incesto

Guido


di Discobolo
08.03.2023    |    23.618    |    6 9.8
"Il desiderio di lei si trasmise anche a lui, ed il pene cominciò a rifarsi duro, piano piano, un poco alla volta, nel giro di qualche minuto tornò in tiro..."
G U I D O
romanzo breve o racconto lungo Da leggere un capitolo per volta.

Capitolo 1 – Amore fraterno.
Un grande affiatamento aveva sempre legato Anita e Guido, fin da quando erano molto piccoli. Quando poi lui aveva tre anni, e lei ne aveva già otto, mentre giocava con gli altri bambini dell’asilo, Guido era scivolato in spaccata su qualcosa di scivoloso (dissero un seme di oliva nera, abituale colazione dei bambini di famiglie agricole) e si era rotto il femore della gamba destra. In quei tempi, la medicina non aveva ancora fatto i progressi di oggi, e nel loro piccolo paese, poi, era già tanto che ci fosse un Ospedale circondariale. Lo portarono in quell’ospedale e gli ingessarono la gamba. Dovette stare per quaranta giorni immobile, a letto.
Alla fine, venne a casa il medico di famiglia. Di solito era un buon medico che conosceva il suo mestiere. Aveva buone capacità diagnostiche ed una consolidata esperienza operativa, purché lo si utilizzasse nella mattinata. Ma era pomeriggio e, come al solito, costui aveva consumato, a casa sua, un lauto pranzo abbondantemente innaffiato da vino della sua campagna, vino rosso che, nelle annate discrete, raggiungeva un tenore alcolico di sedici-diciotto gradi.
Non era la prima volta che si presentava in tale stato, di pomeriggio. Ne aveva fatto le spese una cuginetta di Anita e Guido, Sara, che aveva accusato dolori nella zona destra del ventre. La bimba aveva dieci anni ma era assai più matura della sua età; dopo aver dichiarato al medico i sintomi, aveva azzardato l’ipotesi che si trattasse di appendicite. Il dottore la prese un po’ in giro, pensando che la bambina volesse darsi delle arie con una malattia importante. Le chiese se avesse mangiato della frutta acerba, e malgrado la sua risposta negativa le aveva prescritto: “prenditi una bella purga, e vedrai che domattina non avrai più nessun dolore”. Il pomeriggio del giorno dopo Sara moriva per un attacco di peritonite. Allora non era di moda denunciare i medici per errori letali, e quello continuò ad essere il medico di fiducia della famiglia.
Trascorsi, dunque, i quaranta giorni di prammatica, il medico venne per togliere l’ingessatura a Guido. Forse non si fidava della stabilità della sua mano, per cui non adoperò, come solevano fare tutti, la lametta da barba. Ma si fece dare una forbice da potatore e, inseritane una punta nell’orlo alto dell’ingessatura, cominciò a tagliare verso il basso. Tutto andò quasi bene: solo due volte il dottore riuscì ad infilzare la punta della forbice nella coscia del bambino, ma alla fine il gesso venne via e le ferite furono medicate e tamponate con un po’ di cotone idrofilo e di garza.
Sennonché, vuoi per la forzata immobilità di quaranta giorni, vuoi per il fatto che, non usandosi allora di mettere l’arto in trazione, la riduzione della frattura (come poi si scoprì col tempo) non era stata perfetta, malgrado la tenerissima età del bambino, comunque Guido, quando tentarono di rimetterlo in piedi e farlo camminare, non ci riusciva più da solo. Dovettero rieducarlo a camminare, come quando aveva un anno, e tale compito venne assunto dalla sorella maggiore, Anita appunto, che già aveva i suoi otto anni e che era legatissima al fratellino.
Si creò un sodalizio ammirevole tra i due. Ogni volta che usciva a passeggio o per altro svago, Anita si portava dietro Guido, anche se doveva uscire con le sue amiche. E se queste si lamentavano per la pastoia che il piccolo rappresentava ai loro divertimenti di signorinelle, Anita decisamente si schierava dalla parte del fratello e dava alle amiche l’ultimatum: o con Guido o facessero a meno di lei. E siccome Anita era l’anima della comitiva, quelle a malincuore cedevano.
Ed infatti, da piccolo, Guido crebbe quasi sempre in compagnia di bambine più grandi di lui, amiche della sorella, oppure giocava con lei a casa. Stavano sempre insieme. Avevano anche scoperto come andare nei solai di casa, dove, in particolare, c’era una stanza col pavimento diritto (le altre lo avevano a volta, ma quella stanza era stata costruita posteriormente) ed il tetto abbastanza alto da poterci stare in piedi. Lì avevano trovato anche un rimasuglio di piastrelle per pavimento ed Anita che, incoraggiata anche dalla mamma, era istintivamente portata ai lavori casalinghi, aveva combinato una specie di stanzetta per le bambole, che lucidava a specchio, sulla quale sistemava i mobili giocattolo che esistevano in abbondanza perché il papà era stato un esperto di traforo e di bricolage (anche se allora non si chiamava ancora così), ed aveva costruito bellissimi mobili in miniatura: un armadio con l’anta artisticamente traforata e lo specchio, un salotto composto da divano, due poltrone, un tavolinetto ed un mobiluccio intagliato; una stanza da letto che, oltre al suddetto armadio, comprendeva un letto a due piazze, due comodini e due sedie in tutto legno.
Poi Anita aveva combinato un fornello a carbone, come usava allora, con due blocchetti di mattone ai lati e due spiedini in ferro appoggiati trasversalmente, sul quale fornello, regolarmente acceso, poneva un tegamino con dell’acqua a bollire nella quale poi cuoceva un po’ di pasta. Insomma, una casa giocattolo in miniatura, con la quale i bambini passavano il tempo lietamente, senza sentire la necessità di andare troppo spesso a giocare fuori di casa.
Passavano gli anni, e loro crescevano sempre insieme, legatissimi nei giochi e nelle cose serie.
I genitori lavoravano entrambi, e quindi assai spesso i due ragazzini restavano da soli in casa, ma tutto procedeva con sicurezza e tranquillità, perché Anita cresceva assai giudiziosa e sapeva badare al fratellino come una brava mammina.
Un pomeriggio d’estate, dopo pranzo, i genitori erano entrambi al lavoro. Loro erano da soli in casa. Faceva caldo ed erano stanchi dei giochi della mattinata. Anita prese una morbida coperta matrimoniale e, ripiegatala un paio di volte, apparecchiò un comodo giaciglio sul pavimento della sala, dove c’era spazio a sufficienza. Si sdraiarono entrambi e si addormentarono. Avevano, a quel tempo, lei dodici o tredici anni, lui setto od otto.
Ad un certo punto Guido, che nel sonno era sempre irrequieto, si ritrovò appoggiato addosso alla sorella, la quale, per non svegliarlo, non si mosse ed anzi fece in modo che il bambino continuasse a stare comodo. Un ginocchio di lui era andato a finire tra le gambe di lei, la quale, forse istintivamente, le tenne leggermente larghe, in modo che quella gambetta potesse salire ancora più in alto, forse anche per farla stare più comoda, appoggiata sul morbido della coscia. Ma anche lui, nel sonno o nel dormiveglia, sentì il bisogno di accostare la propria coscetta sempre più in alto, fino a strofinarsi al cavallo delle mutandine di lei. Lei strinse le gambe istintivamente, sentendo una gradevole sensazione che quel contatto provocava da qualche parte nelle sue viscere.
Probabilmente qualche amica le aveva parlato dei piaceri del sesso; forse qualche ragazzino le aveva già fatto provare qualche gradevole struscio o l’aveva abilmente accarezzata; il bambino, peraltro, non era nuovo a questi giochetti sessuali. C’erano infatti due sorelline, figlie di un vicino di casa, una di sei anni (Laura) ed una di otto (Pina; lui allora ne aveva sette) che a turno gli avevano insegnato il gioco del dottore. E la più grandicella, un pochino ritardata e che parlava biascicando, gli diceva sempre, mentre lui la ... visitava: “a mia mi piraci!” [a me mi piace].
Lui, dunque, sapeva quello che stava facendo, ma non si rendeva conto se il comportamento della sorella fosse involontario o era un incoraggiamento a proseguire. Ambedue facevano finta di dormire e, intanto, lo struscio continuava, anzi andava avanti con sempre maggiore intensità, finché lei, non resistendo più, gli tirò fuori il pistolino, eccezionalmente voluminoso e duro per un bambino di quell’età, e, scostato il cavallo delle sue mutandine, se lo infilò dentro la vulva, muovendosi avanti e indietro e realizzando una autentica scopata. A quel punto non potevano più far finta di dormire e di non capire. La cosa divenne palese fra di loro e, da quel giorno, ogni volta che fu loro possibile, fecero l’amore.
