, le sue solite infradito di plastica trasparente nera esaltano ancora maggiormente il tutto. Non si è truccata se non per gli occhi resi ancora più grandi e profondi dall’eyeliner e dal kajal e un velo di lucidalabbra sulla bocca. Il suo corpo nudo appare appena velato dal serico tessuto e il sesso semi eretto riposa aderente alla sua coscia sinistra. Un delirio assoluto. Il mio animo è frustato da ondate lancinanti di desiderio, fatico a respirare mentre una lontanissima parte del mio cervello mi urla che non è possibile che mi senta tanto attratto da lui, da lei, da Romilda, da questo stupendo oggetto che avanza verso di me, qualunque cosa sia.
Si avvicina al letto e mi slega le caviglie. Mi guarda e sorride. Il mio sbalordimento lo delizia. Fa scorrere lentamente quella gonna-calza lungo le sue gambe sollevandola fin sopra il ginocchio poi con un movimento assolutamente felino mi si siede sulle cosce.
«Non ti dimenticherai di me fin che campi» sussurra con la sua voce profonda, quasi musicale. «Nessuno ti darà mai quello che hai avuto da me.»
Mi si stringe contro e la sua bocca comincia a baciare e succhiare la mia, la sua lingua mi esplora, si avvinghia alla mia, scorre sui miei denti. Quando me lo preme addosso il suo sesso spinge grande e duro sul mio addome. Ansimo tra le sue labbra ma sono quasi grida. La sua lingua tra le mie labbra è dolce e calda, la succhio piano carezzandola con la mia. Sto male per l’eccitazione, faccio fatica a respirare e tutto il mio corpo e teso allo spasimo. Lascia la mia bocca e si solleva portando il suo uccello velato dal serico tessuto trasparente davanti al mio viso. Prende a sfregarlo piano sulle mie guance, sulla mia bocca, sugli occhi. É duro e scuro, vibrante, il suo glande chiaro carezza i miei lineamenti. Schiudo le labbra ma lui non me lo lascia baciare. Mi ci stuzzica, mi provoca, lo struscia dappertutto ma non sulla mia bocca. Gemo di desiderio mentre lui torna a sedersi sul mio grembo, il mio coso duro come un palo che scorre tra le sue chiappe velate.
É un delirio, vedo il mondo attraverso le palpebre abbassate, godo del suo profumo, dell’odore di sesso che emana da noi. La sua lingua torna nella mia bocca mentre muovendo lentamente il bacino avanti e indietro struscia i suoi testicoli sul mio uccello. Ci baciamo piano, succhiandoci a vicenda, leccandoci le labbra, mordicchiandoci le bocche. Sento le sue mani dietro la schiena e capisco cos’ha fatto solo quando le corde non mi mordono più i polsi. Lentamente, incredulo, tiro fuori le mie mani da dietro la schiena e le appoggio sui suoi fianchi duri e muscolosi. Il contatto con il serico tessuto del suo vestito mi dà un lungo brivido di piacere, Le lascio scorrere sulla sua schiena mentre succhio piano la sua lingua, le lascio scorrere su, fino ai suoi capelli nei quali immergo le dita. Allontana appena la sua testa dalla mia, le nostre bocche si staccano con un suono umido e leggero. Ci guardiamo negli occhi, eccitati, senza sorridere.
«E la pistola?» domando con un filo di voce.
Fa scorrere la punta della lingua sul solco sopra il mio labbro e tra le narici,
«É finta» mormora.
«Lo avevo capito» sospiro nella sua bocca.
Abbasso il capo e prendo tra le labbra uno dei suoi grossi capezzoli scuri attraverso il tessuto, lo mordicchio e lo titillo con la punta della lingua. Mi lascia fare, a occhi chiusi, mugolando di piacere. Scendo con le mani tra le sue cosce, le faccio scivolare sotto la gonna e stringo le dita attorno al suo sesso arcuato. É duro e vellutato allo stesso tempo. Lo faccio scorrere tra le dita mentre ricominciamo a baciarci. Si solleva nuovamente e questa volta mi porge il glande davanti alla bocca. Lo prendo tra le labbra e lo titillo con la punta della lingua, piano, a fondo, succhiandolo e baciandolo.
