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Gay & Bisex

Bianconeve e i sette nani 1


di ettoreschi
24.05.2010    |    18.459    |    1 7.9
"Allora cominciò a percuotere le terga con possenti colpi del suo randello con una violenza tale da far tremare il tavolo cui era incatenato lo sventurato..."
Un giorno ho trovato un racconto lesbico di “Sebastian Steve Merlin” che aveva per protagonista la principessa della favola e questo ha generato l’ispirazione per questa modesta narrzione.

Era una splendida giornata d’inverno e la regina era seduta a cucire quando si punse il dito con l’ago e caddero tre gocce di sangue sulla neve. Essa n rimase così colpita che espresse il desiderio di avere un figlio o una figlia con i capelli neri come l’ebano, le labbra rosse come il sangue e la pelle bianca come la neve. Qualche mese dopo fu accontentata e nacque un bimbo bellissimo proprio con queste cartteristiche e gli fu dato un nome insolito per un maschio ma rispecchava pienamente le sue peculiarità fisiche “Bianconeve” perché la sua pelle era bianca come la neve, le sue labbra carnose e rosse, i suoi capelli neri.
Ma la gioia di un figlio, il primo, venne presto soffocata dal dolore per la morte del re avvvenuta in battaglia. La regina doveva trovare presto un nuovo compagno perché il rischio che il vasto territorio fosse oggetto di saccheggi e assalti era molto alto sapendo che al governo c’era solo una donna, per quanto valida e capace. Fu così che essa scelse il male minore, un nobile un po’ povero che non poteva rifiutarsi e dire no, ma che era sufficientemente intelligente da lasciare il governo del regno a chi ne era capace ossia la regina. Passati alcuni anni di fedeltà sessuale piena alla regina, anni in cui egli si dedicava a infilzarla ogni sera con il suo notevole batacchio procurando ad entrambi piacere reciproco, il menàge portò i due protagonisti a raggiungere la pace dei sensi. L’una si stancò dell’irruenza del marito, che comunque restava un buzzurro, preferendo un po’ alla volta la quieta compagnia delle sue ancelle che le procuravano orgasmi non meno violenti di quelli ottenuti con il consorte. L’altro invece si stancò della figa e, poiché la regina rifiutava di concedergli il secondo orifizio, il suo desiderio si concentrò verso l’appagamento di questo desiderio. Fu così che il patrigno di Bianconeve, Grimildo, si dedicò a godere dei piaceri che la posizione gli offriva, assecondando le spinte che la sua natura brutale e godereccia gli dettavano.
La sua perversione cresceva con il tempo e trovò un alleato inatteso in uno specchio magico che egli un giornò rinvenne in una soffita dimenticata nel castello. Questo prezioso strumento gli permetteva di individuare con precisione le vittime della sua libidine sfrenata. Oramai, come già detto, la passione gli aveva fatto distogliere gli occhi dal popolo muliebre e si era invece concentrato nel piacere di dominare i migliori rappresentanti del suo stesso sesso. E pertanto quando lui sentiva il bisogno di un nuovo piacere raffinato la domanda che poneva allo specchio era “Specchio delle mie brame, chi ha il più bel culetto del reame?”.
La sua immagine allora scompariva e, mentre lo specchio gli parlava illustrando le capacità del “miglior culetto del reame”, gli appariva l’effige del suo nuovo obiettivo. Chiamava allora un bracconiere fidato che pagava profumatamente e si faceva condurre a castello la sua vittima. Qui la rinchiudeva in una zona del castello non usata e per giorni si dedicava a godere del giovane bocciolo che lo specchio gli aveva siggerito. Spesso si faceva aiutare nelle sue bisogna dal bracconiere e comunque, quando il desiderio era scemato, l’avventura terminava sempre nello stesso modo, ossia il malcapitato veniva strangolato mentre la verga possente di Grimildo gli squassava le viscere ottenendo così due effetti: un orgasmo violentissimo per il principe consorte e la morte in preda alle convulsioni frenetiche per l’amante oramai da gettare. Il principe consorte, attratto dalla scoperta dello specchio magico cominciò a dedicarsi allo studio e alla applicazione della magia nera dove cominciò ad acquisire una certa dimestichezza.
Gli anni erano passati e Bianconeve era crescito facendo risaltare tutta la bellezza che sua madre aveva auspicato. Non era una bellezza tipicamente mascolina, si può dire che egli assomigliava più ad una acerba fanciulla che ad un maschio che si stava formando. Questo era acuito dal suo gusto per tenere i capelli, neri come l’ebano, lunghi fino alle spalle, dal contrasto tra il colore di essi e la sua pelle bianchissima e delicata che trovava nella bocca piena e carnosa, rossa come il sangue vermiglio, il complemento, quasi fosse una cigliegia su una torta di panna e cioccolato.