Di solito era lei che prendeva l’iniziativa. Gli aveva insegnato a sdraiarsi supino e lei si sdraiava sopra di lui e dirigeva le operazioni, anche perché lui, che era abituato a procurarsi l’orgasmo già dall’età di cinque anni masturbandosi (glielo aveva insegnato un ragazzo diciottenne, un certo Bruno, che gli aveva anche insegnato a masturbare lui, ma che molto prudentemente non lo aveva mai violentato), con quell’andi-rivieni lento che usava lei, non provava nessun piacere, se non uno stato di continua eccitazione che glielo teneva perennemente duro; lei, invece, sapeva bene come dirigere il bastoncino di lui nei punti giusti e, con quel movimento lento ed esasperante, dopo alcuni minuti si trasformava in viso, diventava paonazza, gli occhi le si illanguidivano e si buttava di lato stanca e soddisfatta.
La cosa durò alcuni anni, e forse sarebbe potuta andare avanti per parecchio, se motivi familiari non avessero indotto i genitori ad invogliare Guido ad andare in collegio, dopo le scuole elementari.
Lo stare in collegio, dove, fra l’altro, imparò tante altre malizie sessuali da fare con i compagni (ce n’era uno, che si chiamava Nino, che lo faceva impazzire di desiderio), lo allontanò dalla sorella non solo fisicamente, ma anche perché cominciò ad imparare che certe cose non si devono fare con la sorella, perché è peccato mortale e si va all’inferno.

Capitolo 2 – Amore materno.
Stette in collegio per tre anni. Poi all’inizio del quarto anno, non ce la fece più e, con la involontaria complicità del rettore del collegio, se ne tornò a casa.
Furono tre anni strani: il primo quasi normale, non aveva granché modificato i suoi pensieri e le sue abitudini. Aveva, sì, nostalgia di casa, soprattutto della mamma. Ma anche, senza malizia, della sorella, dei compagni di scuola, dei ragazzi del quartiere, e del sagrestano della parrocchia con il quale aveva intrapreso una ... relazione parziale: in tutti i luoghi ed in tutti i momenti propizi (e talvolta fuori luogo e fuori tempo, rischiando), quello si faceva masturbare. A Guido sembrava di fare una cosa molto bella, perché sapeva che quell’uomo viveva solo, non aveva conoscenze, e tanto meno donne, per cui pensava fosse giusto gratificarlo di quel piccolo piacere. D’altro canto, anche l’uomo contraccambiava il favore, e lo masturbava con vigore facendogli provare orgasmi violenti e gradevolissimi.
In collegio viveva una vita senza scossoni. La sera, a letto, si faceva la sua brava sega e poi si addormentava contento e soddisfatto. Non c’era ancora eiaculazione, per cui non c’era pericolo di imbrattare la biancheria e che la mamma se ne accorgesse nel lavarla. Il suo dormitorio era uno dei più grandi del collegio; c’erano venti letti, di cui tre occupati dai “prefetti” (collegiali più grandi posti a sorvegliare i più piccoli). Per sua fortuna i prefetti avevano fatto altre scelte (o di comportamento o di oggetto del desiderio) per cui non fu infastidito da nessuno. E questo per tutto il primo anno.
Nel secondo le cose cambiarono. Il Rettore era stato trasferito altrove e lo aveva anche seguito il vice rettore, ambedue persone molto in gamba, corretti e moralmente ineccepibili. Venne un nuovo rettore, uomo giovane, probabilmente attraente per le donne, comunque serio, esigente ed autoritario. A lui fu abbinato un vice rettore, ex collegiale che si era laureato l’anno precedente. Questi ritenne di assumersi il compito di fare da istitutore ai ragazzini più piccoli, per cui, uno alla volta, se li faceva venire nella sua camera privata, e senza, per la verità, usar loro violenza, cominciava ad intrattenerli sui problemi del sesso, a parlare loro della masturbazione, dei sogni erotici, e di tutte quelle cose che gironzolano intorno all’erotismo. Probabilmente otteneva il risultato che qualche ragazzo o gli faceva una sega o si faceva addirittura sodomizzare. Infatti, il tipo era quello. Ma Guido, per sua fortuna, reagì, stranamente, prendendo per oro colato quello che egli diceva, e cioè che “quelle cose non si facevano”, che bisognava conservarsi “puri” perché, se no, Gesù avrebbe pianto, ecc. ecc.
Il povero Guido si immedesimò a tal punto sulle sofferenze di Gesù che smise di colpo di masturbarsi e se, involontariamente, si toccava il pisello e quello si faceva duro, appena poteva andava a confessarsi ed a fare la comunione per chiedere perdono a Gesù del grave misfatto commesso. Comunque, questa crisi di misticismo, molto probabilmente gli salvò il culo dagli appetiti del vice rettore.
Il terzo anno, il vice rettore era stato mandato via. Il nuovo era un personaggio mite, timido e che non avrebbe fatto male ad una mosca. Era comprensivo con i ragazzi, ma li teneva tutti a debita distanza e controllava attentamente che altri collegiali non cercassero di corromperli. Ma Guido ebbe una nuova crisi, questa volta tutt’altro che mistica. Anzi, ebbe una crisi di fede. Cominciò a pensare che forse tutte le cerimonie e le regole della religione erano delle balle; che Dio forse non c’era nemmeno e che glielo facevano credere per fargli fare, con la promessa del paradiso e la minaccia dell’inferno, tutto quello che i “grandi” volevano che facesse. Viveva la vita del collegio solo formalmente, ma dentro di sé era come se vivesse fuori, tra i ragazzi del suo quartiere, figli di calzolai e di falegnami che, ad ogni tre parole, una era “minchia”, che per offenderti ti davano del “garrusu” (vocabolo siciliano che altrove diventa frocio, finocchio, culattone, cachiné, ecc.) Anche lui, parlando mentalmente, aveva imparato a dire “minchia” o, qualche volta, in italiano, “cazzo”; a dare del “garruso” a tutti quelli che gli stavano antipatici, soprattutto ai professori ed ai prefetti del collegio. Ma aveva imparato anche ad essere ipocrita, per cui, apertamente, era gentile e rispettoso con tutti, non sbagliava mai a parlare e viveva la sua vita senza che nessuno gli rompesse le palle.
Ma finì la terza media. Prima i ragazzi facevano solo l’esame interno, ma da quell’anno fu instaurata la norma di mandarli a fare l’esame da esterno nella scuola pubblica. Guido capitò in una commissione diversa dagli altri suoi compagni. Anzi, furono in due a capitare in quella commissione: lui e Nino, mentre gli altri erano addirittura in un altro istituto scolastico. Per tutto il periodo degli esami fu sempre accanto a Nino, sia in collegio che fuori. Un pomeriggio, tornati dalla scuola dove avevano assistito agli orali di altri, per studiare con tranquillità, invece di andare nello studio comune, dove erano tutti gli altri collegiali, se ne rimasero nella loro camerata, dove, seduti l’uno accanto all’altro sul letto di Guido, fecero finta di studiare, mentre Guido faceva una corte spietata a Nino, ma non aveva il coraggio di dirgli apertamente che voleva scoparlo (anche perché non aveva nessuna esperienza in merito): gli teneva un braccio intorno alle spalle, gli accarezzava il lobo dell’orecchio, ma non riusciva ad andare oltre. Lo avesse almeno baciato, si sarebbe chiarito il tipo di rapporto tra i due. Invece non se ne fece nulla. Guido si arrabbiò molto con se stesso, per la sua incapacità, e con Nino dal quale avrebbe preteso un esplicito incoraggiamento. Sapeva, infatti, che diversi altri ragazzi del loro corso se lo erano fatto.
E fu proprio questo, cioè l’avere frequentato Nino durante gli esami, che diede lo spunto al rettore per mandarlo a casa, cosa che lui già desiderava fare e che accolse al volo, avendo da scaricare la responsabilità sul rettore.
Tornò a casa, ma era del tutto spaesato. Aveva perso i contatti con tutti i suoi amici ed ex compagni di scuola. I nuovi compagni di scuola erano per la maggior parte dei paesi vicini, per cui non c’era possibilità di contatto fuori delle ore di lezione. Solo con Alfonso, ex compagno delle elementari, riprese i vecchi rapporto e si ritrovarono a studiare spessissimo insieme.
