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Montecalvario blues: "Extremis malis, extrema remedia"


di renart
02.02.2017    |    2.378    |    1 7.5
"Non ne vado orgogliosa, ma ho bisogno di mio marito, dei suoi soldi e del suo status sociale, indispensabili per me..."
Quando apprese la notizia, la sig.ra De Rosa sbiancò in volto, le mani le tremarono e persero la presa sul portafogli rosa shocking marcato Prada che cadde sul parquet, e un pugno di monete rintoccarono seccamente sul Wengè Africa sul quale si specchiava a trentadue denti il sole di mezzogiorno prima di spalmarsi sulle pareti rosa salmone del salotto riverberando sull’espressione sclerotizzata nel terrore della proprietaria di casa, evidenziandone il pallore innaturalmente diafano. Giorgina si fiondò a braccia protese sulla sua datrice di lavoro un attimo prima che ella cadesse a peso morto sul tavolino di cristallo posto davanti al divano panoramico New Orleans in pelle nera - che da solo vale un terzo del mutuo che il suo Lucio ha acceso per l’acquisto dell’appartamento all’angolo tra via Montecalvario e via Speranzella - e l’adagiò con tutte le premure del caso sulla chaise-longue, per poi correre in cucina a riempire un bicchiere d’acqua, nel quale sciolse un paio di zollette di zucchero.
“Signora!”, sbottò la domestica quando vide la sua padrona riprendere un minimo di colore naturale, “Mi ha fatto prendere una paura. Ma cos’è stato? Si sente meglio?”
“Sì sì, tranquilla Giorgina”, la rassicurò la sig.ra De Rosa, “è stato solo un mancamento lieve e passeggero. Deve essere questo caldo...”. Si portò la mano alla fronte, chiuse gli occhi e contrasse le labbra. “Che mi stavi dicendo prima?”, disse poi, ostentando un tono calmo ma allo stesso tempo deciso.
“Eh, signo’, e chi si ricorda... vuie m’avite fatto scantà”, rispose la ragazza, ancora visibilmente agitata.
“Non parlare in dialetto, Giorgina. Te l’ho detto mille volte”, la rimproverò fiaccamente la donna, “Comunque, mi pare che stessi alludendo a certe telecamere che ha installato il tuo moroso... Non ricordo bene...”
“Aaah... le telecamere... sì... e niente, signo’, l’altro giorno Lucio mio venne qua nel palazzo, abbascio ‘e garage... cioè, scusate, volevo dire giù ai garage... per sistemare le telecamere... nun m’arricordo comme l’ha chiamato... ‘o circulino chiuso, mi pare”.
“Circuito chiuso”, sospirò la De Rosa guardando il soffitto a mo’ di implorazione, “l’ha chiamato circuito chiuso”, e si schiaffeggiò la fronte rassegnata.
“Sì sì, proprio così l’ha chiamato”, squillò raggiante Giorgina, “circuito chiuso. Accussì ‘o guardapurtune può tenè tutto sotto controllo, specie ‘a notte... con tutti ‘sti fetienti a piede libero...”
“E basta con questo napoletano!”, scattò la padrona di casa balzando in piedi, adesso rossa in viso. Raccolse il portafogli e ne estrasse tre banconote da dieci che mise in mano alla ragazza. “Tieni, vai a casa ora, che ho un mucchio di cose da fare. Ci vediamo dopodomani”.
Giorgina guardò stupefatta la sua mentore uscire dal salotto e imboccare il corridoio, diretta nell’ala notte dell’appartamento. Ci mise qualche istante a riprendersi dallo stupore per la reazione incomprensibile di una donna che era stata con lei sempre a dir poco gentile e garbata, nei modi come nei toni, quindi recuperò la borsa dall’attaccapanni nell’ingresso e uscì, chiudendosi alle spalle la massiccia porta blindata senza fare rumore.

