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Ricattata dal gioco (7)


di solisoli59
24.04.2024    |    846    |    0 9.6
"Era ancora più duro di prima e quando si immerse tutto dentro di lei, le sembrò anche più grosso..."
L’autista, Irene ignorava ancora come si chiamasse, l’attendeva in una Mercedes dai vetri oscurati, ad un centinaio di metri dalla sua abitazione.
“Tenuta da sera obbligatoria” diceva il biglietto di invito che Paulan le aveva fatto arrivare quel pomeriggio. Irene aveva esitato a lungo davanti al suo ricco guardaroba prima di scegliere un abito verde smeraldo, indossato una sola volta, perché troppo scollato per i suoi gusti. Era un regalo di Edoardo ma quella sera non voleva pensare al marito. Era vergognoso ciò che si apprestava a fare ma doveva pagare il suo debito e tutto il resto passava in seconda linea.
Mentre la Mercedes correva silenziosa, Irene si accorse che l’autista la spiava nello specchietto retrovisore. L’uomo si era tolto il cappello e lei sentiva di detestarlo. Aveva l’impressione di leggere cose oscene in quegli occhi bruni che la fissavano come se fosse una puttana. Tuttavia, nessuno dei due pronunciò una paro la durante il percorso. Quando l’autista le aprì la portiera, con quella sua aria arrogante venata di disprezzo che le faceva venire voglia di prenderlo a schiaffi, Irene fu sorpresa dal numero di auto parcheggiate davanti alla grande casa, del notaio Paulan, con le finestre tutte illuminate. Dall’interno proveniva un gran rumore di voci eccitate. I signori Paulan stavano dando una festa e questo la rassicurò.
L’ingresso pullulava di invitati ma Paulan li abbandonò appena la vide e le si fece subito incontro prendendola sottobraccio e dicendole:
“Venga di sopra, staremo più tranquilli.”
Irene lo seguì pensando che, nonostante tutto, quest’uomo aveva un certo fascino, così elegante e sicuro di sé, ed era di un’eleganza per nulla affettata come quella di suo marito. Al primo piano, il lungo corridoio era deserto ma dietro ogni porta si udivano delle voci ed anche degli strani sospiri. Era possibile che...? Irene si sentì arrossire. Intanto, Paulan l’aiutò a liberarsi del mantello sfiorando, con le dita, i suoi seni che sembravano ancora più grandi nella scollatura a balconcino.
“Lei è magnifica, Irene.., molto eccitante. Sì, veramente...”
Irene spalancò la bocca dalla sorpresa. L’uomo le aveva afferrato con le dita i capezzoli attraverso la stoffa del vestito. Sentì che le tette le si indurivano ed un calore umido si insinuava, mal grado se stessa, fra le sue cosce. Fece il movimento istintivo di ritirarsi.
“La prego... - balbettò, - potrebbero vederci...”
“Andiamo, Irene” fece il notaio con una risatina. “Lei è una di quelle donne che trovano il pericolo sessualmente eccitante. Non può mentirmi. Ormai la conosco bene... ed anche molto intima mente...”
L’allusione la fece arrossire. La mani dell’uomo avevano ripreso possesso dei suoi seni.
“Me li faccia vedere. Mi faccia vedere le sue grosse tette!”
“Ma come? Qui?”
“Sì.”
Il suo sorriso perverso la gelò. Lo sguardo dell’uomo era freddo e senza pietà.
“Ma sarei costretta a... “
“Esattamente. Si tolga il suo bel vestito da sera...”
Docilmente, Irene si denudò le spalle e scoprì il seno nudo. Aveva la pelle d’oca e tremava all‘idea che chiunque, da un istante all’altro, avrebbe potuto fare irruzione nel corridoio. E se fosse stata riconosciuta? Si schiacciò contro il muro, le mani incrociate sul seno ma già sapeva che il notaio non si sarebbe accontentato di così poco. Infatti...
“Continui, la prego. Ora voglio vedere la sua figa.. .”
Conscia dell’inutilità di un rifiuto questa volta ubbidì senza discutere. L’abito cadde ai suoi piedi. C’era uno specchio di fronte. Vedendosi riflessa pensò che si stava comportando come una pazza. Era mezza nuda, solo con lo slip, il reggicalze e le calze, in piedi sui tacchi altissimi. Il notaio le si avvicinò e le carezzò le natiche con un sorriso soddisfatto.
“Sa che posso vedere i peli della sua figa attraverso il tessuto delle sue mutandine. Mutandine nere, Irene... sembrerebbe quasi che lei conosca i miei gusti,”
le infilò una mano fra le cosce.
“Ma guarda, guarda... è tutta bagnata qui...!”
Le dita di Paulan palparono la fessura umida e molle attraverso la seta dello slip. Lei si irrigidì. L’angoscia e l’eccitazione la paralizzavano. L’uomo giocava di proposito con i suoi nervi. Sentì una goccia di sudore imperlarle la fronte.
“Lei è una vera troia, Irene, lo confessi.”
“No,io...”
Paulan le afferrò l’elastico delle mutandine e tirò verso l’alto costringendo la vittima ad alzarsi sulle punte dei piedi. Irene si lasciò sfuggire un gemito. Il cavallo degli slip, attorcigliandosi come uno spago, le affondò contemporaneamente nella vulva e fra le natiche. Il notaio non mollò la presa. Il dolore divenne violento. Sentiva la seta schiacciare la sua clitoride indurita. Ciuffi di peli scuri spuntavano ai due lati. E lei si bagnava.., si bagnava come una cagna...
“Confessa che ti stai bagnando tutta, sporca puttana... confessa che la tua grossa bernarda è fradicia mezza!”
Cercò di dibattersi ma inutilmente. L’uomo la sollevava praticamente da terra. Ad un tratto udì delle voci sulle scale e fu colta da una tale paura da pensare che si sarebbe fatta la pipì addosso. Era là... praticamente nuda con le mutandine totalmente scomparse dentro le sue natiche.
“Bello spettacolo,” mormorò Paulan tornando ironicamente a darle del lei.
“Si direbbe che la sua figa ha mangiato le mutandine, non vede? Deborda da ogni lato... grandi labbra paffute, come piacciono a me... uno potrebbe mangiarsela.. “
“Mi lasci, la supplico...”
L’uomo la lasciò andare ed Irene crollò contro la parete fissando il suo tormentatore con uno sguardo da animale ferito. Ma, intanto, nel suo ventre un fuoco la divorava, qualcosa di ignobile e di vergognoso, un desiderio di godimento inaudito ed incontrollabile... Lui fece una risatina insultante.
“E curioso, tuttavia, che una borghese saggia e pudica come lei si comporti come l’ultima delle puttane.”
