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Montecalvario blues: "Gennaro Cusani"


di renart
08.09.2021    |    210    |    0 6.0
"Cercò di controllarsi, di pensare ad altro, ma il cazzo gli lievitava fra le gambe, costringendolo ad assumere innaturali e impacciate posizioni per..."
Gennaro Cusani non era certo quel che si è soliti definire un adone. Sul metro e settanta, tarchiato, collo taurino, una paio di occhietti da topo infossati in occhiaie profonde come zuppiere, una braciola al posto di una bocca un po’ troppo vicina al naso carnoso e infestato da punti neri grossi come moscerini, la natura si era ulteriormente accanita su di lui facendogli dono di una devastante acne che gli accendeva il viso di puntolini giallognoli pulsanti come neon nella notte, e che teneva ben distanti le ragazze, come se la scritta contenuta in quei neon facesse prefigurare il contagio di una vita disgraziata alla mercé dello sberleffo e dell’emarginazione sociale. E in effetti un emarginato, Gennaro Cusani, lo era – sebbene si trattasse di un’emarginazione volontaria, un ritrarsi consapevole dentro se stesso, in un mondo fatto di scuola e di silenzi chiuso in camera. Persino i suoi genitori si erano rassegnati ad averlo solo a tavola e, dopo lungo tempo di angosce per vederlo così fuori dalla vita, così diverso e lontano dai suoi coetanei, avevano riposto entrambi, il signore e la signora Cusani, una incondizionata fiducia nel futuro di quel figliolo sfortunato nelle fattezze ma così brillante negli studi, tanto da meritarsi l'epiteto di Leopardi – anzi, giacomo leopardi tutto attaccato - tra la scolaresca del Liceo classico Sannazaro e tra la ciurmaglia certo meno raffinata di ragazzini del suo quartiere.
Da parte sua, quello sconcecanome non dispiaceva affatto. Del resto, prima ancora che glielo affibbiassero, già per conto suo aveva istituito più di un’analogia con l’illustre recanatese, dall’oggettiva bruttezza del corpo all’amore per le lettere. Poi, la sua fantasia si era spinta oltre, fino ad un’identificazione che lo portava, nell’alcova protetta della sua immaginazione, a teorizzare possibili situazioni fonti ispiratrici dei canti del Poeta. E così immaginava Leopardi sul «verone del paterno ostello» che guardava Silvia intenta a filare, mentre la sua voce flautata intonava arie che riempivano le «quiete stanze» tutt’intorno, saturandole di febbrile elettricità, del tutto similmente a lui che, da dietro le tende della sua mansarda – tirata su abusivamente sul terrazzo patronale dalle mani esperte del signor Cusani, mosso dalla volontà di preservare l’intimità e lo studio di quel figliolo così promettente – cazzo stretto nel pugno, spiava la bella Giorgina, la ragazza che lavorava ad ore nell’appartamento di fronte cantando non certo il Metastasio, bensì una più in voga Maria Nazionale, mentre energicamente ci dava di straccio e di ramazza, e, anche se non c’erano viottoli e il mare non si vedeva da lì, la sua voce ugualmente emergeva sopra gli strilli nel vicolo e sulle sgasate assordanti dei mezzi truccati. E più spingeva in avanti la scopa, chinandosi col busto, dal quale ballonzolavano armonicamente le tette, e più la gonnella le risaliva svolazzante sulle cosce tornite e brune, che immediatamente riverberavano sulla retina di Gennaro, ghermendone la voglia già eccitata. Eh sì, per la miseria, che pur il divino Giacomo se lo sarà tirato un raspone mentre indovinava le fattezze di Silvia sotto le vesti austere! Una raspa con tutti i crismi del caso, immaginandola prona davanti alla sua erezione prepotente, tenuta su da un afflusso copioso di sangue blu, proprio come la vide tempo prima di ritorno da una delle sue passeggiate solitarie – fantasticava Gennaro - curvo sui suoi passi e libri sotto al braccio ad appesantirne ulteriormente l’andatura sbilenca, quando, attratto da un tramonto porporino che calava lungo il Monte Tabor come bava, investendo di luce arancia ogni cosa che incontrava al suo passaggio, si diresse verso la rimessa delle carrozze, nei pressi della stalla, da dove gli parve di udire strani suoni. E affacciatosi sull’uscio, la vide, la bella Silvia «dagli occhi ridenti e fuggitivi», sprizzare vita e gioia mentre, bocconi su una balla di fieno, le vesti accartocciate sulla groppa, le candide brache alle caviglie, offriva un culo florido e tondo come il plenilunio al factotum della residenza, un giovane gagliardo e forte, dalla pelle olivastra, un saraceno tutto nervi e muscoli e cazzo, che se la fotteva alla grande tenendola stretta per i fianchi larghi da puledra, elogiando ad ogni affondo la consistenza di quelle chiappe michelangiolesche e le inequivocabili virtù di una fica idrovora, che sembrava stesse facendogli un pompino, da tanto che era stretta e umida. E vuoi vedere che il Vate illustrissimo non si sia slacciato la patta con la mano libera ed estratta la mazza già pronta non se la sia lisciata per benino? Massì, massì che l’ha fatto, proprio come l’ha fatto lui, Gennaro Cusani alias giacomoleopardi, quando Ciruzzo il meccanico ha fatto irruzione nella casa di fronte, della quale la madre è proprietaria, s’è sfilato la salopette di jeans macchiata di grasso e s’è scopato Giorgina sul tavolo della cucina, a beneficio di tutti e tre. La stessa situazione, solo che Leopardi, quello vero, ci ha scritto A Silvia, lui, Gennaro Cusani, invece, ci ha perso su diverse diottrie. C’èst la vie!