*
Rimasta sola, la sig.ra De Rosa recuperò uno spinello confezionato dal cassetto della coiffeuse stile XVIII secolo marcata Maisons du monde, in perfetto pendant col resto dell’arredamento della camera da letto, e si chiuse in bagno. Stupida stupida stupida, ripeteva alla sua immagine riflessa allo specchio, sei soltanto una povera stupida. Doveva riflettere. Rilassarsi e riflettere. Una doccia. Ci vuole una doccia. Anzi no, un bagno caldo. Fanculo ai 35° all’ombra, un bagno caldo è quello che le serve per riprendere il controllo dei suoi nervi e della situazione. Sudare, espellere tossine, riflettere, riflettere, riflettere. La sua mente, ancora ottenebrata dalla notizia che le aveva sconvolto la giornata, cominciava ad elaborare la soluzione al suo problema, selezionando inconsciamente le varie alternative. Alla fine non ne sarebbe rimasta che una.
Accese la canna di ottimo marocchino, aspirò, trattenne per un po’ il fiato e finalmente liberò dalla bocca e dalle narici il fumo denso e azzurrognolo. Girò entrambe le manopole della vasca da bagno. Miscelò i flussi di acqua calda e fredda fin quando non fu soddisfatta della temperatura. Tappò il buco, aggiunse sali rilassanti di un azzurro intenso e crema di bagnoschiuma alla vaniglia. Ritornò allo specchio, atteggiò le labbra unendole e sporgendole all’infuori, come se volessero schioccare un bacio, e si passò i polpastrelli dei medi sulle sopracciglia, stirandole, e poi sotto agli occhi, tirando la pelle sottile e delicata fino a quando la vista non ne risultò appannata. Staccò la chiusura del reggiseno e due seni perfetti, rotondi, grossi a sufficienza da suscitare nel più pacato tra gli uomini i pensieri più lubrici, trionfarono superbi. Le corone di un rosa chiaro brillavano per un velo di sudore e i capezzoli gonfi e appuntiti aggredirono lo spazio con regale alterigia. Raccolse la chioma permanentata di fresco in un nodo sopra la nuca e l’assicurò al morso di un mollettone di legno intarsiato per tenerlo su. Sfilò gli anelli dalle dita e li dispose in fila sulla piccola mensola fissata sopra al lavandino, poi aprì un’anta alla destra dello specchio, staccò un batuffolo di ovatta, ci spruzzò sopra un po’ di detergente e prese a struccarsi dagli occhi il velo di rimmel. Il leggero fruscio sulla pelle di quell’operazione era assorbito dai tonfi cupi dell’acqua. La schiuma si montava ai lati del piccolo vortice come fosse albume e da lì si spandeva per tutta la vasca, come una nuvola. La sig.ra De Rosa buttò il batuffolo macchiato di colore nella piccola pattumiera in alluminio e si sfilò il perizoma. Si grattò il triangolo ricciuto che le ricopriva il monte di Venere, folto in alto e via via più sfumato verso il basso, fino a lasciare glabre le vellutate labbra della fica, quindi chiuse l’acqua. Prese il posacenere e lo pose su un lato della vasca, tra gli shampoo e i bagnoschiuma. Aprì la finestra, non tutta ma il necessario per far fuoriuscire il vapore che già appannava le superfici lisce della stanza da bagno, e sul davanzale accese l’estremità scura di un nag champa, dalla quale immediatamente si sprigionò un filo di fumo intensissimo. Si cacciò in bocca lo spinello, tirò forte ripetutamente per risvegliare la brace assopita e immerse un piede fino alla caviglia, agitandolo nell’acqua per saggiarne la temperatura. Poi mise anche l’altro e rimase dritta in piedi per qualche secondo. Il pelo dell’acqua le arrivava sotto alle ginocchia e la schiuma le solleticava la pelle. Si accovacciò, assaporò il piacere che le davano le piccole onde che lambivano il sesso, lasciandole impigliati tra i peli dell’inguine minuscoli grumi di schiuma. Infine si sedette, distese le gambe, poggiò la testa sul bordo, trasalendo per la scossa di freddezza che la ceramica smaltata le propagò dalla nuca lungo la spina dorsale, e si lasciò scivolare sul fondo della vasca. Il fumo dell’hascisc s’impastava a quello dell’incenso rendendo l’aria spessa e satura di un afrore fortemente orientale, e insieme formavano un composto aeriforme scuro che mitigava il compatto biancore del vapore che lievitava lento dall’acqua bollente.