Nella stanza di Guido c’era uno scaffale in legno per i libri. La madre lo aveva coperto dai tre lati con una tendina di cinz a fiorellini. Accanto c’era il tavolo sul quale studiavano. Ogni tanto, o perché stanchi dallo studio o perché distratti da qualche pensiero erotico, si mettevano a parlare di donne, ma tra tutti e due ne sapevano meno di zero. L’unica era che si eccitavano da morire e si sparavano delle ricchissime seghe. Ormai avevano l’eiaculazione, per cui, non volendo sporcarsi i vestiti e neppure le mutande, eiaculavano su un lembo della tendina a fiorellini, dove pensavano che la mamma di Guido non avrebbe guardato. Ma, ovviamente, facevano i conti senza l’oste.
Le mamme, si sa, curano molto i loro figli e le loro case, specialmente quando sono delle brave massaie, anche se il loro tempo dovesse essere limitato da un lavoro esterno alla casa. Così anche Gilda, la mamma di Guido, signora poco più che quarantenne, ancora prestante e piacente, era molto attenta a tutto quello che riguardava i suoi figli, con un occhio particolare verso Guido, il maschio di casa. Aveva notato le macchie rigide sulla tendina della libreria, e si rendeva conto che il suo figliolo stava crescendo, che aveva le sue necessità sessuali da soddisfare e che, non avendo frequentazioni femminili di una certa facilità ed intimità, non poteva sfogarsi che attraverso la masturbazione.
La cosa la angustiava, perché la considerava una menomazione per il suo ragazzo: così bello, così prestante ed intelligente, ma anche tanto timido da essere addirittura imbranato con le ragazze. Sapeva bene che la responsabilità era stata del collegio, ma pur sentendo una punta di rimorso per avercelo mandato, pure si ripeteva che non aveva potuto farne a meno, dovendolo toglierselo dai piedi per potere liberamente accudire il marito che era stato affetto da una lunga e grave malattia che aveva richiesto tutta la sua assistenza. Ma adesso tutto, grazie a Dio, si era risolto per il meglio, il papà di Guido, Nunzio, si era completamente rimesso e la famiglia aveva ritrovato la sua serenità.
Poiché, però, alle mamme non devono mai mancare le preoccupazioni (se no, che mamme sono?), Gilda si preoccupava molto della mancanza di una sana educazione sessuale per il proprio figlio. Era una mamma assai moderna, dalle larghe vedute, che in passato non aveva disdegnato qualche avventura galante, realizzata con molto giudizio e discrezione, senza alcuna negativa conseguenza per nessuno. Con Anita, la figlia più grande, aveva un ottimo rapporto, un colloquio aperto e costante. La ragazza la teneva al corrente di tutti i suoi amoretti e ne accettava volentieri consigli e suggerimenti. Ma con Guido non sapeva come fare. Non aveva contatti confidenziali con ragazze, neppure con le amiche più assidue della figlia, per cercare di trovare tra di loro una “nave scuola”, una iniziatrice che le risolvesse il problema. Non sapeva proprio dove sbattere la testa.
Un pomeriggio si trovava a casa da sola con Guido. Lui stava studiando nella sua camera, lei aveva un po’ di biancheria da stirare. Nunzio e Anita erano fuori città, essendo andati a trovare la mamma di Nunzio, dove si sarebbero fermati un paio di giorni. Ad un certo punto a Gilda venne il pensiero di portare al figliolo che studiava una bibita che lo rinfrancasse e gli permettesse una pausa dallo studio. Riempì un bel bicchiere di aranciata fresca ed andò nella stanza di Guido. Aveva l’abitudine di entrare in quella stanza in qualunque momento, senza bussare, e nessuno, neppure Guido, vi aveva mai trovato nulla da ridire. Anche quel giorno aprì la porta senza avere prima bussato. Il tavolo da studio di Guido era di spalle rispetto alla porta, e lui non si accorse dell’ingresso della mamma, per cui continuò come se nulla fosse a masturbarsi, come stava facendo da qualche minuto.
Gilda ebbe un attimo di panico, esitò davanti alla porta e stava tornandosene indietro richiudendo l’uscio senza rumore. Ma in quel momento le venne una carica di coraggio e decise di approfittare della situazione per affrontare il problema. Si avvicinò piano al figlio e gli appoggiò dolcemente una mano sulla spalla. Il ragazzo sobbalzò dalla paura e diventò rosso come un peperone. Non sapeva cosa fare, come nascondere la verga che si era fatta durissima e dalle dimensioni enormi per un ragazzo della sua età. Stava balbettando qualche parola di scusa, che lui stesso non sapeva come formulare, a quale santo appigliarsi. Avrebbe voluto sprofondare, si sentiva morire dalla vergogna.
Gilda, però, venne in suo soccorso. Gli si rivolse con voce calmissima: “Stai calmo e non avere paura. Non voglio punirti e neppure rimproverarti. So benissimo che alla tua età cominciano certe necessità e che non è facile poterle soddisfare. Devi comunque imparare a cercare, ed a trovarti, dei rapporti con le ragazze della tua età. Devi farti delle amiche, una ragazza particolare. Mi capisci ?”
E Guido, calmatosi alquanto dopo il discorsetto della mamma: “Sì, mamma, ma non saprei da dove cominciare. Non sono abituato ad abbordare delle ragazze per farci amicizia. Ho difficoltà pure con le compagne di scuola, che sembrano preferire la compagnia degli altri compagni alla mia. E poi, anche se riuscissi a fare amicizia, non saprei cosa dire, non saprei come fare per chiedere ... di fare quelle cose. Non so come si fa con una ragazza. Ho paura che mi respingano e mi mortifichino, che si accorgano che sono imbranato e che poi lo vanno a raccontare in giro, agli altri compagni, e poi tutti mi sfotterebbero.”
“Ma no. – replicò Gilda – Certe cose si imparano per istinto, basta lasciarsi andare a fare quello che il desiderio ci detta. L’importante è stare attenti a non provocare conseguenze spiacevoli. Tu sai sicuramente che quando si fa l’amore tra un uomo e una donna, se l’uomo gode mentre si trova dentro la donna è molto probabile che la mette incinta, che nasca un bambino, e certamente i ragazzi non possono permetterselo, non possono affrontare il peso di un figlio e le responsabilità di una sistemazione sociale con un matrimonio o una convivenza ufficiale. Alla tua età ti rovineresti la vita e l’avvenire, dovresti metterti a lavorare, interrompere gli studi. E poi, è ancora presto per sapere se la ragazza con la quale stai sarà veramente quella giusta per starci insieme per tutta la vita, o perlomeno per avere questa ragionevole convinzione. È giusto che alla tua età si facciano delle esperienze senza assumere impegni, in modo da arrivare a trovare la donna che sarà quella che sceglierai come madre dei tuoi figli, come tua compagna per la vita.”
“Sì, mamma. Lo capisco. Ma come faccio a cominciare se non ho nessuna esperienza? Del resto, prima di potere concretizzare una amicizia e quindi un rapporto che diventi più di una amicizia ci vorrà del tempo. E nel frattempo, come posso evitare di fare quello che mi hai visto fare prima?”.
“Di questo non ti preoccupare, a tutto c’è rimedio.” Replicò Gilda che, oltre a volere amorevolmente soccorrere il figlio, continuava a guardare incantata quel popò di verga che egli si era scordato di rimettere dentro le mutande e che persisteva impudentemente a restare dura ed eretta mostrandosi in tutto il suo splendore. “Per farti fare un po’ di esercizio, e per farti evitare di farti le seghe, ci sono qua io. Se no, a che servirebbero le mamme?”
“Ma mamma! – esclamò Guido guardandola con gli occhi sbarrati – Ma io avevo sempre pensato che il solo desiderarlo sarebbe stato un peccato, una enormità!”
“Ma no, caro. Non devi crearti di questi scrupoli. La cosa importante è una sola: che nessuno, dico nessuno, neppure i tuoi amici più intimi, neppure Alfonso, neppure quelli di famiglia, anzi soprattutto loro, quindi neppure Anita, deve mai venirlo a sapere. Se mi fai questo giuramento, allora avremo risolto, per il momento, i tuoi problemi. Va bene?”
“Certo, sì, mamma, te lo giuro.”
“Intanto, beviti la tua brava aranciata e ricomponiti i pantaloni. Poi, fra poco, vieni in camera da letto. Ti aspetto.”
Gilda lo lasciò solo con i suoi pensieri. Una miriade di idee, di contraddizioni, di desideri e di preoccupazioni si affollavano nella testolina di Guido. Si era, con qualche fatica, reinfilato il pene nelle mutande ed aveva riabbottonato la patta dei pantaloni. Ma quello continuava a premere ed a pulsare contro la stoffa. Ai pensieri erotici che aveva interrotto prima per l’arrivo della mamma si era aggiunto, adesso, il pensiero di essere sul punto di fare l’amore con una donna vera, fosse pure sua madre, ma sempre di una donna vera si trattava.
