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Mia moglie Valeria - Dopo i 40 anni - Cambiamenti - Capitolo 12 - Il locale (parte seconda)


di Marta-trav
25.07.2022    |    10.581    |    8 8.7
"Proprio come mi aveva spiegato Matteo..."
Decisi di non pormi limiti e di giocare secondo le regole del gioco di quel locale.
Decisi di vedere fin dove Matteo fosse stato capace di condurmi. E di capire se fossi stata disposta anche io a raggiungere quel posto.
Il salvagente era lì, a portata di mano.
Bastava pronunciare quelle cinque lettere e tutto sarebbe finito.
Promisi a me stessa di non farlo. Cercai di dimenticare quella parola. Senza riuscirci, ovviamente.
Il dolore provato durante l’applicazione delle pinzette sui miei capezzoli era ancora vivo. E lancinante.
Pensai che, nonostante fossi finita all’inferno (o in paradiso, dispende dai punti di vista), comunque non poteva succedermi nulla di male.
Ero in un locale pubblico, alla presenza di tanta altra gente.
Ovvio, non ero in una pizzeria o in un ristorante. Ero in un locale “di un certo tipo”. Tuttavia non ero preoccupata per la mia incolumità. E poi la presenza di Elena mi rassicurava ulteriormente.
Le conseguenze di quella serata potevano essere, sostanzialmente, di due tipi, lo sapevo bene.
Immediate ed a lungo termine.
Quelle immediate riguardavano la mia intimità.
Qualcosa mi diceva che, se durante la serata, avessi assecondato i desideri e le voglie di Matteo (e chissà di quanti altri uomini), molti cazzi sarebbero entrati dento di me, davanti, dietro e sopra. Con le conseguenze prevedibili. Dilatazione, infiammazione, indolenzimento e dolore di tutti i miei buchi furono le prime idee che mi vennero in mente.
Quelle a lungo termine riguardavano, invece, il mio rapporto con il sesso, con mio marito e con Elena.
Cosa sarebbe cambiato, nella mia vita di coppia, dopo quella serata?
Non restava che aspettare e vedere.
Pensai a Stefano.
Mi aspettava a casa per una certa ora. La solita ora di quando, di solito, rincasavo quando uscivo con le mie colleghe. Mai troppo tardi, a dire il vero.
In quelle circostanze lo trovavo quasi sempre addormentato, sul letto o sul divano.
Lo svegliavo, ci salutavamo e lui tornava subito nel mondo dei sogni.
Stavolta, invece, sarei tornata a casa molto più tardi del solito. E dovevo inventarmi una scusa. Ci avrei pensato più tardi.
Ora dovevo concentrarmi per non cadere, visto che Matteo mi stava letteralmente tirando con il guinzaglio ed io mi sentivo in equilibrio precario su quei tacchi altissimi che indossavo.
Le mie tette ballonzolavano libere, al ritmo dell’andatura del passo imposto da Matteo.
Le pinzette facevano il loro lavoro egregiamente, irradiando sensazioni di dolore, sempre più prossime al piacere, dai miei capezzoli in tutto il mio corpo.
L’ingombrante presenza del plug infilato nel culo mi ricordava l’accettazione della mia sottomissione all’uomo che, in quel momento, mi stava conducendo al piano inferiore del locale.
Gli sguardi famelici e affamati delle persone, uomini e donne, che incrociavamo durante la discesa agli inferi contribuirono ad accelerare il processo di eccitazione che, da quando eravamo usciti dalla sala dei preparativi, stava letteralmente avvolgendo il mio corpo e la mia mente.
Mi sentivo sempre più bagnata in mezzo alle gambe.
Una ventina di minuti prima Elena, con le sue dita, mi aveva fatto godere.
Ora era la situazione che stavo vivendo che, psicologicamente, mi stava facendo eccitare.
Nuda, in mezzo alla gente, tirata al guinzaglio da un uomo, con un plug infilato nel culo e con i capezzoli stretti nella morsa delle pinzette.
Li vedevo violacei, i miei capezzoli. Li sentivo particolarmente sensibili. Non dissi niente, però.
Mi chiedevo cosa fosse successo se avessi incontrato, a parte Elena, qualcuno che mi conosceva.
Liberai la mente da questi pensieri e mi affidai completamente al mio padrone.