Finalmente rasserenata, la sig.ra De Rosa gustò il suo spinello fin quando la brace non arrivò al cartoncino che faceva da filtro. Con gli occhi chiusi aspettò che la confusa nebulosa che le avvolgeva la mente si diradasse lasciandole i circuiti percettivi carichi di ebbrezza e si espandesse, con l’ondulata mollezza di un’onda, per tutto il corpo, avvolgendo sinuosamente i punti nevralgici, chimerici epicentri della tensione che sentiva gradualmente dissolversi. Adesso sapeva cosa doveva fare, e questa consapevolezza le ridiede quella sicurezza che tutt’un tratto le era venuta meno alle parole della servetta, al punto da farla vacillare sulle gambe. Sentì il torpore salirle dalle ginocchia sopra la superficie delle cosce, i capezzoli inturgidirsi e protendersi in punte dure e vibranti, mentre qualcosa si scioglieva al centro dell’addome e un magma, che percepiva salir su dal profondo delle viscere, si convogliava verso il basso ventre, laddove le labbra del suo sesso ricevevano un’abbondante pulsione di sangue e si aprivano come grossi petali cremisi. Come se ogni atto fosse una conseguenza dell’ordine naturale e armonico del cosmo, portò una mano tra le gambe, morse con forza il labbro inferiore per contrastare il violento piacere che le scaricò lungo la spina dorsale il contatto delle lunghe dita con l’interno delle labbra e prese a carezzarsi il clitoride, con piccoli e lenti movimenti concentrici, mentre sullo sfondo delle palpebre chiuse prese corpo sempre più nitidamente, come un’immagine gradualmente messa a fuoco da un obiettivo puntato sulle sue fantasie più recondite, la figura bruna di Arturo che se la chiava da dietro, sul cofano ancora caldo della Classe A200 color magenta, gradito omaggio del marito per il suo 28imo genetliaco, grugnendole all’orecchio oscenità che il solo ricordarle le sferza di brividi le carni. Rievocare la grassa volgarità di quei commenti e gli epiteti che le venivano sputati addosso con foga animale, infuse un’ulteriore energia alle dita, che ora esploravano l’interno del punto nevralgico del suo piacere. Sentì l’indistinto ribollire delle viscere salire in superficie vertiginosamente, preannuncio inequivocabile di un orgasmo imminente, tumultuoso, che esplose in ogni cellula del suo corpo, sfibrando i tessuti dei muscoli che si tesero allo spasmo, la schiena s’inarcò sul fondo della vasca, la bocca semiaperta imbarcò piccole onde d’acqua, mentre il gorgoglio di urla voluttuose accompagnò l’ultimo sforzo delle dita, che stremate strappavano dalle labbra indolenzite e contratte l’ultimo frammento di quell’esplosione rovente, portandosi via la scia vischiosa dell’amplesso, proprio nello stesso istante in cui l’immaginazione le diede distinta la sensazione degli schizzi potenti e copiosi del suo stallone inondarle il grembo.