Attese un tempo che gli parve un’eternità. Da una parte avrebbe voluto correre incontro alla promessa della mamma, dall’altra aveva paura di arrivare troppo presto, che ella non fosse ancora preparata e che lo rimandasse via. Era forse passato un quarto d’ora quando Gilda lo chiamò: “E allora, Guido, che fai? Non vieni?”
Si precipitò nella camera dei genitori e la trovò seduta davanti alla tolettina, dentro una vaporosa vestaglia di seta, che si spazzolava lentamente i lunghi capelli castani. Anche se la vestaglia era ampia, pure lasciava intuire le forme armoniose del suo corpo, ma quello che di più colpì i sensi di Guido fu l’intensa fragranza di muschio che colpì le sue narici al suo ingresso nella camera. Quello che vedeva, quello che sentiva, quello che immaginava, quello che sperava gli fecero indurire ancor tanto di più il pene che cominciò a fargli male.
Rimase immobile sulla soglia. Gilda gli andò incontro, lo prese per mano e lo guidò a sedersi sulla sponda del lettone. Gli disse: “Per prima cosa, quando stiamo insieme così non devi assolutamente chiamarmi mamma. Chiamami Gilda e basta. E poi, rilassati, non ti devo mica mangiare, anche se mi piacerebbe farlo.” E scoppiò in una allegra risata che contagiò anche Guido. Si mise anche lui a ridere e tutta la sua tensione svanì di colpo. Si sentiva bene, si sentiva a suo agio.
Gilda lo fece distendere sul letto e cominciò con molta calma a spogliarlo. Lui la lasciava fare non sapendo come poter collaborare. Gli sfilò le scarpe, quindi gli sbottonò la patta dei pantaloni.
“È assai impaziente il tuo amico! – scherzò lei mentre, più o meno involontariamente, le sue mani urtavano la dura protuberanza che gonfiava le mutandine di Guido – digli di stare calmo ancora un poco e di avere pazienza.”
Guido era sempre più confuso, non sapeva cosa fare e non prendeva alcuna iniziativa. Lei gli sbottonò la camicia e, facendolo sollevare appena, gliela sfilò delicatamente. Guido rimase con le sole mutandine che gli davano ancora una parvenza di protezione dalla violazione della sua privacy che si andava consumando. Ma anche quella barriera fu afferrata dai due lati dei fianchi, le dita dentro l’elastico, da Gilda che poi cominciò a sfilarli lentissimamente verso il basso. Appena varcato il pube, la verga di Guido balzò con impertinenza verso la faccia della donna. Lei lo ammirò ancora una volta: “Sei veramente fornito bene! Era un po’ di tempo che non ti vedevo nudo, e fra l’altro non ti avevo mai visto in questo stato di eccitazione. Hai veramente un bel cazzo, che farà impazzire di desiderio qualunque ragazza con la quale tu voglia scopare.”
Guido era esterrefatto. Non si sarebbe mai aspettato, dalla madre, un simile linguaggio. Ma lei lo faceva apposta: non voleva che lui la vedesse come sua madre; doveva essere per lui una donna e basta, magari estranea, magari volgare, ma una donna, non una mamma, la sua mamma. Andava raggiungendo il suo scopo. Guido rivolse il suo sguardo verso le tette che, essendosi ella chinata verso di lui, erano spuntate prorompenti al di fuori della vestaglia. Guido le guardava ipnotizzato: quante volte aveva cercato, nei giornaletti che, di nascosto, insieme ad Alfonso compravano nella edicola del compiacente amico Ferdinando, di ammirare le tette delle attrici, delle indossatrici, delle pornostar, e poi, su quelle immagini, si erano sparati delle grandissime pippe. Ora le aveva davanti dal vivo, se allungava una mano, le poteva toccare, accarezzare, ma non lo fece.
Lei intanto aveva slacciato la cintura della sua vestaglia che si era aperta completamente, mostrando le sue bellissime gambe, lunghe, abbronzate, ben tornite, da far invidia (pensò Guido) a quelle delle migliori attrici fotografate nelle riviste per soli adulti.
Lui era sdraiato supino. Lei seduta sulla sponda del letto, gli posò una mano su una guancia mentre lo guardava con tenerezza, ma l’altra mano si posò, distratta ed indolente, sul ginocchio destro di Guido. Lei prendeva la cosa da molto lontano; voleva fargli godere tutte le più belle sensazioni del sesso; voleva farlo diventare un uomo completo, adulto ed abile con le donne.
Mentre la sinistra continuava a dedicarsi al viso, agli occhi, al collo di Guido, la mano destra di lei cominciò piano a risalire dal ginocchio, lungo la coscia; si muoveva lentamente, ma arrivò alla fine nell’incavo dell’inguine. Si avvolse con estrema delicatezza intorno ai testicoli sui quali fece un vellutato massaggio. Da lì, sempre lentamente, risalì lungo la verga che voleva scoppiare. La strinse dolcemente con tutte le dita, ma senza fare movimenti né stringere eccessivamente.
Intanto, con la sinistra, prese una delle mani di Guido e se la poggiò sul seno. Col gesto gli insegnò a massaggiarglielo delicatamente. Poi lo indusse a stringere con due dita uno dei capezzoli, che nel frattempo, insieme al gemello, si erano eretti ed inturgiditi e sembravano due pulsanti elettrici marroni, contornati da una piastra di protezione color nocciola.
Adesso anche lei sentiva, dentro le sue viscere, il desiderio del coito, il desiderio dell’orgasmo.
Avrebbe voluto sdraiarsi subito su di lui e prendere dentro la sua vulva quel cazzone che sembrava quello di un adulto ben dotato e non quello di un adolescente. Ma volle allungare l’attesa ed aumentare al massimo il parossismo del desiderio di entrambi. Si chinò su di lui e gli prese il cazzo in bocca.
Poggiò con delicatezza il labbro superiore, poi avvolse il resto della verga con la sua lingua e la tenne così tutta in quel dolce ed umido contatto. Stette immobile qualche secondo, poi lentamente avanzò il viso facendosi penetrare dal pene fino in fondo alla gola. Resistette ad un piccolo conato di vomito che il contatto del pene con l’ugola le aveva provocato, e ritirò di nuovo la testa all’indietro. Ripeté il movimento in avanti, e stavolta non ci furono stimoli sgradevoli; poi tornò a tirarsi indietro; lo fece ancora, e poi ancora. Ma lui ormai non ce la faceva più a resistere. Già durante la masturbazione nella sua stanza i suoi organi avevano prodotto una grande quantità di liquidi che volevano precipitarsi fuori. Aveva bloccato le spinte, ma non aveva raffreddato il desiderio. Poi aveva assorbito tutte le provocazioni della conversazione con Gilda; quindi le carezze, il tocco dei seni di lei, l’erezione dei suoi capezzoli. Tutti gli stimoli possibili avevano gonfiato i suoi testicoli che adesso non ce la facevano più a trattenere lo sperma, ed egli, infatti, eiaculò violentemente dentro quella bocca accogliente che, fermato il suo andirivieni, adesso si stringeva intorno al pene, lo risucchiava e ne spremeva fino all’ultima goccia di quel delizioso elisir.
Guido si rilassò di colpo e giacque come afflosciato, esausto da quell’orgasmo potente e violento, quale mai in vita sua aveva prima provato. Si sentiva spossato, svuotato dentro, privo di ogni forma di energia. Aveva sonno, voleva dormire.
Lei, dopo aver bevuto tutto quel ben di Dio, gli lasciò finalmente libero il cazzo. Si distese accanto a lui e prese ad accarezzargli delicatamente il petto, le spalle, il ventre, il viso. Ogni tanto gli arruffava i capelli e poi glieli lisciava di nuovo. Si era disposta vicinissima a lui, e le sue tette, il suo ventre stavano a contatto con un braccio di lui. Poi gli prese una mano e se la mise tra le cosce, in modo che la protuberanza del suo pollice stesse a contatto con l’apertura della sua vulva.
Quel contatto, a poco a poco, ridette forza ed energia al ragazzo. Il pensiero che stava toccando la figa di quella donna meravigliosa che le stava sdraiata a fianco cominciò a stimolare in lui una nuova ondata di desiderio. Iniziava piano, lentamente. Il pene, ancora gonfio, ma molle e cadente, mandava verso i suoi reni deboli scariche di piacere, provocando in tutto il suo organismo un piacevole languore che gli faceva gustare quella sensazione di spossatezza che lo aveva conquistato.