Bianconeve avvertiva le pulsioni che gli ormoni della crescita gli lanciavano in maniera sempre più potente, ma, forse per il suo carattere timido, non aveva il coraggio di confidarsi con i tanti armigeri che lo circondavano e questi, a disagio con una bellezza che dava alla testa, evitavano qualsiasi contatto al di fuori degli obblighi istituzionali. Fu così che egli, quando non doveva studiare, frequentò l’entourage muliebre della madre e si scoprì a proprio agio nell’ascoltare i loro discorsi e nel partecipare alle discussioni. Il suo precettore era un uomo anziano, che oramai quasi del tutto si era dimenticato le pulsioni che avevano attraversato il suo corpo in gioventù, che incuteva terrore e non indulgeva alla confidenza. La sua educazione sentimentale era tutta racchiusa nelle confidenze che riusciva a carpire quando le cuoche o le cameriere si confidavano sui loro affari di cuore e di sesso.
Sentire parlare continuamente di essere riempiti dall’uccello del proprio uomo e del piacere che esso procurava lo stava lentamente portando ad immedesimersi con questo tipo di piacere e non a quello che più naturalemnte lo doveva portare a desiderare di essere lui l’infilzatore. Una sera d’autunno il languore, che sempre più spesso lo coglieva e che poi lo faceva ritrovare il mattino seguente tutto bagnato con un liquido biancastro e appiccicoso di cui non osava chiedere a nessuno, lo spinse ad aggirarsi per il castello avvolto nell’oscurità. Raggiunse così le cucine dove lavoravano di giorno le donne che frequentava e percepì alcuni rumori sommessi provenire da una dispensa. La luce tremolante di una candela filtrava da uno spiraglio della porta. Si accostò con il cuore in gola e rimase allibito davante allo spettacolo che gli si offrì davanti agli occhi: finalmente potè vedere effettivamente come avveniva quello di cui aveva tanto sentito parlare e che aveva sognato nelle notti turbate dagli ormoni della crescita. Giovanna, la cuoca era prona sul tavolo con le gonne sollevate ed uno sguardo sognante sul viso mentre uno dei giardinieri le tastava a piene mani le tette denudate e intanto le infliggeva dei colpi con il bacino. Giovanna sembrava gradire molto questi colpi tanto che sospirava ogni volta che l’uomo si accostava alle sue terga e finalmente Bianconeve capì.
Tutto quadrò nella sua testa e i vari spezzoni di discorsi andarono a posto come un puzzle che lo aveva ossessionato a lungo ma che poi gli si offriva con la chiave di soluzione giusta. La mano gli corse naturalmente a ghermire il suo membro che si ergeva duro da fargli male, strinse la base e cominciò a muovere i fianchi con il ritmo con il quale il giardiniere infiocinava la cuoca. Questa oramai stava urlando e sbottò “Dai spaccami il culo!” L’altro ribadì “Sì baldracca che non sei altro, adesso ti rompo proprio il culo!”. Bianconeve sentì le ginocchia che gli venivano a mancare dalla violenta scossa che queste parole avevano prodotto nel suo cervello e avvertì un caldo languore salirgli dal basso ventre e cominciò ad eruttare il liquido bianco come la sua pelle che insozzò la superficie della porta. Spaventato il principe corse alla sua stanza e, affannato, vi si rinchiuse dentro ad aspettare che le emozioni che lo avevano scosso si placassero. L’indomani ronzò come un’ape paziente vicino a Giovanna per cercare di cogliere alcuni commenti su quanto aveva visto di persona e finalmente la sua pazienza ebbe ragione. Più tardi si avvicinò alla cuoca Carla, una delle dame di compagnia della madre che accostandosi ad essa le chiese “Allora come è andata stanotte con Marcello?” “Ah mia cara quest’uomo ha proprio un bell’uccello: prima mi ha fatto diventare liquida infilandomelo nella figa, poi, quando è stato bello umido me lo ha schiaffato nel culo e allora non ci ho più visto dal piacere, sono venuta come la più lurida delle bagasce!” “Ma davvero è così bravo?” “Oh te lo garantisco io! Se una delle prossime sere non sei impegnata cerca di farti fare compagnia perché quando ti senti ravanare le viscere da quel bel pestello dimentichi tutto!” Carla era turbata dal racconto e Bianconeve notò che si era accostata allo spigolo di un tavolo e muoveva il bacino impercettibilmente ma sistematicamente nell’ascoltare il racconto dell’amica cuoca.
Quindi era questo che si provava a fare sesso? Nella sua ingenuità ed ignoranza delle cose della vita Bianconeve sentiva però impellente il bisogno di sanare queste lacune. Cominciò allora a girare di notte per le stanze del castello alla ricerca di amplessi e del proprio solitario piacere. Rimase stupito di quante donne amavano prendere le mazze dei maschi nel loro orifizio posteriore. Scoprì i vari modi di dare e darsi piacere. Una sera vide una aiutante di cucina, oramai in là con gli anni e quindi poco ambita dai maschi del castello, che si stantuffava un candelotto nella passera, poi dopo avere profanato la propria figa con quella nerchia improvvisata, passò a roteare il moccolo all’imboccatura del culone prima di infilarselo anche nell’entrata di servizio. Ma una notte fece una scoperta ancora più sconvolgente. Attirato da un rumore di sospiri che oramai aveva imparato a riconoscere si avvicinò ad una porta solo accostata. Gli si presentò davanti lo spettacolo dell’uomo che Giovanna aveva chiamato Marcello, che stava infilzando un giovane garzone piegato su alcuni sacchi di farina e che porgeva i propri fianchi denudati all’irruenza dell’invasore. Ma questa intrusione non trovava il giovane dispiaciuto anzi chi urlava di più il suo godimento era proprio lui che implorava il defloratore a spingersi più a fondo e a riempirlo del tutto.