*
Con una paglia di trinciato stropicciata che gli pendeva mezza spenta da un lato della bocca, il camice da bidello aperto sul ventre da avvinazzato mal contenuto da una canottiera di un paio di taglie indecorosamente più piccole del necessario, braghe alla zuava verdi militare, infradito di gomma Forza Napoli ai piedi, zazzera grigiastra raccolta in un codino striminzito e spelacchiato, come le setole di uno scopettino per bottiglie troppo a lungo usato, Vito Cammarota spazzava la pavimentazione in porfido dell’androne, agitando ogni tanto la ramazza in direzione dei piccioni che planavano sulla corte - illuminata in parte dall’abbacinante luce del sole che pioveva di sbieco, dopo aver vinto la resistenza di antenne, parabole, panni stesi ad asciugare su fitte ragnatele di corde, mansarde tirate su abusivamente e quant’altro ancora affollava i tetti dei palazzi affumicati che si affastellavano uno sull’altro lungo la salita di Montecalvario - per beccare rimasugli di cibo tra gli interstizi dei blocchi di pietra disposti a lisca di pesce, sottolineando i minacciosi volteggi dell’improvvisata scimitarra con poco amichevoli sciò sciò, bestiacce immonde, ma si capiva dal tono e, soprattutto, dall’enfasi col quale accentava l’epiteto, che destinatari dei suoi strali erano coloro che gettavano generi commestibili di ogni tipo, sebbene ridotti a briciole e pastone, da sopra abbasso col fine di sfamare gli stomaci onnivori di queste discariche alate, solleticandone le acide scacazzate, che a lui poi, pena lavata di faccia da parte di chi l’aveva assunto con conseguente decurtazione salariale per manchevolezza di mansione, toccava scartavetrare da terra – e ci puoi passare anche mezza giornata inginocchiato come un penitente su quelle pietre, ma la fetenzia di quei malcreati quando si azzecca ci vuole la mano di nostro Signore per lavarla via.
È così, come un don Chisciotte lanciato a razzo contro i mulini a vento, che lo sorprese una divertita Giorgina allorché fece capolino sulla sommità dello scalone. Quell’uomo le aveva sempre fatto una gran simpatia, forse per il suo aspetto da orso con la gotta, sempre impacciato nei movimenti, oggettivamente brutto, ma brutto di una bruttezza così in netto contrasto con la gentilezza e l’affabilità che le riservava da far intuire un’eleganza d’altri tempi nei modi e un garbo che la vita, pur provandolo con una sofferenza che ne incideva il volto con rughe profonde e ne determinava l’artritica andatura, aveva tutto sommato risparmiato. Ma su tutto le davano intimo godimento le reazioni che il vecchio aveva quando lei gli ostentava sotto al naso le esuberanze delle sue grazie, provocandolo e al tempo stesso invitandolo, mettendo in scena una gustosa dicotomia tra la gentilezza di cui sopra e la cupidigia che gli deflagrava nelle iridi incandescenti, spie inequivocabili dei morsi di una lussuria nient’affatto sopita. Col sorriso sbarazzino che le irradiava sul volto un’aria maliziosa, dunque, la bella Giorgina si stirò sui floridi fianchi il vestitino di cotone leggero a fantasia floreale, acconciò il seno opulento nelle coppe del reggiseno, sollevando prima una tetta e poi l’altra, che adesso si affacciavano al sole dall’ampio décolleté come due teste glabre di neoati, e, menando sfacciatamente il sedere a destra e sinistra, prese a scendere la dozzina di scale che conducevano alla corte.
“Buongiorno, Vito”, cinguettò allegra non appena arrivò nei pressi dell’uomo.
“Buongiorno a te, Giorgina”, rispose il portiere asciugandosi la pelata imperlata di sudore con un fazzoletto di stoffa e ricambiando, con lieve e naturale imbarazzo, il sorriso della ragazza con una meno estetica ghigna sgangherata, che mostrò una dentatura guasta e macchiata di nicotina.
“Ti fanno spantecà ‘sti picciùni, eh”, disse ridendo.
“Eh, Giorgina bella, più correttamente mi fann ittà ‘o sang. Loro e chi sacc je”.
“Non ti avvelenare, Vito”, le fece eco comprensiva la ragazza, mentre trafficava nella borsa alla ricerca del cellulare che si palesava con Non dirgli mai di Gigi D’Alessio, a volume crescente via via che emergeva da sotto il contenuto che lo seppelliva. “Uè Gaia”, squillò e liquidò con un sorriso e un gesto della mano il portiere – al quale non era sfuggita una porzione di seno sbucata da sotto l’ascella nel momento in cui la bella Giorgina alzava il braccio per salutarlo – avviandosi verso l’uscita. Vito, come ipnotizzato, seguì l’oscillare del grosso culo che disegnava poetici ghirigori nell’aria immobile e afosa, fin quando svoltò l’angolo; si aggiustò il pacco di colpo gonfiatosi, quindi accese la cicca oramai spenta, poggiò la scopa al muro e prese la strada della guardiola. Si era fatta, tra una cosa e l’altra, ora di pranzo.