Le mie mani premono sulle sue cosce quando lo lascio entrare nella mia bocca per metà della lunghezza. Lui muove i fianchi avanti e indietro, piano, facendo scorrere il suo sesso tra le mie labbra. Ogni tanto chiudo appena i denti e li lascio grattare sulla sua asta. Mugola di piacere, le mani tra i miei capelli, le ginocchia strette sui miei fianchi, Lo lascio uscire e prendo a baciarlo e leccarlo lungo l’asta, dalla punta alla radice e attorno ai testicoli. Il movimento del suo bacino diventa sempre più convulso, il suo respiro più veloce. Con una mossa lenta lo rimette nella mia bocca e prende a muoverlo sempre più velocemente tra le mie labbra. Io lo carezzo tra le cosce, gli stuzzico i testicoli e accompagno i suoi movimenti con la lingua.
Sento il suo seme caldo che mi riempie la bocca scivolando lungo la gola. Lo sfila dalle mie labbra e gli ultimi fiotti caldi e vischiosi prendono lentamente a colare sulla mia pelle del collo.
Mentre il suo sesso è ancora scosso dagli spasmi dell’orgasmo, si abbassa e incolla le labbra sulle mie, senza badare al mio mento sporco, che imbratta entrambi e ci avvolge del suo odore penetrante. Mentre ci baciamo e le nostre lingue si incrociano raccoglie con le dita lo sperma dal mio collo e lo va a spalmare sul mio glande in estrema erezione.
«Voglio che mi penetri adesso.» Mi dice in un soffio.
Si abbassa lentamente sulla mia cappella e guidandola con la sua mano la dirige verso l’obiettivo facendo di me anche un sodomita.
Il mio parroco non sarebbe per niente contento.
Benchè parzialmente lubrificato dal suo seme il mio uccello avanza a fatica. Lui scende piano ma inesorabilmente e presto può cominciare a muoversi su e giù lungo la mia asta. É una sensazione nuova per me, una sensazione “stretta”. Lascio che le emozioni mi avvolgano, il mio sesso dentro di lui, le sue mani sul mio corpo, i suoi baci umidi e profondi, il suono dei nostri respiri eccitati, I suoi occhi bistrati che scrutano nei miei scuri e profondi.
Io non sono innamorato, io non sono innamorato... Lo urlo dentro di me mentre il mio orgasmo esplode come una cannonata nel suo ventre. Lascio che le pulsazioni del mio uccello si spengano lentamente, sempre più rade e leggere. Mi abbandono sulle federe di raso nero dei cuscini, spossato e confuso, ancora eccitato.
Romilda mi bacia sul petto, piccoli baci caldi delle sue grandi labbra scure. Il suo sesso riposa ormai rilassato sul mio ventre. Si sfila dal mio coso e si sdraia su un fianco accanto a me. Con un lembo del lenzuolo di raso nero mi pulisce l’asta per bene. Se non vi hanno mai pulito l’uccello con un lenzuolo di raso, beh, vi consiglio di farvelo fare almeno una volta.
Mi abbraccia e mi bacia sulla bocca. Limoniamo piano, con gusto. Il suo corpo contro il mio è eccitante, così diverso da quello di una donna ma di una femminilità del tutto differente.
«Non vuoi scappare?» domanda in un soffio, baciandomi sul collo
«No. Sono stanco, scappo domani»
Mi lecca il mento e poi la sua lingua è nuovamente nella mia bocca. Le sue labbra mi fanno impazzire.
«Le tue labbra mi fanno impazzire» gli dico. «Mi mancherai... mi mancherete.»
Si appoggia su un gomito e mi fissa negli occhi, senza sorridere.
«Potevi scappare molte volte» mi dice. «Perché non l’hai fatto?.»
Lascio scorrere le mie dita lungo il suo fianco velato dal serico tessuto trasparente. Sento i suoi muscoli sotto i polpastrelli. É un uomo quello che stò toccando? Che stò baciando, succhiando, sodomizzando? E se non lo è che razza di donna è mai questa per attrarmi così tanto? Gli sorrido.
«Non lo so» mormoro. «Dovevo vedere che carte avevevate in mano. E non volevo che andasse all’aria il vostro progetto.»
Mi attira a se e mi bacia. Le sue labbra sono morbide, avvolgenti, grandi, scure. Mi ci abbandono, ci cado dentro. Lascio che la sua lingua si muova lenta nella mia bocca, la succhio piano, ne ascolto il suono umido e caldo.
«Non è solo sesso» gli dico. Mi bacia ancora.


Epilogo (un ricco epilogo).