Era uno spettacolo troppo forte e inatteso e Bianconeve si ritirò nella sua stanza senza aver concluso con il suo solitario godimento. Si stese sul letto e cercò di calmarsi, poi fu preso da una illuminazione improvvisa. Afferrò la candela spenta sul tavolino a fianco del letto e la puntò all’ingresso del proprio ano. Provò a spingere ma sentiva gli sfinteri che opponevano resistenza. Ricordò quello che aveva visto fare una sera e si infilò la candela in bocca per inumidirla quindi la fece roteare sulla rosetta che racchiudeva l’entrata al suo paradiso intimo e poi provò a spingere di nuovo. Questa volta essa entrò di un paio di centimetri. Senti i muscoli stringere per ricacciare l’intruso ma aspettò che gli spasmi terminassero per procedere con la propria deflorazione anale. Piano piano essa si completò e, giunto che fu alla fine ritirò fuori il moccolo. Avvertì un improvviso vuoto nelle sue viscere e corse a sanarlo. E così infilando e togliendo sentì che il fastidio dell’intrusione lasciava posto ad un piacere sconosciuto cui si abbandò con naturale spontaneità. Quando ci fu il coronamento del lento lavorio egli venne scosso da un orgasmo che mai prima di allora avava conosciuto e lasciò che esso lo travolgesse come un fiume in piena.
Da quella sera le sue ricerche notturne si intensificarono e, quando non trovava niente che lo sollecitasse a placare il desiderio del suo uccello con la mano, si ritirava nella propria stanza e si consolava con un bel candelotto, lubrificato con olio, stantuffato nel proprio bel sedere. Crescendo le sue forme avevano acquistato una certa rotondità proprio lì dietro dove il suo culetto prendeva forma e cominciava a costituire una attrattiva allo sguardo libidinoso delle guardie e di tutti i maschi del castello. Di questo era ignaro perché concentrato sulle proprie pulsioni anteriori e posteriori. La sua vita però prese una piega che l’avrebbe cambiata per sempre quando, nel corso del suo girovagare notturno non raggiunse le stanze dove Grimildo teneva imprigionate le suoe vittime e dove ne abusava. Seguì al solito la direzione da dove proveniva una luce di torcia e rimase stupito di trovare stanze che erano ripostigli o cucine o camere da letto, ma prigioni con la porta robusta e una finestra con le sbarre per osservare il prigioniero. E proprio dalla finestra egli gettò lo sguardo nella stanza e si sentì agghiacciare da quanto vide. Un giovane nudo era steso piegato su un tavolo con le braccia incatenate e le terga protese all’infuori. Il bracconiere, che Bianconeve non conosceva, si stava facendo fare un bocchino tirando per i capelli il malcapitato mentre Grimildo con una spaventosa nerchia si stava appropinquando ai fianchi dello stesso. Un secondo poi il colpo per infilarsi prepotentemente nel culo impreparato. Nonostante la bocca fosse impegnata, un urlo di dolore proruppe dalle corde vocali del giovane ed andò ad agghiacciare il cuore di Bianconeve. Il principe assistette così alla brutale violenza con cui il patrigno cercava di placare la libidine perversa che lo possedeva incurante del dolore che scuoteva la giovane vittima.
Scappò inorridito di fronte a tanta brutalità e, da quella sera evitò accuratamente di aggirarsi di notte per il castello. Ma le sue pulsioni crescevano perché oramai aveva quasi raggiunto il traguardo dei 18 anni e la natura richiedeva il suo giusto pagamento. Si fece allora coraggio e avvicinò il giovane garzone, Pierino, che aveva visto infilzato da Marcello e cercò di superare la barriera che negli anni si era venuta a creare tra lui e la popolazione maschile del castello. Volle che fosse Pierino a sellare il suo cavallo quando andava di pomeriggio a galoppare, e che fosse lui ad accudirlo quando tornava. Si fermava allora a parlare con il giovane per cercare di capire quanto si poteva spingere avanti nella sua disperata ricerca di sesso. L’occasione venne quasi spontanea un giorno d’estate quando si fece accompagnare in una passeggiata nelle campagne circostanti al castello, oltre un bassa collinetta ricoperta da cumuli di erba tagliata. Il profumo del fieno che si stava formando era inebriante e Bianconeve trovò naturale gettarsi su uno di queste cataste e rotolarsi nel foraggio. Pierino ridendo gli disse “Stia attento principe che ci sono anche spighe che si infilano e poi camminano lungo il corpo!” Colpito da improvvisa illuminazione Bianconeve esclamò allora “Ah è vero! Una è entrata nei calzoni. Dai aiutami a cercarla perché mi da fastidio” E così dicendo tirò giù i pantaloni. Pierino prudentemente si avvicinò al principe deglutendo a fatica di fronte allo splendido spettacolo del corpo così tenero ed appetitoso. “Dov’è signor principe?” “Deve essere qui” rispose il figlio della sovrana indicando il proprio uccello che cominciava a svettare. Pierino era giovane ma non stupido e capì che il suo compito era di dare sollievo al principe ma non trovò affatto disdicevole dedicarsi a questo compito che rappresentava anzi il coronamento di un suo desiderio.