Poi Gilda si mosse. Fece in modo che il pollice di lui entrasse per intero nella sua vagina. Guido aveva la sensazione di averla penetrata di nuovo. Sentiva di essere dentro di lei e sentiva le contrazioni della vagina di lei che ancora non aveva trovato il suo orgasmo. Il desiderio di lei si trasmise anche a lui, ed il pene cominciò a rifarsi duro, piano piano, un poco alla volta, nel giro di qualche minuto tornò in tiro come prima, anche se il desiderio era alquanto attenuato e poteva controllarlo più agevolmente.
Gli venne in mente quello che lei aveva fatto poco prima, di come lo aveva fatto godere usando la sua bocca. Gli venne voglia di ricambiare e si piegò fino a raggiungere la vulva di lei con le sue labbra. La baciò, ma non sapeva che altro fare.
Lei gli disse: “Non avere premura. Ne avremo di tempo perché tu impari molte altre cose. Per il momento vieni qui, facciamo l’amore per davvero, voglio sentirti godere dentro la mia vagina, voglio godere insieme a te, contemporaneamente a te.”
Lei si distese supina e lui si distese sopra di lei. Fu lei a guidare il cazzo dentro la sua fessura che, calda, lo accolse nella sua interezza. Guido istintivamente si mosse, entrando ed uscendo da quella fornace ardente. Il suo cazzo sentiva ogni minima piegolina che incontrava dentro la caverna, vi si strusciava contro, vi si dondolava, andando un po’ a premere verso la parte alta ed un po’ verso la parte bassa. Lei lo incoraggiava inarcando le reni e facendosi penetrare fino in fondo, ogni volta che lui si muoveva in avanti. Stavolta Guido resisteva bene, e lei si adoperava perché quella delizia si prolungasse il più possibile. Non voleva spossarlo troppo, ma voleva goderselo quanto più a lungo fosse possibile.
Lui, intanto, aveva acquistato coraggio e disinvoltura. Si era completamente dimenticato che quella donna fosse sua madre. Sentiva quel corpo come quello di una sua cara amica, di una sua compagna di giochi. Ci fu un istante in cui fece mentalmente il confronto tra le sensazioni che stava provando in quel momento e quelle che, diversi anni prima, aveva provato facendo l’amore con Anita, la sorella. Era tutta un’altra cosa. Allora lui sentiva solo l’eccitazione, ma il suo organismo acerbo non gli consentiva di raggiungere l’orgasmo. Adesso si sentiva invece come uno yacht che fosse arrivato nella sicurezza di un porto amico. Si sentiva proprio bene.
Lei, però, doveva ancora godere, ed il suo desiderio si faceva sempre più forte, così forte che, ad un certo punto, lo costrinse ad accelerare i suoi movimenti. Guido, quasi avesse avuto maestre esperte, la stava scopando con grande maestria, con grande energia: si ritirava con molta lentezza per poi affondare con un colpo violento dentro di lei, e questo la faceva impazzire di piacere. Con nessuno, né con Nunzio né con uno qualunque dei suoi amanti occasionali, aveva provato sensazioni di piacere e di eccitazione come quelle che stava provando in quel momento. Pensò che forse ciò derivava dal sottile senso di colpa che l’incesto le procurava. Ma poi si disse che non c’entrava per niente: era l’abilità di quel ragazzo, la sua sbalorditiva dotazione anatomica che le provocava quella straordinarie sensazioni che la stavano portando al settimo cielo, ed oltre ancora.
Come un’ondata di tzunami venne il primo orgasmo. Lei si trattenne dal fare versi o dal fremere troppo evidentemente. Aveva paura che lui, sentendola godere, eiaculasse a sua volta e la scopata finisse lì. Ma lui resisteva bene, e le ondate si fecero più frequenti, sempre più violente, sempre più soddisfacenti. Cominciò a gemere, cominciò a baciarlo, sulle labbra, sul collo, sulle spalle. Poi non resistette e gli prese la bocca, la penetrò con la sua lingua e risucchiò quella di lui.
Il ragazzo si trovò impreparato: mai aveva baciato una donna in vita sua, mai aveva introdotto la sua lingua in una bocca altrui, mai aveva sentito una lingua aggirarsi tra le sue gote, dentro i suoi denti, strofinarsi alla sua lingua e fargli sentire sapori deliziosi che non avrebbe mai saputo immaginare. Gli sembrava come se avesse in bocca un altro cazzo, ma era un cazzo che apparteneva a lei, alla sua donna, al suo amore, a colei che lo stava facendo uomo.
Lei non si trattenne più. Guaiva, ormai, come una cagna. Cominciò a gridare: “Vengo!, Vengo! Veeeenngooo!” Ed anche lui esplose come una bomba al napalm, che incendiava la vulva di lei, la quale a sua volta spegneva l’incendio con fiotti di secrezioni succose e profumate.
Fu a quel punto che lui intuì: si staccò da lei, si chinò verso il basso e si mise a leccare, a bere avidamente quella bevanda d’amore che lei non finiva di secernere. Lei lo lasciò fare, deliziata e felice che l’istinto aveva superato qualunque lezione teorica. Lui leccava e succhiava quei liquidi. Lei gli porgeva ancor più la vulva, spingendola verso la bocca di lui.
A Guido venne il desiderio di penetrare, con la lingua, quella deliziosa apertura che già gli aveva deliziato la vista. Appena entrata, la lingua incontrò una protuberanza che si protendeva invitante. La risucchiò verso l’esterno e la prese delicatamente tra i denti, poi vi appoggiò per quanto fu possibile le labbra e cominciò a ciucciare, a ciucciare come se fosse il suo biberon, come se fosse la tetta materna di quando era ancora un infante.
Si sentì proiettato indietro nel tempo e si accorse di ricordare che anche allora aveva provato le stesse sensazioni, lo stesso piacere. Si disse che quella non era la prima volta che si scopava la Gilda. Lo aveva già fatto tanti anni prima; era sicuro che anche allora l’aveva fatta godere come la stava facendo godere adesso.
Si addormentarono, finalmente, abbracciati, fianco a fianco, con i corpi che aderivano l’uno all’altro e sembravano un corpo solo, come un corpo solo era stato quando lei era incinta e lui stava ancora tutto nel ventre di lei.
Fu la prima di tante, tante altre battaglie amorose che servivano a Guido per imparare come si conquistano le ragazze.

Capitolo 3. – Caro papà.
Non fu tanto agevole continuare le lezioni di sessuologia quando rientrarono a casa Nunzio ed Anita, di ritorno dalla visita alla nonna paterna.
Difficilmente potevano ritrovarsi a casa da soli e, soprattutto, con la certezza che nessuno li avrebbe interrotti o, peggio, sorpresi sul più bello. Comunque ci furono abbastanza occasioni perché Gilda riuscisse ad istruire il suo bravo rampollo a tutte le astuzie ed a tutte le sottigliezze che possono rendere felice una donna, specialmente se anche lei è una che col sesso ci va a nozze volentieri.
Una buona occasione si presentò, per caso, dopo alcuni mesi.
Nunzio, ispettore tecnico-assuntivo alle dipendenze di una grossa Compagnia di Assicurazioni di matrice francese, dovette recarsi a Parigi, ivi convocato per frequentare un corso di aggiornamento sui rischi dell’incendio ed accessori, che si sarebbe poi concluso con la partecipazione al congresso annuale che la Casa madre organizzava ogni anno per tutti i suoi agenti ed ispettori che operavano in Francia.
Era una bellissima occasione, sia perché la partecipazione a quel corso rappresentava, per Nunzio, la sicurezza che al suo ritorno sarebbe stato promosso ad un rango superiore, con conseguente aumento (consistente!) dei suoi emolumenti, sia perchè sarebbe certamente stato assai gradevole stare per due intere settimane a Parigi, potendosene andare in giro quando le ore di corso erano finite; intere serate per visitare la città, frequentare i locali più rinomati, qualche importante spettacolo teatrale o di varietà, musei, e tante altre attrazioni.
La casa madre gli aveva già prenotato una camera matrimoniale, in quanto la convocazione prevedeva che i partecipanti potessero portarsi dietro la moglie, a spese della ditta, ovviamente.
Ma quando mancavano solo pochi giorni alla partenza, Gilda fu costretta a rinunziare alla gita a Parigi perché il suo datore di lavoro non poté, benché volesse accontentarla, concedergli tutti quei giorni di permesso, neppure sotto forma di ferie.
Lei ne rimase delusa e addolorata. Aveva sempre sognato Parigi, andare a Mont-Martre, vedere uno spettacolo al Moulin Rouge, passeggiare per gli Champs Éliseés, salire sulla Tour Eiffell e fare tutte quelle altre cose che di solito fanno i turisti a Parigi, ivi comprese una serie di serate romantiche con suo marito.