Iniziammo a scendere le scale.
Dovetti tenermi al corrimano, per non cadere.
“Togli quella mano da lì”, mi ringhiò Matteo, essendosene accorto.
Obbedii.
Mi concentrai sugli scalini.
Percorremmo le due rampe di scale che conducevano al piano inferiore, senza particolari intoppi.
Al termine delle scale mi trovai di fronte ad un lungo corridoio, illuminato da una calda luce rossa.
Non c’era molta gente nel corridoio.
Tuttavia si percepiva chiaramente che, all’interno delle stanze, le cui porte affacciavano sul corridoio davanti a noi, erano in corso attività sessuali varie.
Lo si percepiva dai gemiti e dalle grida delle donne, perfettamente udibili dal punto in cui ci trovavamo io e Matteo. Ed anche dal tono della voce e dagli ordini impartiti dagli uomini che conducevano i giochi.
Iniziammo a percorrere il corridoio. Matteo davanti a me di un paio di metri, tanto era lunga la catena del guinzaglio che teneva in mano, ed io, dietro di lui, concentrata a non inciampare, a non poggiare le mani da nessuna parte ed a godermi le sensazioni che il plug e le pinzette diffondevano nel mio corpo.
Le porte delle stanze erano tutte aperte. Raggiungemmo la prima, alla nostra destra.
Dentro ogni stanza, come ebbi modo di accertare nel corso di quella lunga serata, c’era una parte riservata agli spettatori. Nulla impediva a chi avesse voluto di poter assistere a quanto stesse accadendo all’interno della stanza. E poi c’era la zona riservata ai protagonisti. E la si poteva sfruttare liberamente, qualora non fosse già utilizzata da altri, ovvero partecipare ai giochi in corso, su richiesta, o, comunque, previo assenso, dei protagonisti stessi. Proprio come mi aveva spiegato Matteo.
Dentro quella prima stanza una decina di persone, uomini e donne, stavano assistendo allo spettacolo offerto da una coppia.
Il rapporto che si stava consumando dentro quella stanza, che fosse occasionale o frutto di una vera e propria relazione strutturata tra i due protagonisti, trasmetteva chiaramente, a chi stesse osservando, la volontà, di ciascuno dei due, di rivestire il ruolo che stava ricoprendo durante quella seduta di sesso estremo, lui quello di dominante, lei quello di sottomessa.
Matteo non me lo aveva chiesto apertamente, non finora, almeno. Tuttavia il colore del mio braccialetto e la disponibilità con la quale lo avevo seguito dentro quella stanza, quella dei preparativi, ed il mio non rifiuto ad accettare quanto, fino a quel momento, aveva deciso di fare di me, equivalevano, inequivocabilmente, al mio consenso.
In altre parole ero, agli occhi di Matteo e di chiunque altro avessi incontrato dentro quel locale, assolutamente disponibile e desiderosa di ricevere un certo tipo di attenzioni. Nessuna costrizione e nessuna coercizione. Solo volontà. La mia.
Era realmente quello che volevo? Si, lo volevo.
Ormai volevo e dovevo provare.
Mi ero convinta che quelle pratiche che scorrevano davanti ai miei occhi, in quel piano interrato di quel locale, tendessero comunque alla ricerca del benessere di tutti.
Anche se sapevo che benessere non significasse necessariamente soddisfacimento ed appagamento sessuale.
Ero certa che per quella donna che stavo osservando proprio in quel momento la frustrazione, la sofferenza o il dolore procuratole dall’uomo fossero, per lei, sicuramente un intenso piacere mentale. Quella donna sapeva che il proprio piacere fisico, sessuale, poteva non esserle concesso, e che dipendeva dall’arbitrio e dalla volontà dell’uomo che era con lei.
E questo le bastava.
Tutto ciò era normale? Era etico? Era legale? In quel momento non me fregava niente. Vedevo quella donna come godeva del ruolo che rivestiva e non vedevo l’ora di potermi trovare al suo posto.
La mia eccitazione stava galoppando. Mi sarebbe piaciuto toccarmi, darmi soddisfazione.
Non osai farlo.