*
La sig.ra De Rosa irruppe in portineria senza bussare - o almeno Vito non avvertì nessun avviso di permesso prima di sobbalzare dalla sedia come punto da un ago, il che portò gli occhialini da lettura incassati sulla punta del naso gibbuto ad un volo arcuato con atterraggio di fortuna nella zuppa di fagioli, che ancora fumava calda sotto le sue fauci e che schizzò fiotti di sugo sulle pagine delle Undicimila verghe di Guillaume Apollinaire aperto a mo’ di paravento davanti al piatto, cancellando irreversibilmente parti della descrizione in cui il principe rumeno Vibescu, scambiato per Fiodor, un ufficiale del reggimento di Preobrajenski, infilava l’arnese nella fessa pelosa dell’amante di quest’ultimo, la bella Elena Verdier, con gran soddisfazione della donna, prima che si accorgesse, in virtù di una palpatina al sacco scrotale del nobile fottitore, che non si trattava del suo triorchide Fiodor ma di un impostore che aveva approfittato del buio e del suo dormiveglia.
“Porca zozza!”, imprecò il portiere spalmando ancor di più la salsa sulla pagina e creando un pastrocchio nel fallito tentativo di ripulirla, “ma chi cazzo è che...”, e qui s’interruppe nel voltarsi trovandosi dinanzi la figura statuaria della sig.ra De Rosa che con lo puntava con uno sguardo torvo e immobile, dritta in posizione gerarca, con entrambi i pugni saldati alle ossa iliache.
“Vengo subito al punto, Vito”, lo investì la donna senza scusarsi per l’incidente provocato e col tono sprezzante che un’aristocratica con la puzza sotto al naso può riservare ad un sottoposto. “Ho saputo che sono state installate alcune telecamere nell’autorimessa, con gran danno per la privacy dei condomini”. Il portiere non sembrava darle retta, occupato com’era a recuperare gli occhialini da presbite nella brodaglia, scuotendoli tra due dita per rimuoverne il sugo. L’indifferenza ostentata dall’uomo ne moltiplicò l’arroganza. “Mi hai sentito, Vito? Hai capito cosa le sto dicendo?”
“Perfettamente, sig.ra De Rosa”, rispose l’interrogato con voce pacata e accomodante. “Mi sta dicendo che nell’autorimessa sono state installate delle telecamere. Solo che la cosa...”, e si interruppe il tempo necessario per prendere una salvietta di carta e accingersi a strofinare le lenti, sussurrando qualcosa di incomprensibile a fior di labbra, “solo che, dicevo, la cosa non costituisce una violazione di privacy, come potrebbe ben spiegarle suo marito – che è avvocato e di queste cose se ne intende – in quanto la decisione è stata presa dall’assemblea dei condomini. Strano che lei non ne sia al corrente, signora. In più, se posso permettermi una considerazione a margine, la privacy viene garantita, e pertanto può essere violata e quindi essere oggetto di tutte le misure necessarie per reintegrarne l’inviolabilità, nelle camere da letto, poniamo, non certo in uno spazio condominiale”, e, soddisfatto della bordata buttata lì senza preavviso, come un colpo sotto la cintola, inforcò gli occhialini sulla punta del naso e squadrò soddisfatto la donna, preparandosi a gustare l’effetto sperato. E in effetti la sig.ra De Rosa impallidì repentinamente, pur mantenendo il controllo della postura militare. Dunque la bestia sa, concluse in un turbinio di pensieri, mi ha visto. Porcobastardo! Occorre reagire e risolvere subito la questione, sennò sono cazzi amari.