Nives è in piedi in fondo al letto. Ha un completo leggero di seta gialla e un paio di eleganti sandali marroni a mezzo tacco. É ben truccata, elegante e bella.
Ha in mano una valigetta di metallo satinato.
É entrata poc’anzi, mentre Romilda e io ci stavamo sbaciucchiando tra le lenzuola di raso nero. «Mi spiace disturbarvi ma dobbiamo proprio andare» ha detto con un sorriso carino.
Posa la valigetta sul letto. Romilda e io ci solleviamo e ci inginocchiamo sulle lenzuola davanti a lei. Nives fa scattare le serature, solleva il coperchio e gira la valigetta verso di me. «Questi sono trecento mila euro» mi dice «sono per te.»
Io sono senza parole. La valigetta è piena di mazzette di banconote da cento euro, tutte bene allineate, nuove di zecca. Guardo prima Nives poi Romilda, sbalordito.
«E sono autentici» aggiunge prevenendo una mia possibile obiezione.
Romilda prende una mazzetta e fa scorrere le banconote con le dita. «Una volta pagavano noi per fare sesso, non il contrario» dice ridendo. Si alza dal letto e va in bagno.
«Perché fate questo?.» Domando a Nives. «Io sono stato solo un problema per voi.»
Si siede sul letto accanto a me. «Lo facciamo perché sei un amico» mi dice carezzandomi i capelli. «Perché potevi mandare tutto all’aria e non lo hai fatto.» Mi bacia sulle labbra «Perché hai permesso che nostre vite di merda possono cambiare, anche se per mezzo di una truffa e qualche ricatto.» Mi bacia ancora, questa volta a fondo, con passione. Si stacca da me e mi sorride. «E soprattutto perché mi sono presa una cotta per te.» Mi bacia sulle labbra, con leggerezza, permettendomi di assaporare il suo profumo.
Romilda esce dal bagno con il suo fantastico completino d’argento. Quello si che non lo dimenticherò facilmente. Prende l’impermeabile e se lo infila. Anche Nives si alza dal letto.
Mi indica una borsa vicino all’ingresso «Lì ci sono tuoi vestiti, le tue chiavi di casa e la tua telecamera» mi dice «vattene subito da questo posto e non toccare nulla in giro. La polizia scoprirà tutto in tarda mattinata, non farti trovare qui.»
«E voi?» domando.
Romilda mi viene vicino mi solleva il mento con due dita. «Noi abbiamo un volo privato tra meno di un’ora» mi fa strizzandomi un occhio. «Siamo due signore molto ricche, adesso.» Mi bacia porgendomi la lingua. La succhio piano per qualche secondo. Si solleva e afferra un borsone da viaggio.
«Sappiamo il tuo indirizzo» mi dice «ti scriviamo appena al sicuro e chissà…» Mi manda un bacio sulla punta delle dita. «Magari ci incontreremo ancora.»
Sono uscite, la porta si è chiusa alle loro spalle. Il silenzio è totale. Solo il loro profumo è ancora nell’aria.
Mi sono vestito, ho preso i miei soldi e ho lasciato la casa. Ho camminato una mezz’oretta prima di fermare un taxi per farmi portare a casa.
I tre giorni successivi alla mia liberazione non sono riuscito a concludere nulla. Ho passato le notti a guardare il soffitto, a ricordare i loro corpi contro il mio, le loro mani su di me, le loro lingue nella mia bocca. Ho cercato di risentire il grande uccello scuro di Romilda che si muove piano nella mia bocca. E le corde e i bavagli, la paura, la tensione e, soprattutto, quella incredibile eccitazione.


Sui giornali è uscito tutto. Hanno portato via qualcosa come quaranta milioni di euro a una casa farmaceutica. Nessuno sa come abbiano fatto, né chi siano. Un lavoro pulito, informatico. Pare ci sia una talpa e quindi immagino che la mia telecamera sia servita per ricattare qualcuno. Anche lui avrà avuto la sua parte.
Ma di tutto questo non me ne frega niente. Sto solo aspettando una lettera o una cartolina da lontano.
Ora sono qui nel mio studio e guardo dalla finestra e ogni volta che penso a loro una fitta di desiderio mi attraversa il petto e mi ricorda quanto mi mancano.
Avrei un sacco di lavoro da fare ma per ora me ne manca la voglia. E poi ho tutti questi soldi da investire. Forse mi comprerò una casa a Parigi.

The end
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