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Lui & Lei

Secrezioni: "Candidamente tua"


di renart
28.12.2016    |    1.182    |    0 8.7
"”, intervengo acido, accendendo una sigaretta..."
Il tramonto si spappola sui terrazzi incatramati, zeppi di antenne e panni stesi ad asciugare, schizzando ovunque il suo arancione acido e malato. L’umidità però rimane ancora ben oltre i livelli di guardia e fissa il calore sulla pelle, spalmandolo come melassa e facendolo evaporare in sudore ad ogni minimo movimento – sia anche il breve spazio da coprire per portarmi alla bocca la cicca, mentre dondolo pigramente sull’amaca fissata ai pali mangiucchiati dalla ruggine di una veranda sfacciatamente abusiva. Ingollo birra fredda in lattina, cullato ad occhi chiusi dai rumori della strada – grida di venditori di ogni genere alimentare, per lo più, esposto su bancarelle malferme prede di nugoli di mosche e zanzare, ma anche scatarrate di mezzi con la marmitta truccata, urla di ragazzini e delle loro madri, e dei padri-mariti-amanti davanti ai bar, assiepati intorno ai tavolini o in piedi alla porta a mandar giù arachidi e spritz. Sto quasi per addormentarmi, quando sento suonare il citofono. Uno due tre volte. Poi un’altra, un po’ più lunga. No, non mi alzo. Lei non può essere, perché è andata via da poco e poi ho visto che ha preso le chiavi da dietro la porta. Quindi, chiunque sia, ritenterà la prossima volta. Nemmeno il tempo di riprendere la trama del dormiveglia che bussano alla porta. Prima al campanello, poi con le mani. Insomma, tocca alzarmi.
“Ci sei, allora”, mi fa Linda con un pelo di ostilità, ansimando per i quattro piani di scale. “L’ascensore che la tenete a fare, è sempre guasta”, sacramenta ed entra. Ha entrambe le mani occupate. L’alleggerisco di una borsa termica giallo limone e di una sporta di verdure, mentre lei trotterella verso il tavolo della cucina depositandovi sopra una capiente sacca di tela. Indossa una gonna bianca semitrasparente - le si notano le mutandine verdi - e una camiciola azzurra, molto leggera, dalla cui scollatura, generosamente riempita dal seno abbronzato compresso nel push-up, pendono un paio di grosse lenti scure. I capelli freschi di colpi di sole sciolti sulle spalle e i piedi dalle unghie smaltate di azzurro, in pendant con l’ombretto, infilati in un paio di décolleté in sughero con un due dita di tacco, completano il quadro. “Bisogna metterle nella ghiacciaia quelle cose che stanno nella borsa termica. Passamele, altrimenti sono sicura che ci marciscono lì dentro. E poi comunque la borsa devo riportarmela, che mi serve”, dice prendendo vasetti e contenitori di plastica che le passo meccanicamente, senza nemmeno vederne il contenuto.
“Sei in partenza?”, le chiedo passandole l’ultimo vasetto contenente, credo, pesto.
“Sì, andiamo a Palinuro. Cercate di non farla perdere ‘sta roba, che è peccato. Fagliela fare subito la verdura, aValentina, c’è la verza, la bietola e i ceci sono già cotti, basta riscaldarli. A proposito, è uscita?”
“Sì sì. E lui dov’è?”, dico distratto.
“Mi sta aspettando giù, davanti al bar”, fa Linda, aprendo il frigo e riempiendolo di altra roba.
“M-mm”.
“Senza che fai quel verso. Voglio vedere quando vi decidete voi due ad avere un rapporto civile. Non che dobbiate diventare amiconi, ma almeno deporre l’ascia di guerra. Voglio dire, è pur sempre il mio compagno, e per Valentina è comunque una persona cara e un punto di riferimento. E poi, lui, proprio come me, vuole soltanto il vostro bene e ci soffre nel vedervi così... così campati in aria, e non riesce a starsi zitto. E non ha tutti i torti quando vi critica, magari sbaglia nei modi, ma...”.
“Ecco sì, magari nei modi...”, intervengo acido, accendendo una sigaretta.
“Ma nella sostanza ciò che dice è vero, siete così precari, vivete alla giornata senza un progetto. Insomma, Valentina ha il suo lavoro, per quanto incerto, ma tu... insomma, tu sei un caso paradossale, da studiare direi. Hai due lauree eppure rimedi lavoracci da quattro soldi, quando li trovi. Se solo avessi un minimo di ambizione e amor proprio, chissà dove arriveresti e quale futuro daresti a mia figlia e...”
“E???”