Irene alzò gli occhi senza comprendere. Paulan, con un sorriso, le indicò il suo bacino che si agitava negli spasimi di godimento.
“Proprio così.., lei ha indossato le mutandine sopra al reggicalze, come una vera puttana perché era sua intenzione farsi sbattere...”
Irene abbassò lo sguardo mortificata. Non si era resa conto di questo dettaglio quando si era vestita. Paulan aveva ragione.
“Su, adesso se le tolga e mi faccia vedere finalmente la fica.”
“No... è... sarebbe una pazzia...!”
Il cinismo di quell’uomo la rivoltava ma che avrebbe potuto fare? Lui doveva darle ancora il resto del denaro per il suo debito e poi era così eccitante! Più eccitante di qualsiasi cosa avesse mai provato in vita sua. Lo sguardo di Paulan discese di nuovo verso l’incavo delle sue cosce. Dalle scale, una voce femminile chiese dove diavolo si fosse cacciato il padrone di casa. Da una stanza vicina, intanto, si udivano provenire dei gemiti di piacere, come di una donna che venisse scopata. Pensò che sarebbe svenuta. il notaio le aveva fatto scivolare una mano sotto gli slip e giocava con i peli del suo pube evitando, però, di toccarle la vulva bagnata. Irene sentì che stava per godere.
“Queste mutandine la stringono troppo, Irene.., le comprimono la vulva. Sul serio, sarebbe molto meglio se lei se ne sbarazzasse ..”
Cedendo ad un impulso più forte delle paura, Irene piegò leggermente le ginocchia, aprendo le cosce come a facilitare il compito del notaio che ora poté agilmente infilarle un dito nel sesso fradicio. La giovane donna capì, in quel momento, che il suo corpo non le apparteneva più.
La mano continuava a scandagliare la sua figa bombata e quel movimento aveva come effetto di accentuare il disagio indotto dalla stoffa arrotolata del cavallo delle mutandine che le sprofondava nel solco fra le natiche ed in mezzo alle labbra della fica. Nello stesso tempo, però, strusciando sul suo buchetto le procurava una sensazione deliziosa. Batté le ciglia lasciandosi sfuggire un: “Ohhhh!” di sorpresa. Era così sensibile laggiù!
Stava per esplodere e tuttavia non voleva avere un orgasmo, così , nel mezzo del corridoio. Posò una mano su quella dell’uomo.
“SÌ, penso che questi slip mi stringano un po’ troppo,” disse ipocritamente.
“In fondo ha ragione, sarebbe meglio toglierli...”
Lo fece alla svelta, con un movimento furtivo che divertì molto Paulan che ridacchiò
“Bene... è così che lei mi piace, mia cara. Culo nudo e bernarda al vento. E adesso cammini! “
Lo sguardo sorpreso di Irene gli strappò un gesto di impazienza.
“La smetta una buona volta di giocare alla santarellina... e cammini fino in fondo al corridoio, nel modo in cui camminano le borghesi come lei, assennato ma eccitante agitando le anche come si deve.”
Dì nuovo lei lo fissò, ma questa volta con aria spaventata.
“Su, non si preoccupi. Secondo me lei non ha più di una probabilità su tre di essere sorpresa, praticamente nuda, nel mezzo del corridoio. A questo piano non ci sono molti invitati. Giusto i soliti scrocconi che approfittano della mia generosità per telefonare ai loro amici in America.., o per scoparsi mia moglie. La sente, Irene, la sente come grida, la porca?”
Irene non capiva più nulla. Le grida della donna, si trattava veramente di Marina? Si mischiavano al rumore della musica ed al brusio delle voci. Senza quasi rendersene conto cominciò ad avanzare nel corridoio dirigendosi verso quei gridi di piacere che la sconvolgevano e che provenivano dall’ultima porta in fondo
“Ah, sì... sì... dammelo... mettimelo dentro tutto... ah sì!”
Forse era Marina, forse qualcun’ altra. Magari una di quelle donne che vanno alle feste dei ricchi per vedere se riescono a pescare qualcuno con i soldi. Ma quella femmina che urlava di piacere aveva veramente l’aria di apprezzare il modo nel quale era scopata. Irene si mise idealmente al suo posto immaginando il cazzo dello sconosciuto che le perforava la figa. Raggiunse la porta e poi tornò verso Paulan eccitatissima.
“Ecco, è contento?”
“Non c’è male... lo faccia un’altra volta per favore.”
Di nuovo si diresse verso il fondo del corridoio. La donna aveva lanciato un altro grido. Si rese conto che stava camminando in maniera esageratamente lasciva come se in quel modo volesse eccitare Paulan. I suoi seni pesanti ondeggiavano al ritmo dei suoi passi. Quando lei, tornando indietro, giunse alla sua altezza, l’uomo l’afferrò per la vita e le passò una mano sotto le cosce infilandole un dito nella vulva. Irene si contorse facendo finta dì protestare ma ormai decisa ad abbandonarsi. In quel momento, però, si udirono le voci di alcuni ospiti che stavano salendo le scale. Senza scomporsi Paulan disse tornando a darle del tu
“Il pericolo ti eccita, non è vero porca?”
“Sì.. sì….” ammise lei.
“Devi essere più esplicita. Confessa di essere tutta bagnata.”
“E vero, sono tutta bagnata.”
Lui continuò a masturbarle la vulva con le dita. Irene si era addossata alla parete e aveva alzato una gamba perché l’uomo potesse penetrarla più facilmente. Era ormai completamente soggiogata e quasi non le importava più che altri potessero prenderla in quella posizione oscena. Godette, con gli occhi chiusi, senza un grido. Sì, era vergognoso, ma le piaceva moltissimo... le piaceva essere masturbata come una troia, in mezzo alla gente.
Irene tornò bruscamente alla realtà. Per un attimo si era lasciata andare. Niente altro contava se non quelle dita che la portavano al piacere.
Adesso, però, sentendo le voci che si stavano decisamente avvicinando ebbe di nuovo coscienza della sua tenuta impudica. Allontanò allora bruscamente da sé la mano dell’uomo mentre un’espressione di terrore compariva nei suoi occhi, da un istante all’altro gli invitati sarebbero apparsi sul pianerottolo e l’avrebbero sorpresa praticamente nuda ed oscenamente esposta alle dita del suo masturbatore.
Paulan fece un breve sorriso. Era soddisfatto di vederla così spaventata e tremante... completamente nelle sue mani. I pochi secondi che seguirono parvero ad Irene un’eternità. Le voci erano ormai vicinissime. Il cuore in tumulto, Irene indietreggiò appiattendosi contro una porta. Paulan le fece un cenno di assenso.