Afferrò così con la bocca quella verga prorompente e perfetta che svettava da un boschetto di peli neri come l’ebano e brillava come una torre di ghiaccio tanto era candida la pelle anche lì. Leccò a lungo l’asta e le palle e per farlo meglio si posizionò a cavalcioni sopra il principe e rimase un attimo sorpreso quando sentì le mani del nobile tirargli giù le braghe e cominciare a carezzarlo nelle intimità. Fu così che il giovane principe sperimentò il primo sessantanove e potè gustare il succo del suo partner già avezzo a giochi del genere. Soddisfatti si diedero appuntamento per il giorno dopo nella stalla ad un’ora in cui non erano presenti stallieri. E fu lì che il principe potè assaggiare il piacere sublime di intingere il suo augusto biscotto nel culetto morbido e accogliente di Pierino spargendo il suo seme nelle viscere del giovane partner. L’indomani fu la volta di Pierino di soddisfare l’altro desiderio del principe e quando finalmente la sua mazza fu dentro completamente alle nobili terga, Bianconeve si sentì realizzato e riempito come tante volte aveva sentito dire dal popolo muliebre. Godette come mai la candela aveva potuto fare e si lasciò andare ai vigorosi colpi che Pierino infliggeva al suo ancora poco avezzo culetto. Quando infine il suo condotto venne invaso dal caldo e appiccicoso fluido biancastro sentì prorompere dai propri lombi il caldo appagamento di un orgasmo squassante. Fu un’estate nella quale il più esperto Pierino potè insegnare al suo signore tutte le cose che aveva imparato e renderlo avezzo ai piaceri dell’amore tra maschi.
Un giorno si trovavano distesi nudi e placati dai loro ardori su un cumulo di fieno quando Pierino gli parlò di un bracconiere che ogni tanto si faceva vedere nei dintorni e che da qualche giorno lo stava osservando con attenzione. Bianconeve se lo fece descrivere e vi riconobbe l’immagine dello spregevole partner di perversione del proprio patrigno. L’immagine angosciosa ricomparve alla sua mente e fu naturale per lui dire all’amico “Stati attento perché è pericoloso!” Pierino annuì. Fu con una certa sorpresa e profondo disappunto che il principe scoprì che l’amico l’indomani era sparito. “Senza dirmi niente! Come è possibile?” Si chiedeva. Si interrogava inoltre sulla propria capacità di riconoscere le persone e i sentimenti e gli sembrava di non aver colto alcun segnale di questa imminente scortesia. Passarono alcuni giorni in cui cercò di avere discretamente notizie del garzone fino a che gli tornò alla mente il racconto del bracconiere che aveva “adocchiato” il suo amico. Una fitta di paura abissale attreversò il suo cuore e tutto il corpo, ma essa non potè impedirgli di prendere la decisione di recarsi nottetempo nelle stanze dove Grimildo compiva le sue inenarrabili nefandezze.
Quando le guardie si ritirarono, uscì cautamente dalla propria camera e ripercorse il tragitto da lui fatto solo una volta fino a che, con angoscia, scorse la torcia brillare nella stanza delle torture. Si avvicinò alla inferriata che consentiva la vista dell’interno e, atterrito guardò. Era proprio Pierino il giovane che si trovava nudo incatenato sul tavolo a porgere il deretano alle violazioni del patrigno di Bianconeve. Lo sentì supplicare “Anche stasera no! Ti prego. Dimmi cosa devo fare perché non mi massacri il culo anche stasera?” “Non temere giovanotto domani non avrai più di questi problemi e vedrai che stanotte godrai come non pensavi. Perché sotto sotto tu sei una lurida bagascia”. Comparve il bracconiere con in mano uno strano arnese che somigliava ad un cazzo di metallo ma di dimensioni superiori a quelle di Pierino e Bianconeve. Lo strumento venne intinto in un liquido oleoso e poi infilato senza pietà nelle terga del garzone. Un urlo che spezzava il cuore gli uscì di bocca ma questo non fermò Grimildo che anzi continuò ad andare su e giù con il dildo metallico. “Voglio che stasera tu sia bello accogliente!” Fu la spiegazione cui seguì una risata sardonica.