“E ai vostri figli!”, sbotta esasperata, “Che male c’è a tenerli a conto? È forse un delitto? Invece, non vi ponete proprio, né tu né lei, ad una vita regolare. Insieme siete due sbandati e...”
“Senti, basta!”, la interrompo piccato, “Di grillo parlante me ne basta uno, d’accordo? E comunque, se Massimo fosse salito con te, non l’avrei lasciato fuori alla porta. Ti va una birra?”, chiedo poi cambiando discorso e stappandone una. Lei mi fa segno di no con l’indice, visibilmente contrita, e si dirige verso la finestra. Si sporge fuori, fa un ampio gesto col braccio sollevato, come se cercasse l’attenzione di qualcuno, e chiama il suo Massimo – ma con un tono così debole che a stento lo sento io. Finisco la birra in due corpose sorsate, rutto poderosamente, spengo la cicca nella lattina e mi sfilo i bermuda che ho infilato prima di andare ad aprire la porta, gettandoli sul tavolo. Quindi mi avvicino alla finestra e le appoggio il pacco gonfio fra le chiappe. Ha sessant’anni suonati ma un corpo ancora tonico, temprato dallo sport e da un’alimentazione sanissima, senza sgarri di alcun tipo, nemmeno a Pasqua e a Natale le si vede masticare qualcosa che le possa far sbalzare un equilibrio proteico che sembra essere tarato per fare della sua silhouette un’arrizzacazzi deambulante. Tuttimodi, il contatto con l’erezione la irrigidisce, la mano le rimane aperta a mezz’aria, per indicare all’interlocutore 5 minuti, di aspettarla solo 5 minuti, come ripete sillabando a labbra mute, manco il tipo da sotto potesse leggerle il labiale, mentre le mie mani scivolano sotto la gonna carezzandole le cosce sode e calde dal basso verso l’alto, fino al culo massiccio e tosto, pezzo pregiato anche della figlia, ansimandole all’orecchio se il suo uomo si è accorto che le si vedono le mutande in controluce. Poi, educato, faccio capolino da dietro la sua spalla destra, schiacciandomi ancor di più contro il suo corpo, e sfoggiando il miglior sorriso di circostanza saluto con la mano Massimo Il Grande – l’uomo più saccente, arrogante e presuntuoso che abbia mai conosciuto -, che se ne sta appoggiato al cofano della sua auto, con un giornale sportivo tutto spiegazzato in una mano e un fazzoletto di stoffa, con cui si deterge l’ampia fronte, nell’altra. Nel frattempo, la mano non impegnata nell’ipocrita omaggio, non è rimasta inoperosa, ma ha tirato giù le mutandine e adesso un dito è scivolato nel solco sudato e ha raggiunto la valletta già abbondantemente lubrificata, ghermendo le labbra aperte e titillandole il clitoride. Linda reagisce chiudendo le gambe in una morsa che quasi mi procura una frattura e tirandosi indietro di scatto. Si volta e con occhi fiammeggianti e gote avvampate, dopo avermi dato del maiale e rimbrottato – come chiosa al discorso di cui sopra - sul fatto che se avessi avuto tanta ambizione quanto cazzo sarei stato certamente qualcuno, mi dice che non abbiamo molto tempo, ma che non può partire senza averne preso un po’, e mentre parla l’ha già tirato fuori dalle mutande, duro e arzillo come un bimbetto al luna park, e con una mano accarezza l’asta e con l’altra saggia la consistenza dei coglioni gonfi, prima di chinarsi quasi a 90 gradi e ingoiare la cappella tumida e violacea, iniziativa che mi fa sospirare e ansimare, sebbene non riesca ad evitare il pensiero che s’interroga su se la maliarda succhiatrice avverta il sapore degli uomori della figlia, nel qual caso non devono dispiacerle perché aspira con una voluttà e una forza ansiosa che sembra stiano facendo un repulisti generale dei miei succhi interni. Fortuna che dura poco e, prima che le sbrodi in bocca, si alza e mi dà le spalle, tirandosi sulla groppa la gonna e mostrandomi il culo da cavalla da monta che si ritrova, con il segno bianco del costume stampato su un’esigua porzione delle chiappe color cannella. La dicotomia cromatica m’infoia ancor di più e mi fiondo su di lei con la lancia il resta, puntata contro la potta palpitante che fa capolino da sotto le chiappe.
“Fermo!”, mi intima Linda perentoria, bloccando il cazzo ad un pelo dall’entrata, “Prendi l’altra strada”.
“U-uuuuh”, ululo divertito, “cos’è, stasera è la scadenza mensile? Il buon Massimo si concede?”