Allora, nervosamente, la giovane donna abbassò la maniglia e si infilò veloce nella stanza seguita dal notaio. Era una sala da ginnastica, dove evidentemente Paulan e sua moglie sacrificavano alcune ore della loro giornata alla cura del corpo. Le pareti erano interamente ricoperte di specchi nei quali Irene si vide riflessa all’infinito. Il sollievo provato per essersi salvata all’ultimo istante le impedì di vergognarsi per la propria tenuta. Paulan si era richiuso la porta alle spalle e si sentivano due donne conversare dall’altra parte, una conversazione insipida da borghesi viziate, parole vuote di senso che ricordavano ad Irene che anche lei era stata così fino a poco prima. Ormai sentiva di non avere più nulla in comune con quello che era stato il suo mondo. Stava là, nel mezzo della sala, con indosso solo il reggicalze e sui lunghi tacchi a spillo mentre un desiderio di piacere feroce le attanagliava il ventre.
Guardandosi intorno, all’inizio non vide che una serie di strumenti da ginnastica, cavi e pulegge, scale per le flessioni appoggiate alle pareti, sacchi di cuoio per la boxe. Per Irene si trattava di oggetti quasi incomprensibili che attiravano la sua attenzione molto meno della sua figura seminuda imprigionata negli specchi.
Fu solo dopo, quando avanzò di qualche passo in piena luce, che si rese conto della presenza di un uomo che se ne stava appoggiato, con aria indifferente, ad un cavalletto, fumando una lunga sigaretta avvolta in una carta marrone la cui cenere faceva cadere sul pavimento. Era di statura media, piuttosto traccagnotto,
probabilmente indiano o pachistano. Indossava una giacca bianca abbottonata fino al collo e portava un turbante. Irene sì sentì inquieta. Lo sguardo dell’uomo, acuto ed ambiguo, la scrutava senza pietà, appuntandosi sulle sue natiche, sui suoi seni opulenti e sul la sua figa con un’espressione che sfiorava il disprezzo.
“Ah, è qui, Sir Charles..” disse il notaio avvicinandosi all’uomo.
Il tono mondano del notaio non ingannò Irene. Lo sguardo che i due si scambiarono aveva qualcosa di sospetto. Automaticamente, la giovane donna cercò di coprirsi, con la mano, i peli della vulva. Servì a poco. Gli specchi, tutto intorno, riflettevano ogni piega della sua nudità rimandando la curva indecente delle sue natiche e la fessura paffuta e pelosa della vulva che appariva dal retro, sotto i globi carnosi del culo. L’uomo dalla giacca bianca si inchinò cerimoniosamente davanti a lei.
“Lasciatemi fare le presentazioni, Sir Charles Swandhali... la signora de Sentier,” disse il notaio.
Irene tese ipocritamente la mano e l’uomo si piegò a sfiorarla con le labbra.
“Sono onorato,” disse.
Irene sorrise debolmente. In nulla questo rituale differiva da quello di qualsiasi altro avvenimento mondano... a parte il fatto che lei era nuda e che l’uomo fingeva di non accorgersene.
Sir Charles doveva essere un tipo freddo come il ghiaccio, uno di quegli indiani, pensò Irene, che rimpiangono la grande epoca del colonialismo inglese... e questo malgrado il colore della loro pelle.
Fatte le presentazioni, con un tono altrettanto cerimonioso Paulan disse
“Vogliate scusarmi ma devo occuparmi degli altri invitati. Tornerò fra poco...”
“Prenda pure tutto il suo tempo, amico mio,” fece l’altro con un sorriso.
A questo punto, per l’ennesima volta, Irene pensò che sarebbe svenuta. Si sarebbe trovata sola con questo sconosciuto’ Ma ormai non avrebbe dovuto più stupirsi. Nuda, la figa colante, totalmente vulnerabile com’era, sapeva bene di essere l’oggetto dì un odioso mercato anche se si sforzava ancora di negarlo a se stessa. In realtà era inutile illudersi. Aveva lasciato i suoi abiti nel corridoio e le due donne li avevano certo trovati, così per lei non c’erano possibilità di uscite onorevoli da quella situazione. Paulan se ne andò ed il silenzio, nella grande sala di ginnastica, divenne insopportabile. Irene non si era sentita mai così a disagio in vita sua e, per darsi un minimo di contegno, si mise a guardare le travi del soffitto.
“Strana coppia, i Paulan,” disse l’uomo alla fine con tono di staccato.
La giovane donna lo guardò sorpresa. “Sul serio?” esclamò.
“Almeno a ciò che si dice. Ma, probabilmente, si tratta solo di pettegolezzi, di perfide chiacchiere prive consistenza.”
“Senza dubbio...”
Mentre parlava, Sir Charles continuava ad aspirare il fumo con voluttà dalla sua sigaretta. “Si dice che Marina e suo marito... amino spartirsi le reciproche conquiste femminili.”
“Ah, davvero?” Irene lo vide avvicinarsi ad uno strano apparecchio dove erano fissate delle sbarre cromate intorno ad un sedile di cuoio.
“Tutto lo spirito dell’Occidente è in questa macchina...” commentò l’uomo accarezzando il cuoio del sedile con la punta di un dito.
“Il culto del corpo, voglio dire. Nel mio paese, invece, siamo più sensibili ai problemi dello spirito.”
“Oh, ma non sono che apparecchi che servono a dare l’illusione di restare giovani...” disse Irene che, però, già prima di terminare la frase, si sentì in trappola. Lo sguardo dell’indiano si era fatto ancora più infido e sornione e lei ebbe un brivido di paura.
“Non le piacerebbe di sapere come funziona questa macchina, signora de Sentier? Sa, le sarei molto grato se lei accettasse di...”
La fissò con il suo sguardo penetrante sfiorandola dolcemente sulle reni con un dito e lei, come una sonnambula, si avvicinò alla macchina. Quell’uomo aveva un fascino malsano, ipnotico, contro il quale Irene nulla poteva. Docilmente si lasciò guidare e si allungò sul sedile. L’indiano le prese delicatamente il braccio, lo sollevò e le avvolse, intorno al polso, una correggia di cuoio
“E’ sicuro che sia necessario legarmi ?” protestò lei debolmente, senza convinzione. L’altro non rispose e Irene, passivamente, permise che l’indiano le legasse anche l’altro braccio. Si guardava riflessa negli specchi e vedeva una donna bruna che le somigliava riversa su una strana macchina, le cosce divaricate in maniera oscena. Non poteva sfuggire a quell’ immagine dovunque posasse gli occhi. Da ogni parte, un’altra Irene la fissava offrendo l’indecente spettacolo di una vulva troppo pelosa con le mucose rosse e luccicanti che si aprivano come una ferita. Sir Charles utilizzò due altre corregge di cuoio per legarle le caviglie, prima di ancorarla poi definitivamente al sedile imprigionandole il corpo con una larga cintura che era saldamente fissata ai due lati dell’apparecchio, chiudendola all’ultimo foro. Irene aveva la sensazione di soffocare. I gesti dell’uomo erano precisi e lui non diceva una parola. Il silenzio opprimente della palestra non era turbato che dai rumori della festa che giungevano dall’altra parte delle pareti.