“Dunque sai bene di cosa sto parlando”, proseguì la donna con decisione, “e non c’è bisogno di spiegarsi oltre con giri di parole. Voglio che quella registrazione che mi riguarda venga immediatamente distrutta, Vito. Se dovesse finire nelle mani di mio marito... No no, è un’ipotesi che non va considerata nemmeno per assurdo”.
“Non ho il potere di fare ciò che mi sta chiedendo, sig.ra De Rosa”, ribatté Vito ostentando noncuranza e accendendosi una sigaretta. I rapporti di forza erano stati ribaltati e lui se la stava spassando davvero di gusto, adesso. Tirò un paio di boccate, sputando il fumo verso il soffitto, e aggiunse: “E poi, temo sia illegale. Molto illegale. Sinceramente non voglio avere casini e perdere il posto. Non se la prenda, niente di personale”.
“Non se la prenda?”, le fece il verso la donna, reagendo scompostamente, “Non se la prenda?!? Ma hai idea di che finimondo scoppierebbe se...”, s’interruppe scorgendo l’espressione divertita dell’uomo, che fissava sornione gli anelli di fumo alzarsi lenti e sfilacciarsi man mano che prendevano quota. Fece qualche passo verso di lui e gli si piantò ad una spanna dalle ginocchia pelose. “Troviamo un accordo, Vito”, disse seccamente.
L’improvvisa riduzione di spazio tra lui e quella donna maliarda come una dea, smontò la sicurezza di Vito riportando, con un gioco di prestigio, il manico del coltello in mano alla De Rosa. Imrovvisamente imbarazzato, stropicciò la cicca in un posacenere stracolmo, cogliendo l’occasione per distogliere lo sguardo da quello magnetico della De Rosa, così da trovare le parole per imbastire una risposta. “Ha la mia parola, signora”, bofonchiò alzando lo sguardo e fermandolo a metà strada, nell’infossatura dei seni ben visibile dallo scollo generoso della camicetta griffata, “Ha la mia parola che da questa bocca non uscirà una sola sillaba sulla vicenda”.
“La tua parola?”, rise sprezzante la donna, inclinando teatralmente la testa all’indietro. Poi, di colpo seria, aggiunse, affondando il colpo: “Il tuo curriculum mi è noto, caro professore in disgrazia. Sei un porco, un uomo volgare e gretto, laido direi, dedito alla crapula e ad ogni forma di vizio. Ti sei visto? Sei una discarica su due zampe, la tua parola vale quanto la sudicia canottiera che indossi”.
Vito si grattò la barba ispida sotto al mento, poi la nuca, quindi infilò l’indice in un orecchio e ciò che estrasse, davanti lo sguardo schifato della donna, lo polverizzò tra due dita. Tanto valeva stare al gioco, pensò, e comportarsi di conseguenza. In fin dei conti, la troia si poneva con l’arroganza propria del suo status, comportandosi come una femminetta viziata abituata a comandare ma, al di là della forma, la sostanza era che la soluzione al suo problema era lui. Non altri che lui, Vito Cammarota. Sarebbe stata una gran bella giornata, gongolò tra sé. Ci si potevano scommettere sopra le palle con tutto il cazzo. Guardò la donna con occhi immobili e torbidi, in contrasto col sorriso caricato di benevolenza che gli scolpiva la ghigna, e le disse, placido e accomodante: “Sebbene il pulpito dal quale sentenzia non è dei più appropriati, cara sign.ra De Rosa, considerata la sua posizione... ehm... non mi fraintenda, intendo il termine nel senso figurato”, non si trattenne dal precisare ridacchiando, “da parte mia non posso che rinnovarle la promessa di non profferire parola con alcuno circa la sua attività di libertinaggio extraconiugale. Non credo che ci sia altra scelta, da parte sua, che accogliere come data la mia promessa”.