Sapevo che il mio ruolo, determinato anche da quel collare e da quel guinzaglio che indossavo, mi impediva di essere autonoma nelle decisioni. Ripensai a quella donna che, insieme al suo compagno, aveva approcciato me e Marta appena entrate nel locale. Lei faceva solo quello che le diceva il suo uomo. Io potevo fare solo quello che mi ordinava Matteo. E lui non mi aveva detto di toccarmi.
Tuttavia un calore straordinario mi stava avvolgendo. Sentivo sensazioni di piacere invadermi in ogni angolo. Sentivo la mia figa bagnata, zuppa. La sentivo implorarmi di essere toccata.
Nel frattempo la coppia proseguiva nella sua performance.
Osservavo quell’uomo e quella donna. Lei non stava facendo nulla per far godere il suo uomo. Anzi, era totalmente disinteressata al cazzo dell’uomo che, infatti, era molle e penzolava tra le sue gambe.
E neppure lui stava stimolando le zone erogene della donna.
Tuttavia si percepiva chiaramente che i due stessero comunque godendo. Non in un modo convenzionale, ovviamente. Ma stavano traendo comunque piacere, soddisfazione ed appagamento da quella strana prestazione.
Un dolore lancinante mi costrinse ad interrompere la visione dello spettacolo al quale stavo assistendo.
Un uomo, non più giovanissimo ma ancora piacente, aveva afferrato la pinzetta sul mio capezzolo sinistro e, con l’indice ed il pollice, aveva impresso ulteriore forza alla morsa che, già da un po’, stava strizzando quella delicata parte di me.
Il dolore fu intenso e penetrante.
Appena mi resi conto di quanto successo, anche il mio capezzolo destro subì lo stesso trattamento. Stavolta era stata una donna ad imprimere pressione aggiuntiva a quella pinzetta.
Scariche elettriche mi annebbiarono la vista e le idee.
Strinsi i denti per non gridare. Lacrime di dolore si formarono nei miei occhi. Cercai in tutti i modi di non farle scorrere sulle guance.
Cercai Matteo con lo sguardo.
Lo vidi mentre scambiava un gesto d’intesa con l’uomo. E poi tornò a godersi lo spettacolo che quella coppia stava offrendo.
Aveva dato il suo assenso.
Non potevo lamentarmi per quel trattamento da parte di quella coppia.
Potevo invece interromperlo. Mi bastava pronunciare…
Sentii una mano toccarmi.
La sentii prima pizzicarmi le chiappe, non certo con dolcezza.
Poi la sentii afferrare il plug.
Fu un attimo. Il plug fu sfilato rapidamente dal mio buchino, con un rumore sordo.
Un lieve dolore si diffuse nel mio corpo. Fu più la sorpresa, in realtà, a farmi sobbalzare.
Percepii chiaramente che il mio forellino rimase aperto. Lo sentivo dilatato e slabbrato. Addirittura percepivo la mancanza del plug come fastidiosa. Mi sentivo vuota. Volevo essere piena, invece.
Qualcuno dovette leggermi nel pensiero.
Perché sentii una mano sostituirsi al plug.
Matteo, sempre con l’anello del guinzaglio serrato nella sua mano, come a dire a tutti che ero roba sua, di sua proprietà e che solo lui poteva disporre di me, continuava a guardare la prestazione della coppia.
Io, che ero proprio dietro a Matteo e che, con il mio metro e ottanta o forse più, raggiunto grazie a quei tacchi vertiginosi che indossavo, ero praticamente alta quanto lui, ero affiancata da quell’uomo, alla mia sinistra e da quella donna, alla mia destra.
Entrambi più grandi di me. Entrambi ancora vestiti. Anche se la donna indossava una maglietta aderente nera in nylon, completamente trasparente e senza reggiseno. I suoi seni, un po’ cadenti, avevano i capezzoli ricoperti da due strisce adesive di colore nero, che disegnavano una “X” su ciascuno di essi.
La mano di uno dei due aveva sfilato il plug che Matteo mi aveva fatto inserire nel culo ed ora un’altra mano, magari sempre la stessa, stava entrando dentro di me.
Non riuscii a capire con quante dita. Ma, dalla dilatazione che sentivo imporre al mio buchino, dedussi che fossero almeno quattro, se non tutte e cinque.