Voci indistinte alle quali si mischiavano gli accordi desueti di un quartetto d’archi. Sarebbe bastato che un invitato spingesse la porta della palestra perché lei venisse scoperta nuda e oscenamente legata a quell’apparecchio. Era spaventoso, eppure questo pensiero aumentò il suo turbamento erotico. Paulan aveva ragione, la paura la eccitava enormemente. Dalla sua figa già umida grosse gocce di umori presero a colarle lungo le cosce andando poi a cadere sul sedile di cuoio.
Sir Charles aveva fatto un passo indietro per meglio contemplare il risultato del suo lavoro. Irene si torse impercettibilmente ma quelle contorsioni non servirono che a mostrare ancora di più l’ingresso della sua vulva allo sguardo dell’indiano ed a fare sporgere maggiormente i suoi seni. Quando l’uomo si piegò di nuovo verso di lei, Irene si lasciò sfuggire un grido di angoscia.
“Temo... temo di non essere preparata per questo tipo di ginnastica...” farfugliò, le guance in fiamme per la paura.
Senza darle ascolto, l’indiano le strinse con forza le tette, palpandole da intenditore come ad apprezzarne l’elasticità e poi le afferrò i capezzoli fra il pollice e l’indice. Erano divenuti enormi, quei capezzoli, gonfi di un’eccitazione tremenda e lui glieli strizzò violentemente infilandole le unghie nella carne. La giovane donna si lasciò sfuggire un gemito di dolore. “Nnnhoooouuuoooo…”
“Non si preoccupi, Irene.., insieme riusciremo certamente a capire l’utilità di questo strano apparecchio.”
Mentiva, ma riconoscerlo fu per lei tremendo perché era come gridare ad alta voce che il suo più profondo desiderio era quello di essere umiliata. Alzò gli occhi verso l’armamentario metallico che pendeva sopra alla sua testa. La bizzarra ragnatela di corde, pulegge ed anelli la inquietava.., quella macchina le sembrava più vicina ad uno strumento di tortura che ad un attrezzo da ginnastica. Prendendo un’altra corda di cuoio, Sir Charles gliela passò fra le natiche, poi, tirando all’improvviso con forza, l’ancorò ad un moschettone sigillandole così la vulva. Irene si torse dal dolore. Lo sfregamento brutale di quella correggia sulla sua carne sensi bile le parve come una pugnalata al basso ventre.
“Mi... mi sta facendo male...”
Lo sentì ridere dietro di lei e lo cercò con gli occhi nello specchio. Perché le si era messo alle spalle? Forse, pensò, per non farle da schermo mentre lei si guardava riflessa nello specchio in quella umiliante posizione con la vulva spalancata.
Sì, doveva essere questo... e ciò che vedeva, meglio, ciò che non poteva non vedere, la riempiva di un’eccitazione bestiale. Le labbra del suo sesso sembravano uscire dal suo ventre e la posizione consentiva che anche l’interno della sua figa fosse esposta completamente aperta e umida di succhi.
Come per verificare se le corde erano ben tese, Sir Charles tirò di nuovo sulla correggia di cuoio che divideva la vulva. Il dolore che Irene provò fu ancora più acuto della prima volta: tutto il suo corpo fremette e si tese come sotto una scossa elettrica. “Aaahhhaaaauuuaaahhhhh…….ma le ho già detto che mi sta facendo maleeee..!” Vide che le pupille dell’uomo si accendevano di una luce come fossero candele. Con un sorriso, mentre il tono della sua voce restava indifferente e monocorde, l’indiano disse:
“Certamente, signora de Sentier. Lei non è qui per questo?” Terrorizzata, Irene fissò la piccola pinza che scintillava fra le sue dita. La mano dell’uomo scese lentamente verso la biforcazione delle sue cosce. Irene aprì la bocca per urlare ma nessun suono le uscì dalle labbra... comunque sapeva che non sarebbe servito a nulla.
“La pregooo... la pregooo, Sir Charles... vada a chiamare il signor Paulan... Non vogliooo.., non voglio piùuuuuhhh...”
L’uomo osservò, con un’espressione divertita, quel corpo legato che si contorceva convulsamente sul sedile della macchina. Irene era in preda al panico. Nei suoi occhi si leggeva una luce di terrore ed un filo di saliva le colava dalla bocca aperta.
“Paulan è occupato ad intrattenere gli ospiti, mia cara... non sente la musica del minuetto?”
Irene fece una smorfia. Le note dei violini filtravano attraverso la parete degli specchi insieme a risa e mormorii di voci lontane e soffocate. Si sentì ancora più sola, totalmente impotente. All’improvviso, la piccola pinza metallica morse uno dei labbri della sua vulva, tirandolo verso il basso. “Uuhhhhhmmnnnnooo”
Lei si lasciò sfuggire un singhiozzo di dolore mentre le sembrò di udire come un applauso in qualche parte lontana della casa. La bocca serrata, scosse la testa violentemente. Subito dopo fu la volta dell’altro labbro al quale Sir Charles non ebbe difficoltà ad applicare una seconda pinza. Questo provocò un tintinnio metallico quando le due pinze
batterono una contro l’altra tirando verso il basso, con il loro peso, le carni rosse della sua vulva.
“Mi levi subito queste cose... la prego! Mi deformeranno...”
“Non abbia timore,” disse l’indiano divertendosi a far muovere le pinze. “Sappia che alcuni uomini obbligano le loro donne a portare dei pesi alle labbra del sesso perché diventino più lunghe. Ma le sue non hanno bisogno di questo trattamento, signora de Sentier. Sono già abbastanza grosse e sporgenti.”
Irene chiuse gli occhi, singhiozzando. Le labbra della sua vulva, mostruosamente tese, mostravano l’interno del calice dalle carni rosate e umide al vertice del quale la sua clitoride purpurea si protendeva eccitata come un minuscolo pene. Sir Charles si piegò su quel piccolo organo e l’aspirò nella propria bocca mentre Irene, impotente, sbatteva pateticamente le palpebre piena di vergogna. Sentì che un flusso di sangue le affluiva alle tempie.