“Cretino. È che ho la candida, ci manca solo che la passi a Valentina”, spiega, poi, con sollecitazione: “Muoviti, che il tempo passa...”, e poggia la testa sul bracciolo della poltrona, per scaricare sulla fronte il peso della posizione una volta allargate le natiche con ambo le mani. Il buchetto, come un piccolo muso imbronciato, fa bella mostra di sé e sembra che mi stia invitando strizzandomi l’occhietto. Vorrei dedicarmici con più calma, ma in effetti i 5 minuti sono già trascorsi da parecchio, per cui appunto la cappella contro l’ano grinzoso e spingo. Gli sfinteri riconoscono la carne e vi aderiscono intorno a ventosa, quasi risucchiando il resto del transito che vi scorre dentro lento ma inesorabile, producendo una serie di mugolii da parte di Linda sempre più intensi e acuti. Una volta dentro, col mio ventre incollato alle sue chiappe, comincio a muovermi piano, con un’esasperata lentezza che finisce con lo snervare Linda e farle perdere di vista la notoria compostezza del suo vocabolario. Obiettivo raggiunto, dico tra me sorridendo allorché lei m’invita a chiavarla come si deve, che non è una ragazzina che lo vede per la prima volta, accidenti, e che vuole sentirlo nello stomaco, il mio cazzone, altrimenti cosa diavolo è venuta a fare, a portarmi la spesa? A quel punto non mi faccio pregare oltre, mi tiro un po’ fuori, come a prendere la rincorsa, e glielo spingo dentro con forza prendendo a farmela con furia, mentre con due dita della destra le pompo la fica e con quelle della sinistra le sgrilletto forte e veloce il clitoride, lungo e carnoso come un cazzillo. Urla in maniera inarticolata, adesso, roba incomprensibile che le gorgheggia in gola ed evapora in raschi voluttuosi, quasi inquietanti. Riesco a cogliere solo qualche oscenità diretta alla mia persona. Continuo a fottermela selvaggiamente, mordendomi il labbro per ricacciare l’orgasmo che sento montare nelle viscere. Friziono il suo clitoride forsennatamente, come un giocatore malato che gratta un gratta&vinci, fin quando, atteso, le mie dita ricevono uno spruzzo abbondantissimo di quello che lì per lì sembra piscio, ma che in realtà è uno squirt da dieci e lode. Linda crolla sulla seduta della poltrona, con la testa piegata contro il bracciolo, le palpebre tremolanti, la bocca deformata in un ghigno che può essere di dolore come di estasi. La tengo per le chiappe e continuo a fottermela a quel modo, nel culo, i cui sfinteri mi stringono il cazzo così forte che sembra mi stiano spompinando. È come se stessi chiavando una bambola, da come è disarticolata e inerme, come morta, e il pensiero mi fa eiaculare come non ho memoria e le inondo gli intestini di sbrodo rovente, prima di stramazzarle addosso sfinito, inerme a mia volta.
*
Il cellulare di Linda, lanciato a massimo volume in una sinfonia a me sconosciuta, ci strappa con forza dalla trance lisergica nella quale siamo sprofondati. “Oh cazzo”, sbotta Linda tirandosi su con la forza dei nervi e scrollandosi me di dosso come se fossi uno zainetto, “Massimo!”. Corre verso il tavolo, ravana nella borsa e recupera lo smartphone. La voce gracchiante di Massimo la sento da qua e mi viene da ridere per le scuse in cui si prostra Linda, adducendo un attacco di colite a giustificazione del ritardo.
“Scendo subito, tesoro. Metti pure in moto, che sono già lì”, e chiude la conversazione. Poi si fionda in bagno, lisciandosi gonna e camicia sgualcite e rifacendosi il trucco ad una velocità impensabile per uno dai modi bradipeschi come il sottoscritto.
“Veniteci a trovare presto a Palinuro”, mi fa sull’uscio e mi dà un bacio umido sulle labbra stringendomi in una mano la proboscide ancora sgocciolante, “E prendi questi”, aggiunge passandomi una banconota da 100, “per il viaggio”, precisa per spazzar via scuse di natura economica alla nostra puntata nel Cilento. Quindi si volta e scappa via, la borsetta assicurata alla spalla e la borsa termica infilata nel braccio sinistro. Seguo il suo culo imboccare le scale di buon passo, con la gonna che le svolazza dietro ad ogni saltello e il lampo verde delle mutande che si imprime per un’ultima volta sulla retina, prima che scompaia dalla mia vista.
*
Richiudo la porta e, ciondolante come un automa che abbisogna di una stretta agli arti inferiori, mi dirigo verso la doccia, sfilandomi durante il tragitto la t-shirt dei Motorhead zuppa di sudore.
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