Il dolore affilato che ancora proveniva dai miei capezzoli e quello pungente che la dilatazione del mio ano restituiva al mio cervello, fecero aumentare la mia respirazione, fino a trasformare i respiri profondi in gemiti di dolore. O di piacere.
Se la mano mi avesse toccato la passerina, avrebbe trovato un lago. Ed avrebbe capito che mi stavo eccitando per quanto mi veniva fatto.
Mi sarebbe soltanto piaciuto sapere se la mano che si stava facendo largo dentro di me fosse dell’uomo o della donna.
Sentii ruotare le dita, che erano avvolte dalle calde pareti del mio ano.
Il dolore aumentò. Un leggero gridolino mi uscì dalla bocca.
“Sta zitta!”, mi disse Matteo, scorbutico.
“S-scusami”, gli dissi io.
La mano continuava a frugare nella parte terminale del mio intestino, come se stesse cercando qualcosa.
Mi sentivo, ormai, completamente aperta.
Era la prima volta, indubbiamente, che il mio forellino posteriore raggiungeva quella dilatazione, quella circonferenza. Lo sentivo sfondato. Sentivo la mano risalire nelle mie profondità.
Non potevo rifiutarmi di subire quel trattamento. Non potevo gridare.
Mi venne in mente la safeword. La sentii scendere alla bocca, formarsi tra le mie labbra.
Mi imposi di serrarle.
La parolina fu ricacciata in un angolo remoto della mia mente.
“Ci vediamo più tardi, tesoro”, mi disse l’uomo, sottovoce, all’orecchio.
Lo vidi allontanarsi. La mano, però, era ancora dentro di me.
E dunque era quella della donna.
“Bel culo, complimenti”, mi disse, infatti, la donna all’altro orecchio.
Non risposi né a lui, né a lei.
Sentii che la donna, prima di allontanarsi da me, reinserì nel mio ano il plug.
Stavolta temevo che mi si sfilasse da solo, di perderlo camminando, tanto mi sentivo aperta.
La penetrazione di quelle quattro o cinque dita della mano della donna aveva contribuito, dopo quanto già fatto dal plug, ad allentare ulteriormente i muscoli del mio ano.
Ora il plug mi stava fin troppo largo. Nel dubbio, ed in attesa che i miei muscoli rettali tornassero alla posizione originaria, trattenni il plug con la mano.
Lo spettacolo della coppia, intanto, proseguiva.
In quella stanza un uomo e una donna stavano traendo piacere da un rapporto legato alla dinamica del potere che intercorreva tra l’uomo, il dominante, e la donna, la sottomessa.
L’umiliazione e la libertà di disporre della donna esaltava, senza ombra di dubbio, il senso di potere dell’uomo. Lei ne era evidentemente gratificata.
Gli stimoli inflitti ed elargiti dall’uomo e l’assenza di volontà, unitamente alla sensazione di impotenza, della donna, creavano un mix esplosivo di sensualità ed erotismo, miscela deflagrante per la mia eccitazione, ormai fuori controllo.
Temevo di avere un orgasmo solo per quello che era successo fino a quel momento e per quello che i miei occhi stavano guardando. Senza toccarmi.
La donna era in ginocchio. Cioè, non proprio.
Aveva i seni legati con delle spesse corde di canapa. Ciascuna corda circondava e, contemporaneamente, stringeva le tette di quella donna. I seni della donna erano di un colore rosso scuro, quasi viola. Le corde stringevano sufficientemente ed impedivano la normale circolazione del sangue. Le due corde erano poi protese verso l’alto, oltrepassavano una trave di legno sul soffitto e ricadevano su un’altra asse di legno, ancorata al pavimento, con due grandi occhielli in metallo, dove erano legate. Le corde erano completamente tese. La donna, se si fosse spostata all’indietro, avrebbe ulteriormente tirato le corde e, di conseguenza, le sue tette, procurandosi ulteriore dolore. Avrebbe potuto, invece, spostarsi in avanti, allentando la morsa delle corde. Ma non poteva farlo, perché un ostacolo sul pavimento, una specie di gradino in legno, sufficientemente alto per non poter essere scavalcato, le impediva, volutamente, di poterlo fare.
La donna era immobilizzata in quella posizione. Non aveva scelta.
Le corde permettevano alla donna di restare in equilibrio e non cadere con la faccia in avanti e sbatterla violentemente sul pavimento.