Ancora pochi minuti di preparazione poi il consorte della regina si denudò rivelando una nerchia di notevolissime dimensioni come mai era capitato di vedere al giovane Bianconeve. Era turgida e bitorzoluta con la cappella paonazza ed enorme. Alla sua vista il principe tremò ma al tempo stesso ne fu affascinato per la potenza che emanava e, solo per un attimo, accarezzò il pensiero di ricevere un tal dono di Dio nel proprio culetto. Fremette ma scacciò il pensiero perché ora la “fortuna” toccava al suo amico. Il dildo metallico venne sostituito dalla clava di carne dura di Grimildo e fu comunque un momento di sofferenza per il povero Pierino che si ritrovo riempito in ogni angolo da quello strumento di piacere e tortura. Ma il perverso regnante voleva far durare a lungo il proprio piacere e attese fino a che i tessuti del giovine garzone si adattarono all’ospite mastodontico. Allora cominciò a percuotere le terga con possenti colpi del suo randello con una violenza tale da far tremare il tavolo cui era incatenato lo sventurato. Bianconeve soffriva ad ogni colpo ma, con il passare dei minuti avvertì nelle urla di Pierino un cambio di tono, come quando giocavano assieme e si stava avvicinando al piacere. Si chiese come fosse possibile che un dolore così intenso potesse portare alla goduria e all’appagamento profondo. Ma fu con orrore che vide Grimildo arrotolare un laccio attorno al collo del suo amico. Cominciò a stringere e negli occhi di Pierino, dove prima stava cominciando a comparire l’immagine del piacere apparve lo spettro del terrore. Adesso ad ogni colpo inferto Grimildo stringeva impercettibilmente il laccio attorno al collo dello sventurato. Quando infine la vita abbandonò il povero Pierino le su viscere si contrassero provocando l’orgasmo intenso che il perverso principe consorte aveva cercato.
Ancora sbigottito Bianconeve vide il patrigno ritirare il suo maestoso uccello che cominciava a perdere consistenza e ordinare al bracconiere “Fai sparire il corpo. Ti chiamo tra un mese. Tieni!” e dicendo così gli lanciò un sacchetto tintinnante di monete. Il principe capì che era il momento di ritirarsi e, anche se sconvolto dalla crudeltà dello spettacolo, si chiuse nella propria stanza a piangere la scomparsa dell’amico. Ebbe notti popolate di incubi dove rivedeva uno ad uno i particolari di quella tragica notte. Ma non poteva fermare la forza della natura e della vita e i suoi pensieri si concentrarono con il passare delle notti sempre più sui dettagli eccitanti e non su quelli che gli portavano angoscia e, fra le immagini che lo ossessionavano maggiormente era il randello possente di Grimildo. Fu così che riprese il gioco solitario della candela per placare il bruciore che avvertiva all’ingresso del suo posteriore. Ma egli non sapeva che si stava avvicinando lo scadere del mese che il principe consorte si concedeva tra un giovine ed un altro.
Fu così che una sera Grimildo salì nella soffitta dove si trovava lo specchio magico e pronunciò la solita importante domanda “Specchio delle mie brame, chi ha il più bel culetto del reame?” e fu con sorpresa che vide l’immagine del proprio figliastro infilarsi una candela nel culo. Il cazzo gli venne duro all’improvviso e si rammentò della figura cui non aveva mai dato più di tanto occhiate perché non era mai stato sfiorato neanche per un istante dal pensiero di poter insidiare il figlio della sua moglie, che, tanto cara si, ma anche spietata e decisa. Sentiva crescere il desiderio di godere di quel corpo delicato e succoso ma al tempo stesso sentiva che era pericoloso e non poteva permettersi di commettere un qualsiasi errore. La scelta era una sola: o tutto filava liscio oppure era meglio uccidere il principe per impedirgli di raccontare qualsiasi cosa. Chiamò il bracconiere e si raccomandò il suo silenzio con una paga tripla del solito e gli spiegò in dettaglio cosa voleva. Se il tentativo falliva più di una volta bisognava uccidere il giovane principe e lui doveva portargli il suo cuore per essere sicuro che questo era avvenuto. Solo allora, alla consegna o del principe in carne ed ossa o del suo cuore, avrebbe ricevuto altrettanto denaro da quanto ricevuto.
Anche il bracconiere capì la delicatezza di quanto stavano per fare ma i soldi era veramente molti e, forse, avrebbe potuto con la fortuna accumulata, sparire e liberarsi dell’ingrato compito che cominciava a pesargli. Fu per questo motivo che, un paio di giorni appresso, Bianconeve vide in lontananza, mentre stava passeggiando a cavallo, un cavaliere avvicinarsi proveniendo dal bosco. Aguzzò la vista e, non appena fu sicuro di aver intravisto il volto del bracconiere, si lanciò verso il castello inseguito per un pezzo dal brigante. Arrivato in salvo corse dalle guardie al ponte levatoio intimando di andare a caccia dell’uomo che lo aveva seguito ma rimase sorpreso quando esse obiettarono che non si vedeva nessuno in lontananza. Era vero. Il bracconiere, capita la mala parata, si era dileguato guadagnando l’omertà della boscaglia. Il giovane principe era preoccupato ma non osava recarsi dalla madre a svelare il suo segreto. Era in fondo la sua parola contro quella del patrigno e la madre, per salvaguardare l’equilibrio all’interno del regno, forse avrebbe preferito non prendere alcuna decisione. Si ripromise di stare all’erta e, se si fosse verificato un altro episodio, di andare dalla regina.