L’indiano, intanto, continuava a succhiarle la clitoride tenendola ora tra i denti. L’aspirava golosamente passandoci sopra la lingua. Irene sentì lo spasmo avvicinarsi e si arcuò sul sedile, i polsi e le caviglie tormentati dai lacci di cuoio. L’altro, però, non le dette il tempo di godere. La sua bocca si staccò dalla sua figa tumefatta e gonfia di eccitazione e subito dopo lui gliela schiaffeggiò con il piatto della mano strappandole un grido di dolore misto a piacere.
“Ecco, Irene, impari. Non lo sa che un po’ di sofferenza non ha mai fatto male al piacere? Ai contrario... “
Completamente fuori di sé lei gli rivolse uno sguardo supplice:
“Non ne posso più... mi... mi scopi...”
“Perché questa ansia di affrettare le cose? Gliel’ho detto, un po’ di dolore aiuta il piacere, senta...”
La mano di Sir Charles scese fra le sue cosce e le sue dita strinsero le pinze con una certa forza. Irene si arcuò sulla sedia torcendosi come un animale preso in trappola e spalancando gli occhi pieni di terrore. Un istante dopo, l’uomo strinse di nuovo le pinze e la giovane donna gridò di dolore ma, nello stesso tempo, venne scossa da un orgasmo violentissimo.
L’indiano riprese a succhiarla e lei subì questa umiliazione con una gioia profonda, agitata da orgasmi continui che la lasciavano stremata, mugolando come una cagna, contorcendosi tutta.
“Le piace, è vero?”
“Sì, sì, SIIIIIììììììì…….” ansimò lei.
Sir Charles le lasciò qualche secondo di respiro. Come una pausa fra una scena teatrale ed un’altra pensò lei amaramente. Il modo con il quale l’uomo l’aveva fatta godere aveva qualcosa di soprannaturale che la turbava profondamente e che non riusciva a spiegarsi. Fissò il suo carnefice ma nessuna emozione si poteva leggere sul quel volto impassibile.
“Lei deve approfittare, Irene. Deve approfittare dei dolore come del piacere. E questo il cammino della saggezza...” sorrise l’uomo come in risposta a quello sguardo.
Lei non avrebbe potuto dire se fosse sincero o semplicemente di un cinismo senza limiti ma ormai niente altro contava se non quel terribile supplizio che stava subendo. Irene si morse le labbra quando vide l’uomo avvicinarsi ad una rastrelliera dove erano allineate una serie di fruste di cuoio e ne prese una. Comprendendo le sue intenzioni si mise a supplicano ma ancora una volta invano. Fra le sue cosce divaricate il suo sesso aperto, luccicante di umori, era una preda troppo allettante. La frusta si abbassò seccamente sul suo triangolo di peli pubici.
Irene lanciò un grido acuto. “Aaagggggrrrraaaauuuuuhhhhhh”
Tutto il suo corpo venne scosso da tremiti. Freddamente, l’uomo le frustò la vulva a più riprese, col pendola sulla clitoride e sull’interno delle cosce. Strisce rossastre apparvero sulla sua pelle bianca. La figa le bruciava. Le sue contorsioni avevano, riflesse nello specchio, l’aspetto di una danza oscena. Continuò a piagnucolare per molto tempo dopo che la punizione era cessata.
Solo a quel punto l’indiano le forzò le dita nella vagina torcendogliele dentro senza dolcezza e lei gemette di nuovo impotente davanti a quella mano che la violentava impietosa mentre obbrobriosi brividi di voluttà le scuotevano il bacino. Non era ormai più che due fori vergognosamente esibiti davanti agli specchi nei quali poteva scorgere, riflesse, le falangi dell’uomo sparire nella sua vulva, risucchiate dalla sua carne umida. Tutto ciò produceva dei rumori osceni. Ma, più quei rumori erano osceni... e più lei godeva...
Intanto, Sir Charles le parlava. La sua voce non era che un bisbiglio e solo un lieve ansito ne tradiva l’eccitazione. Irene capì che, per quest’uomo, l’unica cosa che contava era umiliarla.
“Lei è una depravata, Irene... lo sa?”
«”Sì, sì...»
Irene si contorceva, si avvitava da sola sulle dita che la violavano mentre si guardava nello specchio socchiudendo ipocritamente gli occhi. Adorava la freddezza e il distacco con cui quella mano le frugava la vagina. Adorava i rumori osceni che accompagnavano quel gesto ogni volta che l’indiano entrava in lei. Aveva perduto ogni dignità ed ogni rispetto di sé.
“Tutta...” si sentì dire come in sogno.
“Tutta la mano fino al polso, è questo che mi sta chiedendo, no?” Le fece eco
Sir Charles.
Lei scosse disperatamente la testa per negare.
“No... solo... mi tocchi un po’ più in alto...”
“Paulan non mi aveva informato che lei fosse così viziosa... cosa le devo toccare, mia cara?”
“La mia... la mia clitorideeeee...” urlò la giovane donna sull’orlo dell’ orgasmo.
“Vuole essere masturbata, è così?”
“Sì, sììììì, me la tocchi, me la pizzichiiiii...!”
Ansimava. Le dita di Sir Charles le riempivano completamente la cavità vaginale mentre il pollice le sfiorava il grosso bottone gonfio ed eretto. Irene tremava di desiderio mentre la sua figa colava a più non posso. Avrebbe voluto che lui glielo schiacciasse ma inutilmente, l’indiano non si decideva a farlo. Umiliandosi definitivamente esclamò esacerbata: “Ohhh... lei!”
“Sa che cosa mi affascina di voi europei?”
Quella voce volutamente zuccherosa la irritava. Si sentiva come paralizzata da un fiotto di sensazioni contraddittorie fra le quali, però, dominava quella che lui la prendesse... la chiavasse bestialmente.
“Sì...” riprese l’uomo con un sorriso cattivo continuando a forzarle le dita nella passera. “Mi ha sempre affascinato il fatto che le donne occidentali sprechino così tanto tempo e così tanti soldi per farsi belle solo.., per eccitare gli uomini. E un po’ ridicolo, non trova?”
Irene non rispose. L’uomo si era inginocchiato davanti a lei, il naso a pochi centimetri dalla sua figa. La stava ammirando da vicino, guardando dentro il suo calice umido e gonfio di desiderio. Intanto, la sua mano le palpava le natiche e si insinuava nel suo solco. Irene alzò gli occhi verso lo specchio e vide l’indice di quella mano scivolare lentamente fino al bordo del suo ano.
“Ecco un altro foro che palpita di impazienza.., è già tutto aperto,” commentò l’indiano.
“No, noooo….la pregooo!”