E fu proprio il pensiero delle sfumate serate romantiche con Nunzio che le fece venire un’idea. Visto che non poteva andare a Parigi col marito, tanto valeva provare a starsene a casa senza altra compagnia che quella di Guido, in modo da potere ugualmente trascorrere tante serate romantiche.
Disse a Nunzio: “Visto che io non posso venire, perché sprecare inutilmente l’offerta della tua Compagnia? Porta con te Anita, la quale certamente si divertirà a girare per Parigi, sia da sola, quando tu sei al corso, sia con te, la sera; ed avrà anche occasione per arricchire la sua cultura sia in esperienza che nella lingua francese, che ha solo studiato a scuola.
Nunzio fu entusiasta della proposta. Come ogni buon padre, amava teneramente ambedue i suoi figli, ma, per un motivo che non riusciva a spiegarsi e sul quale si inventava ogni sorta di giustificazioni, aveva un debole per la figlia femmina, che era anche la primogenita.
Anche Anita fu felice di potere stare due settimane a Parigi, col papà al quale era moltissimo legata, come ogni figlia femmina (dicono che sia il complesso di Edipo al femminile).
Così deciso, una domenica mattina Nunzio ed Anita partono per Parigi. Gilda e Guido restano da soli a casa, e quel che succede qui lo possiamo ben immaginare.
Ma ci piace seguire il viaggio degli altri due membri della famiglia.
Arrivati a Parigi verso l’ora di cena, contrariamente a quanto Nunzio si sarebbe aspettato, visto quello che accadeva in Italia, la concierge dell’albergo non trovò nulla da ridire nell’assegnare una camera matrimoniale a due persone che, dai documenti, risultavano padre e figlia.
Salirono in camera e, a turno, fecero la doccia. Mentre faceva la doccia Nunzio, Anita si era cambiata d’abito ed era pronta per uscire. Appena il padre fu uscito dal bagno, lei scese ad aspettarlo nella hall dell’albergo, mentre anche lui indossava abiti idonei ad andare in giro per i locali di Parigi.
Lei, nell’attesa della hall, fingendo di sfogliare una rivista inglese, della quale, peraltro, non capiva una parola, si guardava intorno per scoprire se non ci fossero persone interessanti da conoscere o da incoraggiare. Qualche giovanotto c’era, ma avevano un aspetto o da secchione o da imbranato che ad Anita venne il latte alle ginocchia (come si suol dire).
Scese il papà e, preso un taxi, si fecero condurre a Mont-Martre. Gironzolarono un po’ a vedere vetrine di negozi di lusso, di locali che esponevano varie attrazioni, tra i quali ne capitò (involontariamente) uno che era un pornoshop, nella cui vetrina erano esposti falli artificiali, bambole gonfiabili, creme emollienti di tutte le marche, attrezzi per rapporti sado-maso, ed altre cianfrusaglie del genere. Vi capitarono davanti all’improvviso, e non poterono far finta di nulla. Per vincere l’imbarazzo, fu Anita la prima a scherzarci sopra. D’altro canto non era più una bambina. Aveva ormai ventuno anni compiuti, ed il papà non poteva certo pensare che non avesse gia fatto le sue esperienze amorose. “Che fa, papà, entro e ti compro quella bambola, visto che abbiamo lasciato mamma a casa?”. Lui scoppiò a ridere. Gli era sempre piaciuto l’humor di Anita, dalla quale ascoltava volentieri anche qualche barzelletta un po’ spinta.
Lui cercò di non essere da meno: “Non mi chiederai di comprarti quell’accessorio fasullo; – dice indicando un enorme fallo di gomma - C’è ben di meglio in natura”. E lei di rimbalzo: “Lo so bene.” E giù un’altra risata di entrambi.
Andarono a cena in un ottimo ristorante e vollero mangiare anche “les escargots”, che quel locale cucinava in modo favoloso e per le quali era rinomato in tutto il mondo.
Non fecero tardi, perchè il giorno dopo, alle 8,30, lui doveva essere presente in Direzione Generale. Erano appena le dieci, quando rientrarono nella loro camera. Lei andò in bagno a cambiarsi e mettersi la camicia da notte: aveva sempre odiato, fin da piccola, il pigiama e, seguendo l’esempio della mamma, dormiva con una semplice camicia da notte, lunga fino ai piedi, d’inverno; fino a sopra il ginocchio d’estate. Si era in maggio, a Parigi c’era un buon clima e l’albergo era anche riscaldato. Anita optò per la camicia corta.
Si infilò sotto il lenzuolo mentre Nunzio andava a sua volta in bagno a cambiarsi. Lui indossò un pigiama di popeline, di quelli aperti davanti e con un solo bottone all’altezza della cintura elastica.
Anche lui si stese sotto il lenzuolo e si dettero la buonanotte.
Avevano spento il riscaldamento, perché era loro sembrato eccessivo. Durante la notte, però l’aria si era rinfrescata, per cui, dopo qualche ora, Anita, forse a causa della camicia da notte estiva, cominciò a sentire un po’ di freddo. Le seccava alzarsi per cambiare abbigliamento. Non voleva svegliare il padre che doveva alzarsi presto, e se ne stette un po’ buona buona. Poi, forse involontariamente, il suo corpo cercò un po’ di calore accostandosi a quello del padre. Lui dormiva sul fianco girato verso di lei. Lei si mise sul fianco, accostando la schiena al corpo di lui, per trovarvi un po’ di tepore. Sentì il respiro del padre che continuava regolare, per cui provò ad avvicinarsi ancora un pochino.
Avevano trovato la posizione giusta. Lui, senza tuttavia svegliarsi, nel sonno avvertì quel morbido corpo femminile che si era appoggiato al suo ventre ed al suo petto. Avvertì un profumo di donna al quale non era molto avvezzo, ma che gli risultò assai gradevole. Nel sonno, o forse ormai nel dormiveglia, i suoi sensi assopiti si risvegliarono per loro conto. Il suo pene gradatamente si indurì, si gonfiò, si drizzò fuoriuscendo dall’apertura dei pantaloni del pigiama. Poiché, però, proveniva dal basso, nel drizzarsi andò ad incastrarsi tra i glutei di Anita. Anita non dormiva ancora. Pensò, in un primo momento, che l’erezione del padre fosse una normale reazione ad un qualche sogno gradevole o forse all’effetto degli escargot, notoriamente afrodisiaci.
Comunque, trovò assai gradevole quel contatto. Fin da bambina aveva tante volte sognato di stare abbracciata col suo papà, il quale la baciava e l’accarezzava dappertutto. Aveva qualche volta anche sognato di avere fatto l’amore con lui. Anzi, ricordò che una volta, mentre stava scopando con un ragazzo che non la attraeva in modo particolare, si era ritrovata ad immaginare che, in luogo di quel ragazzo, era suo padre che la stava chiavando, ed aveva goduto come una pazza.
Adesso aveva l’opportunità di sperimentare direttamente se quelle sensazioni erano state solo una irresponsabile fantasia o potevano avere un concreto riscontro nella realtà.
Si mosse impercettibilmente, allargando di pochissimo le cosce, in modo che la verga del padre venne a trovarsi meglio incastrata davanti alle sue grandi labbra. Ella non portava le mutandine, di notte, per cui i due organi vennero a trovarsi a diretto contatto.
Anita cominciò a sentire caldo, tanto caldo, ma non modificò di un millimetro la sua posizione.
Anche lui si era svegliato. Dopo un primo smarrimento, aveva realizzato la situazione. Aveva fatto mente locale al momento, al luogo ed alla compagnia che aveva nel letto. Non sapeva come comportarsi; voleva uscirsene da quella situazione, ma si rendeva conto che comunque si muovesse, qualunque cosa facesse, avrebbe provocato la necessità di una spiegazione, di una giustificazione alla situazione, certamente imbarazzante e strana, in cui lui e la figlia si erano venuti a trovare.
Trovava strano, soprattutto, che, una volta resosi conto che il suo cazzo era incastrato sull’entrata della vulva di sua figlia, egli non solo non percepiva alcun sentimento di ritrosia o di vergogna, ma anzi la cosa gli faceva immensamente piacere e la sua erezione proseguiva imperterrita.
Come al solito, a rompere il ghiaccio fu Anita. Disse solo: “Beh, la bambola c’è.”
Lui non poté esimersi dal rispondere con coerenza: “Anche il fallo, e non è artificiale.”
Lei non voleva imbarazzarlo ancora, ma lo desiderava. Voleva fare l’amore con lui; voleva costringerlo senza la partecipazione di lui, in modo che lui non avesse rimorsi e sensi di colpa.
Senza cambiare la posizione, allargò ancora di più le gambe, prese il pene di lui e lo guidò dentro la sua vulva. La reazione di lui fu immediata ed istintiva: diede una spinta e la penetrò.