Il giorno seguente cavalcò prudentemente rimanendo alla vista del castello e osservando continuamente la direzione dove era apparso il bracconiere il giorno precedente. Non si accorse perciò che l’uomo aveva furbescamente previsto il suo comportamento e aveva scelto di attaccarlo tagliandogli la strada verso il castello e spingendolo verso il bosco. E questa fu la scelta che Bianconeve dovette prendere per cercare di tenere a distanza il malvagio. Si infilò al galoppo nell’inviluppo di rami, frasche e cespugli e, con il viso e il corpo frustati dagli arbusti, continuò a scappare addentrandosi sempre più a fondo nel bosco. Ma purtroppo il suo cavallo si ritrovò all’improvviso un grande albero abbattuto di fronte e pensò bene di bloccarsi immediatamente e lo scagliò violentemente oltre al tronco. Così disarcionato il puledro si lanciò senza guida a raggiungere la pace della stalla lasciando il suo cavaliere a piedi e indifeso. E fu così che lo trovò il bracconiere giunto poco dopo, ancora disteso a terra, gli abiti stracciati, i grandi occhioni neri attraversati da una paura devastante. L’uomo scese davanti a lui con il pugnale in mano e rimase a guardarlo per bene alcuni minuti senza proferire parola. Prese allora coraggio il giovine principe e implorò “Ti prego, non portarmi al castello da Grimildo. Per quanti peccati io abbia potuto commettere non merito di certo di finire ucciso per il bieco piacere del mio patrigno!” Una ridda di pensieri attraversavano la mente dell’uomo mentre si faceva tutti gli scenari possibili nel proprio cervello cercando di trovare la soluzione migliore in quella situazione estremamente pericolosa. Nel fare questo il suo sguardo percorreva il corpo del giovane a terra e, con una frequenza sempre maggiore, si soffermava sulle rotondità posteriori e questo iniziava a procurargli un certo rimestolio nel basso ventre.
Bianconeve se ne accorse e, preso dalla disperazione, si offrì all’uomo implorando pietà. Il bracconiero si rese conto che, se avesse goduto del tenero culetto principesco, non avrebbe mai potuto poi consegnare il giovane al patrigno perché egli avrebbe potuto rivelare il segreto. La soluzione gli apparve allora chiara e precisa. Cominciò a slacciarsi la cintura “Se desideri la vita salva devi rinunciare a tornare nel castello. Lo vuoi?” “Sì farò quello che mi chiederai” “Dopo che avremo fatto sesso, prenderai e andrai sempre dritto nel bosco, passerai i sette fiumi e i sette monti e lì potrai cercare qualche contadino che ti possa accogliere e resterai nascosto fino a che non Ti giungerà la notizia che tuo patrigno è morto. Se ti farai vedere prima, tornerò, Ti cercherò e ti ammazzerò come un cane!” Dicendo lo afferrò con la mano possente alla gola cominciando a stringere. Il principe non comprese che la posizione si sarebbe fatta difficile anche per l’uomo ma, atterrito promise solennemente con un giuramento.
Un sorriso laido attraversò il volto del cacciatore di frodo che si potè tranquillamente dedicare a gustare l’augusto pasto. Strappò con violenza gli abiti al principe e, quando se lo ritrovò nudo di fronte, restò abbagliato dalla bellezza del corpo, dal colore della carne, dei capelli e della bocca. Si spogliò completamente e volle godere di ogni centimetro di carne che il destino gli aveva portato su un vassoio d’argento. Bianconeve, che vedeva allontanarsi lo spettro di una morte prematura, sentì scendere la tensione e contemporaneamente principiò ad avvertire le sensazioni che il suo corpo gli ritornava a seguito delle laide attenzioni dell’uomo. Questi leccò ogni centimetro della candida pelle, morse i capezzoli, gustò il biscotto regale, si perse nell’afrore delle chiappe tonde, leccò la rosellina posta a baluardo estremo delle intimità, la forzò prima con un dito, poi con altre due avvertendo il cedimento delle barriere. Il principe oramai ansimava pregustando la sensazione imminente di essere penetrato e, quando questo avvenne, si lasciò abbandonare tra le possenti braccia del bracconiere inebriato anche dall’odore di maschio che proveniva dal vigoroso corpo.