L’unghia puntuta le graffiò l’orlo dell’orifizio. Irene piagnucolò di vergogna cercando di stringere le natiche ma senza riuscirci,era troppo divaricata sull’apparecchio. Il dito le entrò nel retto e lei gemette debolmente.
“Si direbbe che le piaccia, si direbbe proprio che ne vada pazza!”
“Si fermi! No, non voglioooo...!”
La testate girava. Molto lontano, le parve di udire uno scroscio di risa. Si sentiva sola, abbandonata nelle mani di un sadico, tradita dalla buona società alla quale apparteneva. L’indice dell’indiano le scandagliava il culo meccanicamente. Era umiliante ma, da questa umiliazione, nasceva suo malgrado un piacere
indicibile. Si inarcò, i seni in sussulto, le cosce tremanti. Lui ritrasse il dito di colpo ed Irene restò a bocca aperta senza capire. Perché faceva questo?
L’uomo le girò le spalle andando dietro alla macchina alla ricerca di qualcosa.
Le ci volle un paio di secondi per afferrare a che poteva servire lo strano oggetto che lui, adesso, teneva nella mano. Quando lo capì, ebbe un tremito di paura, era un dildo, un doppio fallo di avorio di misura impressionante.
“Ohhhh, nooooohhh...!”
La grandezza di quell’arnese la terrorizzava e I’attraeva ad un tempo. Non aveva mai visto qualcosa di simile. Il grosso dildo riproduceva il pene di un uomo nei suoi minimi particolari fino all’ogiva del glande. Alla base di questa verga, ce n’era una seconda, un po’ più piccola, che permetteva di effettuare una doppia penetrazione. Irene gemette. Non osava pensare ad un’eventualità così orribile.
“No... no, la prego,” supplicò per un’ennesima volta. “Non con quello! Farò tutto ciò che vorrà.., tutto... ma non con quello...!”
Sir Charles sogghignò. Lei stessa non sapeva perché si stesse lamentando così dato che tutto il suo corpo fremeva di desiderio. Ma già lui stava posizionando il doppio fallo all’entrata della sua vulva umida.
“Confessi una buona volta che non desidera che questo... lo confessi, porca! “
Ma questo lei non poteva proprio confessarlo. Chiuse gli occhi per non vedere.., e per meglio sentire! La punta del dildo di avorio le entrò nella figa. Ebbe un sussulto. Era dura e fredda ma, ciò nonostante, lei avvertì il suo desiderio aumentare. Si stava bagnando come una troia e fra poco l’indiano le avrebbe infilato quell’oggetto mostruoso nella fica come si infila un coltello in un panetto di burro. L’immagine le rivoltò lo stomaco. Di colpo l’uomo tirò fuori l’arnese dalla sua vagina e glielo presentò davanti alle labbra.
“Mi faccia vedere, - disse - mi faccia vedere come succhia.. .”
Irene avrebbe voluto gridare. Il dildo, quello più grosso, scivolò nella suo bocca e lei lo sentì avanzare, enorme, fino in fondo alla sua gola, provando una angosciosa sensazione di soffocamento. Quella cosa era dura ed aveva lo stesso gusto del suo sesso. L’altro spunzone dell’oggetto le sfregava la carotide. Umiliata oltre ogni dire, le lacrime che le scendevano lungo le gote, lei mimò un pompino grottesco, strangolandosi a metà. Ad un tratto, sentì che le corde che le stringevano le caviglie venivano allentate e sospirò di sollievo ma la sensazione di libertà fu di breve durata.
Sir Charles, infatti, non lasciò le corde ma le tirò verso l’alto costringendola a portare le ginocchia a contatto del petto. Già il dildo che aveva in bocca le impediva di respirare. Ora fu ancora peggio. L’uomo legò i lacci di cuoio a qualche gancio sopra alla sua testa per costringerla a restare in quella posizione oscena e sconfortevole. Lei non vedeva più nulla tanto i suoi occhi erano pieni di lacrime amare.
“Ha succhiato bene il dildo, signora de Sentier?”
Per tutta risposta le uscì un gorgoglio grottesco dalla gola. Così come si trovava mostrava i suoi due orifizi come mai prima. La sua fenditura si offriva completamente allo specchio, vergognosamente gonfia e umida di umori.
L’indiano le tolse a questo punto il dildo di bocca per aggiustarlo contro la vagina incuneandone la punta dentro la fenditura mentre il secondo fallo si posizionava sul buco del suo sedere. Sconvolta, Irene si dibatté furiosamente, tirando sulle corde che le stringevano i polsi. Quando lui spinse quell’orrido oggetto dentro di lei, ebbe la sensazione che la sua fìga si rovesciasse come un guanto. Urlò, ma il fallo di avorio continuò a penetrare per molti centimetri distendendo al massimo le pareti della sua vagina. Poi, l’indiano fermò la marcia dello strumento per aggiustare meglio l’altro spunzone al centro dell’orifizio anale, proprio nel piccolo cratere violaceo che palpitava, suo malgrado, già bene umidificato dai succhi colati dalla vulva.
Irene ebbe la sensazione che questa seconda verga non sarebbe mai riuscita a penetrarla. Ma quando Sir Charles spinse con forza, i due falli di avorio cominciarono, implacabili, a scivolarle dentro simultaneamente. All’inizio non fu doloroso e lei, a torto, si sforzò di rilasciare i muscoli dello sfintere. Era sorpresa dalla facilità con la quale l’arnese trovava la sua strada nel retto che si apriva senza fatica. Dopo alcuni centimetri, tuttavia, quella sensazione si mutò in supplizio come se la stessero impalando. Spalancò la bocca dal dolore e dallo stupore e in quell’istante, con crudeltà studiata, l’indiano le infilò di colpo ciò che restava del dildo in fondo al culo ed alla fica. Ora, piacere e dolore si
mescolavano, indissociabili. Il dildo più grosso la faceva godere nella fica ma quello più piccolo le tormentava l’ano. Irene lanciò un grido acuto.
“Aahhhgghhhaaahhuuuuhhhhh”
Di nuovo, molto lontano, le parve di udire delle risate e degli applausi. Poi tutto cominciò a girare. Sir Charles si mise a pistonarle il culo e la figa con violenti colpi viziosi. Irene si vedeva riflessa nello specchio, una donna accartocciata su uno strano apparecchio, le cosce all’aria, i fori esposti. Una vera puttana che non viene neppure scopata, solo due buchi dentro i quali vengono infilati, sadicamente, dei barbari strumenti. I due falli le scanalavano la vagina e l’ano allo stesso tempo. Lei cominciò a singhiozzare in preda all’estasi. Era troppo... senza più alcun contegno si mise a godere, tremando, piangendo, supplicando. Non la finiva più di avere orgasmi. Mai...mai in vita sua, aveva provato una sensazione così straordinaria. Un’ultima volta Sir Charles piantò il dildo biforcuto in fondo al suo ventre ed al suo retto e ve lo lasciò. Poi, si allontanò un po’ dalla macchina, come per permetterle di meglio osservare l’oscenità dello spettacolo che stava offrendo. Irene si vide riflessa nello specchio, l’interno delle cosce bagnato di umori, chiappe divaricate, figa e ano esposti come mai. Cercò lo sguardo dell’indiano.