Dura in volto, visibilmente scossa dalle parole del suo interlocutore, la donna ribatté: ”Voglio essere sicura. Se la cosa uscisse fuori, per me sarebbe una disgrazia dalle proporzioni titaniche. Non ne vado orgogliosa, ma ho bisogno di mio marito, dei suoi soldi e del suo status sociale, indispensabili per me. Mi distruggerebbe, su questo non ci sono dubbi, e non avrei altra scelta che lasciare Napoli e tornarmene a Fiera di Primiero con una mano avanti e l’altra dietro. Quindi, per quanto la sola idea mi dia il voltastomaco, voglio comprare non solo il tuo silenzio, ma, ripeto, la distruzione di quella videoregistrazione. Solo così mi tranquillizzerò”.
“Nonostante il ritratto che ha fatto di me - ritratto piuttosto aderente alla realtà, detto per inciso - non sono un uomo avido, sig.ra De Rosa. Il mio stipendio e le mance costanti dei rispettabili suoi coinquilini, mi sono più che bastevoli. Il suo denaro può investirlo dove meglio crede, facendone un uso, mi creda, più redditizio”.
“Non voglio darti dei soldi”, rispose la donna avvicinandosi fino a sentire il contatto con le ginocchia dell’uomo, “ma questa”, e tirò su la gonna, mostrando una fica dalle labbra glabre e col solo Monte di Venere ornato da un triangolo di pelo rossiccio.
Il cazzo di Vito, già semieretto per la sola vicinanza di quella donna, guizzò e si impennò, e quasi si avrebbe potuto sentirne il nitrito e lo scalpitio, se l’udito degli astanti avesse avuto queste possibilità. Tuttavia, nonostante i pantaloni deformati dall’erezione, l’uomo imbastì un comportamento da galantuomo, o comunque qualcosa che gli si avvicinasse, rassicurando la donna che non c’era bisogno, che non avrebbe tradito la parola data, se solo gli avesse dato credito e fiducia, e quanto alla distruzione della registrazione avrebbe fatto il possibile, un po’ se ne intendeva...
“Andiamo, diamoci un taglio, Vito”, tagliò corto la De Rosa. “Sei un uomo navigato, saprai certamente come fare e lo farai in tempi brevissimi. Da ora abbiamo un accordo, non resta che suggellarlo a dovere. Dunque, tiralo fuori e sbrighiamoci, ché ho altro e di meglio da fare”.
Vito Cammarota non si fece pregare oltre, tirò giù la zip e il cazzo fece capolino come una bestia affamata dalla tana. Con occhio esperto, la sig.ra De Rosa valutò scrupolosamente la consistenza di quel membro non eccessivamente lungo ma incredibilmente largo, solcato da vene spesse e gonfie e sormontato da una cappella violacea e grossa come una prugna matura. Si umettò rapidamente il labbro inferiore con un rapidissimo tocco di lingua, prima di stringerlo fra i denti. Poi, decisa, si genuflesse fra le cosce del portiere, afferrò il cazzo e, dopo averci sputato oscenamente sopra, fissandolo dritto negli occhi, cominciò a sbocchinarlo con la perizia tecnica di una professionista del settore. Vito stese le gambe, inarcò la schiena e grugnì al soffitto, tenendosi così forte ai braccioli della sedia che le nocche gli si sbiancarono. Un istante prima che le sbrodasse in bocca, la sig.ra De Rosa interruppe la sua suzione e, tenendo stretto l’arnese alla radice, si tirò su, si mise a cavalcioni dell’uomo e guidò la palpitante erezione nel suo anfratto mieloso. Quindi, tenendosi alla chioma spelacchiata di Vito, prese a muoversi come una serpe, schioccando violenti colpi di sedere contro il ventre del maschio, e non curandosi affatto di trattenere singulti e mugoli, sempre più cupi e forti man mano che il ritmo accelerava, diventando spasmodico. Per distrarsi, così da prolungare il più possibile quella chiavata con la lode, Vito rovistò nella camicetta della donna, si impadronì di una tetta soda da adolescente e prese a mordicchiarne il capezzolo duro. L’iniziativa fu molto gradita e la sign.ra De Rosa strinse con forza contro al petto la testa dell’uomo – che poté dire addio agli occhiali, irreversibilmente spezzatisi nel mezzo -, intensificando ancora di più la sua cavalcata. Era lì per venire quando, con insospettabili qualità muscolari, e a dispetto dell’artrosi, Vito si tirò su con uno scatto elastico e potente, abbrancò per le chiappe la donna, che subito gli cinse le reni con le gambe, e prese a fottersela prima all’in piedi, al centro dell’angusto gabbiotto, poi contro la porta, infilzando quel corpo trasudante lussuria dal basso verso l’alto, come pugnalandola con fendenti violenti, inferti con tutto il peso del corpo, che nel caso in questione era di un peso massimo, così che i cardini cedettero e i due planarono sulla branda, per fortuna posizionata nei pressi dell’uscio, e la caduta procurò la saldatura fra i due sessi, come se il cazzo dell’uomo si fosse piantato nella fica della donna, la quale strabuzzò gli occhi e spalancò la bocca, sfiatando un aaaaaaahhhhh così godereccio che a Vito gli si contrassero i coglioni e dovette mordersi a sangue un labbro per non schizzarle dentro.