Fecero l’amore e godettero entrambi meravigliosamente.
Furono dodici giorni di sogno. Visitarono Parigi in lungo e in largo, assistettero ad una quantità di spettacoli che solo a Parigi si possono vedere. Fecero anche visita a certi locali particolari, dove si incontrano i gay e le lesbiche, e si eccitarono moltissimo a vedere le effusioni omosessuali che quelli sfacciatamente si scambiavano in pubblico.
Poi la sera andavano a letto ad ora non molta tarda e, prima di addormentarsi strettamente abbracciati, si possedevano energicamente, accanitamente, beatamente, appassionatamente.
Lui una sera commentò: “In ogni caso abbiamo eliminato la scomodità di andarci a cambiare dentro il bagno, il che era decisamente scomodo.” Lei sorrise complice.





Capitolo 4 – Il cerchio si chiude
Anita aveva trovato un buon lavoro. Con la sua laurea in scienza delle comunicazioni, già a ventidue anni si trovava a capo di un reparto di una grossa azienda multinazionale, che la pagava assai bene.
Da un po’ di tempo si era dedicata interamente al lavoro, perché era impegnativo e lei aveva l’orgoglio di essere sempre considerata la migliore, dovunque fosse e qualunque cosa facesse.
Aveva quasi del tutto abbandonato le uscite con amici ed amiche, perché molto spesso la sera finiva tardi di lavorare. Un dirigente non ha orario. Ma lei era soddisfatta, proprio perché era un dirigente, e, se quello era il prezzo da pagare, lei lo pagava assai volentieri.
Non aveva ancora un ragazzo, e naturalmente, dopo la parentesi di Parigi, col padre tutto era tornato come se nulla fosse mai stato, salvo qualche sorrisetto di sfuggita o qualche strusciatina che lui, con finta involontarietà, faceva alle sue natiche o ai suoi seni.
Il sabato mattina lo dedicava a sistemarsi la sua camera, a fare un po’ di shopping (da sola o in compagnia della mamma). Il sabato pomeriggio se ne stava nella sua camera a rivedere i programmi, a studiare nuove iniziative, insomma a rifinire il lavoro.
La domenica, quasi sempre, uscivano tutti e quattro fuori città, per andare a trovare qualcuno dei nonni o qualche parente o qualche amica che abitava fuori città e che non potevano incontrare durante la settimana.
Un venerdì giunse la notizia che la zia Concetta, che abitava in un paese a circa settanta chilometri, era morta. Il funerale si sarebbe svolto sabato pomeriggio. Nunzio e Gilda non potevano esimersi dal parteciparvi. I ragazzi dissero che loro non sarebbero venuti, anche perché non erano stati molto vicini alla zia Concetta, quando era in vita: quasi non la conoscevano.
Poiché il funerale sarebbe finito a tarda ora, ed essendo la strada assai impervia, Nunzio e Gilda decisero che la sera di sabato avrebbero dormito in casa di una cugina, per cui era un bene che i ragazzi non fossero venuti, se no non ci sarebbe stato il posto per dormire e sarebbero stati costretti a rientrare anche a tarda ora. Con quella strada!!!
Tutti contenti, dunque. I genitori partono. Il sabato pomeriggio Anita era in camera sua a rassettare i cassetti della sua biancheria. Ad un certo punto bussa alla porta Guido.
“Entra pure.”
“Sentii, Anita, - fa Guido – potresti prestarmi cento euro?”
Anita si incuriosisce. Guido non è uno spendaccione, e la paghetta che ancora gli passa la mamma, essendo ancora studente, gli è di solito più che sufficiente per tutti i suoi bisogni ed anche per i pochi capricci che ha. Vorrebbe saperne di più, ma non vuole irritarlo né metterlo sulla difensiva.
Gli fa un ampio sorriso e, con l’aria più innocente del mondo, gli chiede: “A cosa ti servono?”
Lui nicchia, imbarazzato e silenzioso. Poi: “Ma insomma, me li presti o no?”
Lei lo volge ancora di più in scherzo, perché vuole farlo parlare. La confidenza tra di loro non è mai mancata, ed anche se con un po’ di ritegno, loro si sono sempre detti tutto. Non per nulla da piccoli, andavano tanto ... d’accordo.
“Se mi dici a che cosa ti servono, te li regalo addirittura. Se non me lo vuoi dire, non te li do.”
Lui si schermisce. Nasce un battibecco, ma scherzoso ed allegro. Alla fine, lui cede.
“Ho conosciuto una tipa che posteggia al bar di Piazza Garibaldi. Mi attizza da morire, ma è una che si fa pagare. Vuole cento euro, ma dicono che è una cannonata.”
“Oh, stupidone! E tu vai a sprecare cento euro per una scopata? Non ti riconosco più. Da quando in qua ti mancano le donne? E poi, non ti mortifica il fatto che una viene a letto con te per i soldi e non perché tu le piaci? Dove è finito il tuo orgoglio di castigatore?”
Lui si mortifica un po’, ma insiste. La tipa gli piace proprio, e poi ha la curiosità di sperimentare se effettivamente è quella bomba che dicono i suoi amici.
Ad un certo punto Anita gli fa una proposta. “Senti, io i cento euro te li do, Ma tu mi devi promettere che non li spenderai per una puttana. Se proprio hai voglia di scopare, la voglia te la posso soddisfare io, anche perché ho voglia anch’io, ché è un sacco di tempo che non me ne faccio una. Come ai bei tempi, eh?”
Guido resta interdetto. La sorella gli piace, gli è sempre piaciuta ed ogni tanto ricorda con nostalgia le scopatine che si facevano da ragazzini, anche se lui provava solo un piacere psichico e non molto fisico. Da alcuni anni aveva pensato di riprovarci, ma l’ambiente familiare, la perenne presenza di uno dei genitori o di entrambi, un po’ anche gli scrupoli, glielo avevano impedito. Adesso è felice che sia lei a fargli la proposta, per cui accetta immediatamente e con entusiasmo, anche se finge di farle credere che lo fa per avere i cento euro.
Si spogliano immediatamente e si buttano sul letto di lei. Guido, ormai, si è fatta una grande esperienza, per cui sa come deve prendere quella donna per farla godere e per godere anche lui fino a gemere nello spasimo dell’orgasmo.
Lei è sdraiata sul letto, supina. Lui si stende sopra di lei, ma non la penetra, anche se il suo cazzo si è fatto durissimo e, come al solito, enorme, diritto che sta appiccicato alla pancia anche quando lui sta in piedi.
La bacia sul collo, vicino alle orecchie. Lei comincia a respirare più velocemente. Lui prosegue facendo scendere le labbra lungo una spalla, sino al seno sinistro, mentre con la mano sinistra pastrucchia sul seno destro di lei e con l’altra mano le massaggia le natiche, facendo spesso scorrere l’indice dentro il solco delle natiche.
Lei si eccita sempre di più. Lo abbraccia, gli massaggia la schiena, gli palpa le natiche, gli carezza con un polpastrello il buchetto dell’ano.
Lui freme, ma continua nella sua opera di leccamento e di baci. Le ha inumidito tutta la fascia della vita, sotto i seni fino a dove cominciano i peli del pube. Come sono belli, i peli del pube di Anita: di un castano dorato, non molto folti ma ricci, morbidi, profumati che sembra di affondare in un letto di petali di rosa. Lui strofina le sue gote su quel pube ricciuto: si eccita al massimo e porta lei all’apice del desiderio.
Finalmente la bocca di Guido ha raggiunto la sua meta. Prima depone un bacio tenerissimo sulle grandi labbra della vulva di Anita. Poi la penetra per qualche centimetro con la punta della sua lingua. Lei ne vorrebbe di più ed arcua la schiena per spingere in avanti il bacino. Lui comincia ad accontentarla: la sua lingua penetra ancora più profondamente. Ha trovato il bottoncino rilevato del clitoride. Lo stuzzica con la punta della lingua e quello risponde gonfiandosi ed ergendosi imperiosamente. Lui lo afferra tra i denti e lo morde non molto delicatamente, strappandole un gridolino di dolore, che si accompagna ad uno scossone, con un brivido di piacere.
Lui continua a leccarle la figa sempre più energicamente. Lei accompagna i movimenti della sua testa, tenendogli le due mani ad accarezzare le tempie. Ad un certo punto lui si accorge che lei sta arrivando all’orgasmo, ed allora si ferma, smette e si solleva a guardarla in faccia con tanto amore e tantissima tenerezza. Le dice: “Ti amo, Anita. Ti amo da sempre, da quando eravamo bambini. Ed ho sofferto tanto a non potere fare l’amore con te per tutti questi anni.”