Anche perché le braccia della donna erano infilate in mezzo alle sue gambe, passavano accanto ai seni e raggiungevano le caviglie, alle quali erano legate da una barra di metallo, sufficientemente lunga, che aveva quattro anelli, due per lato, nelle sue due parti terminali.
Negli anelli più esterni erano assicurate le caviglie della donna. Negli anelli interni, i suoi polsi.
Quella posizione insolita determinava una proiezione verso l’alto e verso l’esterno del culo della donna.
Dalla mia posizione, vedevo la donna, completamente nuda, di profilo.
Potevo apprezzare l’eleganza di quella figura e di quella posizione, imposta dalle corde e dalla barra di metallo.
E riuscivo a cogliere le espressioni sul viso della donna.
Mai ebbi il dubbio che lei si trovasse in quella posizione contro la sua volontà.
L’uomo, dietro di lei, completamente nudo anche lui e con il cazzo moscio in mezzo alle gambe, faceva colare gocce di cera infuocata sulla pelle della donna.
Manovrava candele di varie forme e di vari colori.
La cera già raffreddata sulla pelle della donna sembrava la tavolozza dei colori di un pittore pazzo.
Proprio in quel momento l’uomo, dopo aver riempito di cera colorata la schiena della donna ed il suo sedere, si stava concentrando sul buchino posteriore di lei.
Ogni goccia che cadeva era una stilettata.
Il volto della donna si contraeva in smorfie di dolore.
Non un lamento, però, uscì dalla sua bocca.
Evidentemente anche quel trattamento era di suo gradimento.
Le gocce, ora, cadevano tutte sull’ano della donna. L’uomo aveva assestato la mira. Ogni goccia, un centro. Ogni goccia, un sobbalzo. Ogni goccia, una sensazione di dolore. Di piacere, per entrambi, secondo me.
La cera, prima di raffreddarsi, procedeva la sua corsa come fosse lava. E procedeva in direzione della figa della donna.
Decisi di rischiare. Non ce la facevo più. Allungai una mano e mi infilai un paio di dita nella mia patata.
Era bollente, viscida e appiccicosa.
Non riuscii tuttavia a placare le mie voglie.
L’uomo continuava a versare cera sul buco del culo della donna.
Con l’altra mano l’uomo afferrò un nuovo aggeggio. Una sottile asta di metallo, con un quadratino di cuoio ad una delle due estremità.
E, con quell’attrezzo, iniziò a dare colpi, prima delicati e poi sempre più intensi, sulla figa della donna.
L’uomo era visibilmente soddisfatto della sua performance e del comportamento, docile e ubbidiente, della sua schiava.
Quei colpi sulla figa della donna, che stava assumendo una colorazione rossastra, le strapparono qualche gridolino dalla bocca.
L’uomo dosava sapientemente i colpi sulla figa della donna e le gocce di cera sul suo culo, alternandoli con maestria.
Lui godeva nel farlo. Lei godeva nel riceverli.
Universi sconfinati e terre inesplorate si fecero largo nella mia testa.
Stavo scoprendo situazioni assolutamente nuove e sconosciute per vivere il sesso.
E quelle situazioni mi piacevano.
“Vieni, andiamo via”, mi ordinò Matteo, dando uno strattone deciso al guinzaglio ed obbligandomi a seguirlo.
Mi voltai un’ultima volta ad ammirare quella coppia che stava godendo senza toccarsi.
L’uomo era intento a manovrare un nuovo strumento.
Un’altra corda, che prima non avevo notato, veniva avvicinata alla donna.
Un’estremità della corda era annodata vicino alle altre due.
Anche questa corda andava verso l’alto, oltrepassava la trave in legno e ricadeva nei pressi dell’uomo.
All’altra estremità della corda era legato un grosso gancio ricurvo in metallo, simile ad un grande amo.
Al termine del gancio era presente una sfera, con una diametro di qualche centimetro.
L’uomo stava avvicinando quella sfera al buchino posteriore della donna.
La donna si stava predisponendo ad accogliere, dentro di lei, quell’oggetto.
Quella donna era Marta.
Quell’uomo era quello che ci aveva abbordate appena entrate.
Nessuna traccia, invece, della compagna dell’uomo, la sua precedente schiava.
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