“Mi chiavi... - supplicò, - . . .mi chiavi... mi chiavi...!”
Sir Charles ridacchiò come al solito e lei si sentì sprofondare nella vergogna. Non per aver implorato di essere scopata, ma per essere ormai soltanto due fori ai quali veniva rifiutato perfino il vergognoso piacere di essere chiavata da uno sconosciuto. Ciò che aveva subito l’aveva completamente infranta degradandola al livello di un animale. Aveva la sensazione di non appartenersi più. Era solo una cosa, una cosa che chiunque avrebbe potuto possedere. Questo indiano o Paulan o un altro qualsiasi...
Poi vide Sir Charles avvicinarsi alla specchiera, proprio davanti a lei. Poteva scorgerlo attraverso le sue cosce aperte e ripiegate contro le sue grosse poppe. Le dita dell’uomo si infilarono in una fessura e lei vide la specchiera tremare. Si udì un rumore di cardini, subito sommerso da risate sempre più distinte ed a Irene parve, per un istante, di essere vittima di un’illusione ottica. Ma poi comprese che non si trattava affatto di un’illusione, Io specchio si apriva lentamente. Terrorizzata si lasciò sfuggire un lamento simile a quello di un animale ferito che si mutò in un urlo di rabbia e di rivolta impotente man mano che lo specchio,
girando su se stesso, si spalancava su un’altra stanza appena un po’ più piccola di quella dove lei si trovava. Una stanza ammobiliata come una sala di spettacolo. C’erano, in quella stanza, seduti su sedie stile Luigi XV, una trentina di personaggi, donne e uomini di tutte le età, vestiti da sera, che la guardavano scambiandosi risate e commenti. In prima fila si trovavano Marina Paulan e suo marito.
Dalla mattina in cui era uscita dal casinò, indebitata come non mai, Irene aveva pensato molte volte di aver toccato il fondo. Capiva, adesso, che non era vero. La punizione più terrificante era quella che le veniva inflitta in questo momento, offerta in pasto agli sguardi malevoli delle donne della buona società, rovinata per sempre nella sua reputazione.
Dietro gli invitati, il quartetto d’archi cominciò a suonare una lieve melodia, perfettamente incongrua per l’occasione. Irene si mise a piangere e non protestò neppure quando Sir Charles le posò sul volto una maschera di cuoio. Almeno non avrebbe visto lo spettacolo abbietto della sua totale umiliazione.
Era cieca simile ad un insetto di pallida carne inchiodato su un barbaro apparecchio. Sir Charles aveva tagliato i lacci di cuoio che le imprigionavano le caviglie ma i suoi polsi restavano solidamente legati sopra alla sua testa. Le sue sensazioni erano ridotte a quei mormorii mondani’ di cui nel tintinnio dei bicchieri e nella musica degli archetti afferrava solo frasi mozze, ed alla pressione dei falli di avorio nei suoi orifizi. La maschera di cuoio le copriva completamente il volto.
A parte due minuscoli fori per le narici, la guaina aveva solo un’altra apertura che le lasciava, a fatica, sporgere le labbra. Prigioniera di questa guaina che si stampava sui suoi tratti come una seconda pelle, Irene traspirava atrocemente. Sentì la voce di Sir Charles dire,
“Su via…. si rilassi cara Irene. Lei si è meritata una ricompensa. Ormai è diventata una schiava perfettamente sottomessa... pronta a tutto per soddisfare i desideri più viziosi dei suoi amanti... tre buchi... niente altro che tre buchi deliziosamente accoglienti.”
Irene gemette debolmente. Sir Charles aveva afferrato il manico del doppio dildo e l’aveva estratto dal suo sesso d’un sol colpo. Provò una sensazione di vuoto e, cosa ancora più umiliante, sentì che i suoi orifizi dilatati, non riuscivano a richiudersi. La sala applaudì come se la si felicitasse di mostrare quei buchi spalancati così docilmente. Per la vergogna, il suo cuore cessò per un istante di battere. Sotto la maschera di cuoio, le lacrime si mischiarono al sudore. Sentì poi l’indiano, premere le ginocchia, divaricando così ancora di più le cosce. Poi un sesso duro e pulsante venne a premere contro la sua vulva aperta.
“Non è questo che vuole, Irene? Essere chiavata?”
“Mmmmh,…..” fu la sola risposta che la poveretta riuscì ad articolare attraverso la maschera.
Quel pietoso mugolio strappò al pubblico, soprattutto quello femminile, una salva di risate. Le troie del gran mondo si godevano lo spettacolo. Una di loro, una signora della buona società, giaceva legata con le gambe aperte su quello strumento di tortura umiliata per sempre. Quale occasione migliore per gioire sadicamente della disgrazia di un’altra ?
“E proprio questo che vuole, non è vero,” insistette Sir Charles. Lei rimase in silenzio. La voce dell’indiano le parve, all’improvvisto, lontanissima. In realtà non le importava più nulla. Privata completamente del suo orgoglio, la testa vuota, solo il suo corpo contava. Si bagnava tutta all’idea di essere infilata dall’indiano. Si torceva lascivamente, senza ritegno, per cercare di impalarsi sul fallo che si strusciava lentamente sulla fessura della sua passera senza però penetrarla.
“Sì, è questo che vuole, la porca!” urlò istericamente una donna fra il pubblico. “Vuole essere infilata, penetrata fino ai coglioni. . che le si spacchi la...”
“Andiamo, mia cara, lei sta perdendo la testa... un po’ di contegno, la prego!” la rimproverò Marina Paulan e Irene pensò che questa frase era assurda, come tutto il resto d’altronde, a cominciare dalla musica del quartetto d’archi che aveva attaccato un pezzo di Mozart.
L’uomo le infilò dentro l’uccello. Lo sentì penetrare in lei e piantarsi profondamente nel suo ventre. La verga non era grossa se paragonata all’enorme fallo di avorio e Irene cominciò ad agitarsi come impazzita per ingoiarla tutta.
“Non ha più alcun pudore,” commentò una donna dalla voce volgare.