E fu così che i due uomini trovarono l’uno nell’altro, non un avversario, ma un compagno, e si accompagnarono insieme a cogliere un piacere inedito. Mai al bracconiere era capitato di poter godere di un corpo così piacevole, né al principe, nella sua pur breve esperienza sessuale, era successo di essere posseduto con sapienza da un uomo maturo, energico e ben dotato. Si abbandonarono per lunghi minuti ad assaporare l’uno il piacere di essere accolto nell’antro umido e ancora inesperto del principe, all’altro di venire riempito da un bastone pulsante di carne calda che occupava qualsiasi meandro delle sue viscere. Quando infine la natura fece il suo corso e il frutto del piacere di entrambi proruppe violentemente, fu come se una dolce sensazione di pace invadesse le membra dei due maschi quasi fosse pace dopo la tempesta dei sensi. L’uomo si rialzò e, vestendosi, ricordò a Bianconeve il giuramento. Si fece dare i pantaloni del principe perché li voleva portare come prova della morte assieme al cuore che avrebbe strappato ad un cerbiatto e lo lasciò nella profondità della foresta mentre il buio della notte stava per principiare.
A castello Grimildo accolse il ritorno ed il racconto del complice con dispiacere per il mancato godimento ma con sollievo perché così un pericoloso testimone era stato eliminato. Pagò come promesso l’uomo e rimasero d’accordo nel rivedersi di lì ad un mese. Non sapeva il consorte della regina che quella sera stessa il bracconiere raccolse tutti i suoi averi e si avviò di nascosto verso il regno vicino. Come d’altra parte il bracconiere non poteva sapere che sarebbe stato derubato ed ucciso appena lasciata la prima locanda dove aveva soggiornato e così il frutto di tanta malvagia disponibilità finì nelle tasche di una banda di briganti da strada. Nel maniero era giunto il cavallo disarcionato del principe e per molti giorni vennero lanciate le ricerche ma del giovane non fu trovata traccia. Questo rasserenò enormemente grimaldo ma addolorò profondamente la regina perché aveva perso sia il figlio adorato ma anche l’erede designato al trono da lei occupato. Questo fatto doveva cambiare le prospettive di alleanze con i regni vicini.
Intanto Bianconeve si addentrava sempre più nel bosco seguendo la direzione indicata dall’uomo che, in fondo, gli aveva salvato la vita. Attraversò un fiume ed un monte poi, stanco, raccolse alcune foglie come giaciglio e vi si gettò a riposare incurante dei rumori inquietanti della notte nella foresta. Ma non sapeva che gli animali avevano capito che lui era un essere umano buono e così decisero di lasciarlo dormire in pace. Il giorno dopo proseguì il suo viaggio cibandosi di bacche e frutti. Camminò per giorni, contò sette fiumi e sette monti e si ritrovò in una foresta ancora più fitta di tutte quelle che aveva percorso e capì doveva aver luogo la sua vita d’ora in poi. Era stanco e, anche se era mattina, non vedeva l’ora di cercare un posto dove riposare. Quando scorse una piccola casetta pensò che poteva andare. Bussò chiamando i padroni di casa ma nessuno rispose. Ritenne allora che fossero fuori perché andati al lavoro e provò a spingere il battente che si aprì rivelando quella che sembrava una casa in miniatura con sette sedie piccole poste attorno ad un tavolo basso, sette letti affiancati uno all’altro lunghi quanto un letto singolo normale. Non resistette e vi si gettò sopra addormentandosi sul colpo. Non lo sapeva ma quella era la casa dove abitavano sette nani che lavoravano scavando diamanti in una miniera sconosciuta ai più.
Quella sera quando i sette tornarono a casa rimasero sorpresi di trovare l’uscio spalancato, le sedie in disordine e un rumore di sospiro profondo provenire dalla stanza da letto. Guardinghi entrarono della camera e rimasero attoniti davanti alla vista dello splendido corpo del principe. Girarono attorno guardando la giacchetta strappata che a malapena copriva le spalle e l’addome del giovane. Ammirarono le gambe slanciate e quasi senza peli, la dolce rotondità del posteriore, il bosco nero che fungeva da base ad un uccello regolare, le labbra rosse e piene, la pelle candida come la neve. Non sapevano cosa fare davanti a questo miracolo della natura, poi alla fine uno si decise e allungò la mano a carezzare una coscia. Il piacere che il contatto con la pelle serica del principe procurò al nano fu tale da fargli spuntare un sorriso di beatitudine sul volto. Allora tutti e sette si gettarono con delicatezza sul giovane corpo, chi leccandone le ferite, chi carezzando le superfici scoperte, Linguolo cominciò a leccare l’asta candida e Succhiolo si immerse nelle chiappe leccando l’apertura dell’orifizio. I mugolii che dalla profondità del sonno risalivano sulle labbra del regale ragazzo furono come un segnale per i nani che lo interpretarono come un invito a continuare. La tensione faceva crescere e indurire le alabarde che albergavano all’interno dei pantaloni e quindi, uno alla volta, se ne liberarono in modo da consentire al fiero scettro di ergersi in tutta la sua maestosità. Bitorzolo scostò Succhiolo , si nominò primus inter pares e posizionò la sua turgida cappella all’ingresso del paradiso spingendo poi lentamente l’attrezzo nel canale lubrificato dalla saliva del compare. Burrolo e Linguolo si passavano di bocca l’uccello regale che oramai splendeva in tutta la sua maestosità, Mazzolo, Tappolo, Succhiolo e Trombolo, mentre con una mano si menavano la verga tesa e dura, con l’altra palpavano chi le rotondità del culetto, chi il petto, chi una coscia.