“Fottimi, figliodiuncane”, lo aggredì la sig.ra De Rosa con gli occhi fiammeggianti e l’espressione truce, “fottimi e fammi godere”. Gli piantò gli artigli nei fianchi e, nello stesso momento, gli addentò il lobo dell’orecchio sinistro. Vito non gradì, le allungò un ceffone che la mandò ancora più in estasi e cominciò a chiavarsela col metaforico sangue negli occhi e una più che reale bava che gli pendeva dalle labbra e che colava ad ogni affondo sulla camicetta di sartoria della donna. Quando la sig.ra De Rosa venne con un urlo prolungato e rabbioso, Vito si tirò fuori - la cappella lucente e palpitante come un neon -, girò la donna sulla pancia e scoprì il gran culo bianco e sodo, divaricò le chiappe e sputò sul buchetto, prima di ghermirlo con un dito.
“Cazzo fai, bastardo?”, scattò la donna più allarmata che mai. Ma prontamente l’uomo le aveva afferrato il collo, schiacciandole la testa sul cuscino. Provò a dimenarsi, ma lo stronzo era grosso e forte e le gravava addosso stringedole le gambe fra le sue, mentre il dito le pompava il buco del culo con movimenti circolari sempre più ampi, per saggiarne l’elasticità.
“Volevi comprare il mio silenzio, questo è il prezzo”, sentenziò Vito passando bruscamente al tu. “Hai insistito, l’hai preteso, non ti sei fidata della mia parola... abbiamo fatto come volevi tu, quindi hai poco da lamentarti. Tanto più che per insabbiare la tua troiaggine mi toccherà anche finire nel penale. Poi magari mi difenderà tuo marito, che dici. Il rischio che corro è solo in parte risarcito dal tuo bel culetto, quindi poche storie...”, proseguì mentre si metteva in posizione spingendo la cappella contro l’elastico di carne ritornato imbronciato come il musetto di una bimba a cui è stato fatto un torto, una volta che ebbe tolto il dito. La donna morse il cuscino e mugolò forte, cercando di dimenarsi senza successo, poi fece buon gioco a cattiva sorte e, come avvertì la cappella appuntarsi al buco del culo e forzarne l’anello, si bloccò di colpo e, da donna navigata, cercò di rilassare quanto più possibile muscoli e nervi, preparandosi al passaggio di un transito extra-large che l’avrebbe lacerata, nella carne come nello spirito.
Ci vollero lacrime e sangue in abbondanza (e non certo come modo di dire), ma alla fine Vito fu tutto dentro e si comportò da gentleman, muovendosi in maniera impercettibile, spingendosi a fondo ma senza strafare nel pompaggio. La sig.ra De Rosa apprezzò la gentilezza - sapeva che le sarebbe potuta andare anche peggio - e si portò una mano fra le cosce per titillarsi il clitoride, giusto per stornare l’attenzione su qualcos’altro. Il trucchetto funzionò e sbrodò un istante prima di avvertire getti caldi innaffiarle abbondantemente gli intestini.
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