Lei gli sorride, apre le braccia e lo invita a sdraiarsi addosso a lei. Lui si distende. Lei prende il suo cazzo e se lo infila nella vulva. Lui non ne può più, con una spinta energica la penetra fino in fondo, finché i testicoli sbattono sulle natiche di lei che, per favorirlo, ha sollevato il bacino arcuando la schiena. Lei sente tutta la potenza di quel cazzo enorme dentro di sé. La punta di esso le tocca, ad ogni spinta, il collo dell’utero e lei sente, ad ogni spinta, come una scarica elettrica potente e bellissima, che la invita a svenire, a darsi completamente a quell’amplesso, a fondersi in un unico corpo con quello di lui.
E poi godono. Gode lei che sente arrivare gli orgasmi ad ondate successive. Gode lui che sente il piacere che gli sale dai testicoli, indugia lungo la verga, si sofferma all’altezza del colletto del glande ed infine scoppia in un getto violento che inonda la sua vagina, il suo utero. Lei sente il caldo di quel getto di liquido, ed un altro orgasmo la conquista, più violento, più appagante di quello di prima.
Esausti, si staccano l’uno dall’altro. Lui le si sdraia al fianco, e si rilassa completamente.
Lei non riesce a trattenere il suo naturale humor, ed una considerazione le viene spontanea: “Ma lo sai che scopi molto meglio di papà!
E lui di rimando: “Sì. Me lo dice sempre anche la mamma.”



















Capitolo 5 – Un’avventura in Spagna.
Erano trascorsi due anni da quando Nunzio aveva partecipato al congresso aziendale di Parigi. La sua ditta organizzava quelle solenni premiazioni ogni due anni e Nunzio, in considerazione dei sempre brillanti risultati ottenuti, era sempre tra gli invitati perché tra i premiati.
Fu così che, in quell’anno, venne invitato, come al solito con accompagnatore o accompagnatrice, alla premiazione che fu organizzata a Valencia. La celebrazione prevedeva anche due settimane di convegno, per corsi di aggiornamenti alla rete produttiva spagnola, con giornate di incontri di lavoro intervallata da gite e da giornate di libertà.
Nunzio avrebbe dovuto fare da istruttore. All’arrivo della convocazione si pose il problema di chi avrebbe accompagnato Nunzio in questa nuova gita, che si prospettava ricca di soddisfazioni turistiche oltre che di nuove esperienze, nuove conoscenze di colleghi e colleghe degli altri Stati europei, di eventi nuovi e mai prima vissuti. La seconda settimana del congresso sarebbe anche culminata con la grandissima festa religiosa di “Maria Mare de Deus”, la più importante della città di Valencia e di tutto il Paese Valenciano, ricca di sfilate in costume ed, in chiusura, con il grande festival della “masquetà”, gara internazionale tra i migliori produttori di fuochi artificiali del mondo.
Gilda fu la prima a glissare, adducendo di non voler lasciare per tanti giorni i suoi anziani genitori, che adesso vivevano in un appartamento dello stesso loro condominio, da soli. Fu irremovibile nel dire che lei non sarebbe andata.
Anche Anita dovette passare la mano, perché impegnata a tenere uno stage, importantissimo per la sua futura carriera, al quale non poteva certo rinunciare per una gita, per quanto bella e promettente potesse essere.
Fu giocoforza puntare su Guido, il quale in verità non era tanto entusiasta della prospettiva di una gita con papà che, comunque si sarebbe rivelata molto noiosa, anche se istruttiva. A lui la Spagna in generale, e Valencia in particolare, non dicevano proprio nulla. Né poteva pensare che in due settimane, e con gli impegni di papà che lo avrebbero costretto a lunghe ore o in camera o nella hall dell’albergo, avrebbe potuto aspettarsi di racimolare gradevoli avventure di qualsiasi genere.
Ma non si poteva “perdere” l’occasione di una gita gratuita (anzi, spesata dalla ditta), in un albergo a cinque stelle almeno, e forse avrebbe potuto frequentare la piscina e lì avere la possibilità di ottimi incontri occasionali.
Quindi, un sabato mattina, Nunzio e Guido si imbarcano su un volo Alitalia Roma-Madrid e, da questa ultima città, raggiungono con un pullman gran turismo la città di Valencia.
L'Hotel Urbem Valencia, dove sono stati prenotati, offre una posizione ottimale, nelle immediate vicinanze della città delle Arti e delle Scienze, disegnata da Santiago Calatrava, ed è un hotel 4 stelle di design a Valencia. Nei dintorni dell'albergo si trovano ottimi ristoranti, bar, caffetterie, centri commerciali e l'animatissimo porto.
Questo hotel a Valencia è ubicato in una zona molto tranquilla e dispone di giardino, lounge bar, ristorante, terrazza, sala TV, sale riunioni, salone di bellezza, palestra e un fantastico centro Spa con bagno turco, trattamenti a base di fanghi e cabina massaggi.
Guido aveva accertato questi requisiti su internet, e quindi aveva cominciato a riconsiderare le prospettive di una vacanza che poteva diventare veramente sfiziosa.
La sera i due vanno a cena in un ristorantino tipico che aveva loro consigliato la ragazza della reception, molto vicino all’albergo, in modo da non allontanarsi troppo col rischio di non ritrovare la strada.
La cena è più che soddisfacente, con cinque o sei portate a base di pesce, che poi era la passione sia del padre che del figlio. Bevono, ma poco, un vinello bianco della contrada, ben freddo, e finiscono con un semifreddo al limone veramente buono. Anche il prezzo è più che soddisfacente: per tutto quel ben di dio, pagano solo ventinove euro a persona.
Dopo cena, stanchi e frastornati anche dal viaggio, decidono di andarsene a riposare, rimandando ai giorni successivi la ricerca di locali per divertirsi.
Salgono in camera, fanno a turno la doccia e, tenuto conto del caldo, che non vogliono combattere con il condizionatore d’aria per paura di malanni, si buttano nudi sui rispettivi lettini.
La camera, in verità, non è molto grande, per cui i due letti, seppure singoli, sono proprio accostati l’uno all’altro, quasi a letto matrimoniale.
Prendono immediatamente sonno entrambi. Ma dopo qualche ora Guido si sveglia con un grande senso di arsura in gola. In effetti la zuppa di pesce, molto piccante, gli ha procurato una bella sete. Si alza piano dal letto ed a tentoni cerca il frigobar per prendere un’acqua minerale. Ma, non ancora padrone degli spazi, sbatte alla scrivania ed il rumore sveglia anche Nunzio.
“Che stai facendo?” – chiede il padre.
“Stavo cercando di bere; ho una sete del diavolo.”
“Ah, bene, danne un poco anche a me, che ho anch’io una gran sete.” Ed a quel punto Nunzio accende la lampada sul suo comodino.
Guido preleva dal frigo una bottiglia di minerale e due bicchieri, ne riempie uno a metà e lo porge al padre. Poi riempie l’altro e beve stando in piedi.
Gli occhi di Nunzio si posano involontariamente sul cazzo di Guido che, forse anche per uno stimolo di pipì, si è molto gonfiato e sventola in avanti quasi eretto.
“Che c’è?” – dice ridendo Nunzio – “Hai fatto qualche bel sogno erotico”.
“Ma no, pa’. Credo che sia la pipì che me lo ha drizzato.” E ride anche lui. Quindi va in bagno, poi torna e si rimette sdraiato. Nunzio spegne la lampada.
Nunzio vorrebbe riprendere sonno, ma stranamente il pensiero gli torna al cazzo del figlio.
“Caspita,” – pensa – “non mi ero mai accorto che Guido è così ben fornito. Chissà quante amichette riesce a soddisfare!”
In effetti, Guido è assai ben fornito; un affare che, a piena erezione, raggiunge i 22-23 cm di lunghezza, di forma quasi perfettamente cilindrica, diritto, con un diametro di 5-6 cm ed una bella cappella completamente libera dal prepuzio, ben disegnata e col collettino leggermente sporgente.
Anche a Nunzio comincia a crescere l’uccello tra le gambe, pian piano, e si ritrova ad accarezzarlo leggermente nel buio della stanza.
“Oddio,” – sbotta dopo qualche minuto Guido – “mi è passato il sonno. Tu stai dormendo?”
“In verità, ho anch’io difficoltà a riprendere sonno.” E in così dire si rigira sul fianco, verso l’altro letto.
Proprio nello stesso momento, anche Guido si gira verso il letto del padre e, del tutto involontariamente, la sua mano va a finire proprio sul cazzo di Nunzio.
“Che c’è, pa’? Ti sei arrapato anche tu?”
“Beh, s
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