Bitorzolo spingeva avanti e indietro la sua mazza nell’anfratto principesco con forza e delicatezza al tempo stesso quasi volesse impedire al giovane di svegliarsi dal piacevole sogno testimoniato dal crescendo dei sospiri. Quando però venne il momento, non potè trattenere un mugugno prima di scaricare il suo sperma nelle viscere di Bianconeve. Fu il segnale e in rapida successione gli schizzi degli altri andarono a ricoprire il corpo del giovane mentre il frutto del lavorio di Burrolo e Linguolo fu diviso equamente tra i due. Il principe si stiracchiò beato e contento e aprì gli occhi sbarrandoli un istante dopo alla vista dei nani con l’arma ormai scarica ancora in mano e gli altri due nani con la bocca sporca del suo bianco nettare. Avvertì il defilarsi di Bitorzolo dal suo deretano che cominciava a sgocciolare l’oramai consueto liquido.
“Ma chi siete!” “Ma dovremmo essere noi a chiedere chi sei tu che sei entrato nella nostra casa e ti sei steso sui nostri letti!” rispose Tappolo. “Avete ragione. Mi chiamo Bianconeve e sono il figlio della regina del regno di Mazzete che si trova al di là dei sette fiumi e dei sette monti” e iniziò a narrare il motivo per cui si trovava in quelle lande, per sfuggire alla laida bramosia di un patrigno che lo voleva poi morto.
I nani rimasero colpiti dal racconto e senza neanche bisogno di consultarsi gli offrirono ospitalità nella loro modesta dimora. Si presentarono uno ad uno e il principe cercò di ricordarsi i nomi di tutti e questo originò un simpatico gioco. Si ricordarono poi tutti di avere una fame tremenda e quindi andarono a preparare la cena. Bianconeve cercava di aiutare e la sua collaborazione fu ben accolta. La piacevole novità eccitava i sette nani che non erano abituati ad avere ospiti ed erano colpiti dalla bellezza ma al tempo stesso dalla delcatezza del giovane. Dopo cena apprestarono un giaciglio di fortuna in una stanza adibita di norma a salotto ripromettendosi alla prima occasione di costruire un letto adatto al principe.
Cominciò un periodo che fu meraviglioso per tutti gli otto abitanti della casa dei nani. Bianconeve, quando loro erano a lavoro, andava a raccogliere legna, cucinava (non piatti complicati), lavava i panni sporchi e cuciva gli strappi ricordandosi di quanto aveva visto e provato nel gineceo di casa. I piccoli uomini erano contentissimi di avere chi accudiva alle loro esigenze materiali ma soprattutto potevano liberarsi dal noioso tran tran sessuale che aveva oramai esaurito qualsiasi lampo di fantasia. A turno di notte si recavano a fare compagnia al giovane principe che gradiva queste attenzioni anche perché come ricordiamo era soggetto alle pulsioni dell’età e tutte le occasioni per sfogare la sana libidine erano ben accette. Se Burrolo amava accogliere nelle sue tenere terga la mazza regale, Linguolo invece consumava la passione del principe in raffinati ma anche scomodi sessantanove. Gli altri preferivano far assaggiare la consistenza dei loro arnesi e la loro abilità nell’introdursi nel posteriore procurando piacevoli sensazioni e causando orgasmi l’un l’altro.
Dopo una settimana i nani cominciarono a frequentare in due o tre il letto del principe procurandogli e procurandosi piacevoli godimenti. Il massimo della libidine venne raggiunta una notte in cui Bianconeve nel mentre penetrava Burrolo, offriva le sue terga all’ingresso di Tappolo e al contempo succhiava l’arnese di Succhiolo e faceva una sega a Mazzolo e Bitorzolo. Inutile dire che nell’altra stanza Trombolo e Linguolo completavano il concerto di sospiri, mugugni e rantolii dandosi reciprocamente piacere. Si può dire che dopo pochi giorni tutti e sette i nani si erano segretamente innamorati del principe e non solo per il piacere che procurava o per i lavori domestici che sbrigava ma per la delicatessa della persona e la signorilità d’animo. Erano consci che la loro passione non aveva un futuro ma ogni giorno che veniva rappresentava un regalo inaspettato.
Bianconeve si abituò al piacevole andazzo, la mattina colazione, poi consegna del pasto del giorno ad ognuno in cambio di un bacione affettuoso e della raccomandazione di stare attento mentre erano via, quindi i mestieri e la preparazione della casa e del cibo per la sera e infine la notte che riservava sempre piacevoli sorprese. Le settimane che seguirono servirono a cementare il rapporto tra gli otto abitanti della casetta nel profondo della foresta ma una tempesta si stava avvicinando sulle loro teste.

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