Un’ altra gridò che le si facesse male. Allora, Sir Charles, afferrate le labbra della sua vulva, le tirò a sé mentre la scopava con violenza.
“Sì... sì... in fondo alla figa!” gridò la femmina dalla voce volgare.
“E ‘così che le piace essere scopata, non è vero, Irene? In fondo... molto in fondo!”
Le parole di Sir Charles furono sottolineate da una serie di colpi di reni che lasciarono Irene ansimante di piacere. Un “Sì” soffocato filtrò attraverso la maschera. Le dispiaceva non poter guardare il viso dell’indiano mentre la scopava ma ciò che provava valeva tutti gli specchi del mondo. Ad ogni colpo di verga, il laccio di cuoio le tagliava in due la vulva sfregandole la clitoride e inondandola di sensazioni incredibili. Anche Sir Charles perse finalmente la testa. Le sue unghie affondarono nelle sue tette e mentre Irene veniva scossa da un terribile orgasmo, quasi nello stesso istante lui le riversò nella figa un fiotto interminabile di sperma bollente. Ma immediatamente, ritrovando tutta la sua freddezza, disse sarcastico
“Sì, non ci sono dubbi. Tutto ciò le piace moltissimo signora de Sentier!”
Subito si udì una voce femminile commentare “Certo che le piace alla puttana!”
Irene ignorò quell’insulto volgare limitandosi a tirare fuori la lingua ed a leccarsi le labbra. Un istante dopo, però, provò come un colpo al cuore. Ciò che le stava accadendo non le parve possibile, sentiva di nuovo l’uccello duro infilarsi nelle pieghe della sua figa. Era ancora più duro di prima e quando si immerse tutto dentro di lei, le sembrò anche più grosso... quasi diverso. Ma smise subito di pensarci. Era così bello e aveva preso di nuovo a godere. Mai, anche agli inizi dei suo matrimonio, Edoardo era riuscito a strapparle tanto piacere come questo indiano.
“Lo senti, lo senti come ti rimugina bene la figa, puttana? Lo senti tutto, non è vero?”
Sir Charles aveva preso a darle brutalmente del tu. Questo le fece l’effetto di uno schiaffo. Preferiva il tono cerimonioso e ipocrita, preferiva la falsa conversazione distaccata che contrastava con gli atti avvilenti che era costretta a subire. Tuttavia, non solo il modo ma anche il tono di quella voce non le sembrava più lo stesso...
Intanto i coglioni dell’uomo battevano contro le sue natiche mentre quel grosso cazzo duro la penetrava fino alla cervice. L’uomo la chiavava con piccoli movimenti rapidi in modo diverso da prima e Irene godette per una seconda volta mentre un fiume di sperma le si riversava nella figa.
Fu solo un istante più tardi che cominciò a capire...
L’uomo estrasse la verga già molle dalla sua vagina bagnata per rimettergliela nella figa più dura e più grossa di prima. A questo punto fu tutto chiaro. La stavano chiavando a turno, dovevano esserci molti uomini in attesa di infilare il loro cazzo nella sua passera mentre le mogli guardavano lo spettacolo. Sconvolta da ciò che le stavano facendo cercò di dibattersi ma i lacci di cuoio non le consentivano alcun movimento.
Intanto, la verga dello sconosciuto continuava a scanalarla a gran colpi. Lei sussultava sul sedile dell’apparecchio mentre, mal grado l’orrore di ciò che le capitava, il suo piacere montava sempre più forte nel suo ventre. L’uomo eiaculò e subito un altro lo sostituì pistonandola con inaudita violenza. Poi, all’improvviso, tirò fuori il fallo dalla sua figa e, con un sol colpo, la inculò selvaggiamente.
Irene venne travolta da un piacere bestiale.
Gli ultimi invitati avevano lasciato la casa. I musicisti stavano riponendo i loro strumenti. Irene si alzò sfregandosi i polsi arrossati dai lacci di cuoio. Era in uno stato catalettico ed il notaio Paulan dovette aiutarla a scendere dall’apparecchio. A stento riusciva a stare in piedi.
La signora de Sentier alzò verso di lui uno sguardo umido, cercando su quel volto una qualche risposta a ciò che era avvenuto. Si aspettava forse un’ultima crudele umiliazione, ma il notaio restò impassibile. Irene, vedendo il suo abito tutto spiegazzato in un angolo della stanza lo raccolse e cominciò a rivestirsi.
Paulan andò a pagare i musicisti. Il violoncellista barbuto le lanciò uno sguardo impietoso. Il modo con cui si guarda una puttana, pensò la giovane signora de Sentier, chiedendosi se anche loro avessero approfittato della situazione, mentre si contorceva per infilarsi il suo abito verde smeraldo. Sapeva che non avrebbe mai potuto dimenticare quella notte. Sarebbe stato un ricordo
doloroso e confuso ad un tempo, gli uomini ubriachi che le infilavano il cazzo uno dopo l’altro, o contemporaneamente, nella figa e nel sedere, nella figa e nella bocca, nella bocca e nel culo. Tutte le configurazioni erano state sperimentate.
Lei non aveva potuto vedere i loro volti e solo quando le avevano tolto la maschera si era accorta che almeno una ventina di uomini dovevano averla scopata. Alcuni, forse, anche due volte.
Comunque, che appartenessero o meno al bel mondo, quei tipi non erano stati teneri con lei, ma l’avevano chiavata e sodomizzata fino a farle male.
Si trascinò nel corridoio cercando invano le sue mutandine con il culo che le doleva. Marina Paulan, nuda, era stravaccata sulle scale, in mezzo ad un cumulo di cicche e di bicchieri di champagne rotti o rovesciati. Sentì che il notaio la prendeva per un braccio e si chiese se anche lui l’avesse scopata.
L’uomo estrasse dal taschino della giacca l’assegno con la cifra mancante e glielo infilo tra le tette.
“Ecco, questo è il posto giusto al caldo e al sicuro”
Irene fece una smorfia e con un soprassalto di orgoglio piuttosto ridicolo,
“ Ha avuto da me ciò che desiderava allora ?”
“E lei …?” La freddezza dell’uomo la deludo. Lui l’accompagnò fino alla porta.
“Molto bene..” poi allungò la mano e la salutò. Irene si fermò sulla soglia, le pareva come se avesse sognato, che nulla di ciò che era accaduto fosse accaduto veramente. Di impulso si girò verso il notaio e si alzò sulle punte dei piedi per baciarlo, sulla guancia, forse per ringraziarlo dell’assegno, oppure per quello che gli ha fatto provare, o magari per entrambi, ma l’uomo non glielo permise.
“Andiamo, ... signora de Sentier, lei sa che non si baciano le puttane,”
disse crudele.
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