La famiglia Cusani abitava nei Quartieri spagnoli, sulla salita del Montecalvario, luogo in cui ristagna la napoletanità più verace ma al contempo vi germina criminalità, prostituzione, camorra, un luogo saturo di vita in tutte le sue manifestazioni più violente e genuine, ma nel complesso poco proclive ad incoraggiare tra i suoi abitanti l’amore o soltanto l’interesse per i libri. Non si vuol fare di tutt’erba un fascio, ma la realtà scrutata da Gennaro, dall’alto della sua finestra, era pregna di volgarità, violenza, sporcizia. Contrariamente a quanto si possa immaginare, vista la discordanza della sua persona col quartiere, Gennaro amava quel posto, i vicoli stretti e bui, i palazzi scuri e decadenti uniti fraternamente da corde con panni stesi ad asciugare, il fracasso assordante dei motorini truccati, le urla di venditori di qualsiasi cosa, i movimenti furtivi degli spacciatori, le voci sguaiate delle matrone sedute fuori ai bassi, su sedie impagliate che sparivano sotto i loro grossi sederi. Era il suo popolo, e lui lo amava di un amore silenzioso, ma non per questo meno tenace. Per nulla al mondo si sarebbe allontanato dalle pareti ammuffite della sua mansarda, così non c’è da stupirsi se, in virtù del 100 e lode alla maturità classica e del primo premio vinto in ambedue le sezioni delle Olimpiadi di latino e greco – episodio unico e irripetibile nella storia della competizione - il neo-borsista Gennaro Cusani non era col tripudio nel cuore e nella pancia che si era preparato a partire per Roma, da sempre sede prescelta per la premiazione dei giovani cultori delle discipline classiche.
Se, dunque, delle qualità del suo cervello si erano presto accorti tutti i professori di ogni ordine e grado, ivi compresi i mammasantissimi giurati del più prestigioso concorso nazionale per giovani letterati, di un’altra proprietà di cui era – inconsapevolmente, per inciso – fornito se ne ignorava l’esistenza. Trattasi di una virtù meno apparente – come ebbe a dire il poeta -, ma che può tener testa ad un buon cervello, se utilizzata a dovere. Ma al momento della partenza, lì al binario 12 della Stazione Garibaldi, mentre abbracciava i suoi genitori commossi e prodighi di raccomandazioni – “mangia a mammà”, “statt accort ‘a gent a papà”, “telefona!”, quest’ultima esortazione in coro - col borsone a tracolla che rendeva più goffi i suoi movimenti naturalmente impacciati, Gennaro Cusani proprio non lo sapeva che fra le cosce, protetto dal vuoto d’aria di calzoni larghi a vita bassa – unica (e quanto mai pratica, nel suo caso) concessione alla moda in vigore tra i suoi coetanei – gli spendagliava, adagiato sui coglioni gonfi come un cefalopode al sole sugli scogli di Mergellina, un cazzo asinino, almeno di quattro dita superiore a quello di suo cugino Armando, delle cui fattezze prese visione su cameratesco invito dello stesso entusiasta interessato che gli sgranò sotto gli occhi una serie di foto sul cellulare che lo ritraevano in piedi davanti a Maddalena, inginocchiata fra le sue cosce e intenta a fargli una fellazio di discreta categoria, a giudicare dalle pupille che erano lì per schizzare dalle orbite e dall'espressione del giovane manzo, accartocciata sul vuoto aperto dalla bocca nella posa tipica del demente o di un paziente sulla poltrona del dentista. Più che i particolari dell’attrezzo in questione, da rapportare eventualmente al suo, a Gennaro rimasero impresse le enormi mammelle di Maddalena, grosse e bianchissime come forme di mozzarella di bufala sulle quali una mano scherzosa aveva posto due fragole mature. A quei dettagli, Gennaro dedicò diverse notti a venire, smanettandosi l’uccello con foga, salivando con occhio sgranato e mordendosi a sangue il labbro inferiore per ricacciare indietro i rantoli del piacere. Le sue esperienze sessuali finivano lì, ad un intenso e solitario rapporto con se stesso. Non c’era mai stato nessun contatto con una donna, nemmeno un bacio. Solo qualche settimana prima, in verità e per amor di cronaca, c’era stato qualcosa di più. Di molto di più, considerato l’esistente. Alla prova di greco, durante l’esame di Stato, Gaia Iannazzone, una ragazza molto carina che sedeva dietro di lui, approfittando di un attimo di distrazione del docente di vedetta, aveva attirato la sua attenzione con due rapidi tocchi sulla spalla – che Gennaro ha sentito a lungo bruciare sulla scapola, come un’ustione che non si vuole vada via – per esortarlo a passargli la versione – che, dopo un’ora, quando i più erano al secondo rigo, lui aveva già ricopiato in bella con la sua calligrafia ordinata e rotonda. Fraintendendo l’istante di titubanza del compagno – stupito (e profondamente turbato) che lei, per la prima volta in cinque anni, lo chiamasse, e nel chiamarlo lo toccasse! – con tono piccato gli sibilò che gliel’avrebbe pagato quel pezzo di carta, e, notando lo sguardo da pesce lesso che le rivolse da dietro il lieve ingobbamento della spalla sinistra, e scambiando per la seconda volta l’origine del suo stordimento per avidità di contrattazione, pensò bene di alzare la posta e, conficcando nello sguardo ittico del ragazzo l’incandescente sensualità del suo, bisbigliò che gli avrebbe dato in cambio le sue mutandine e qualche foto. Detto questo, senza aspettare risposta, chiese il permesso di andare in bagno, si alzò e si avviò verso l’uscita. Gennaro ne seguì l’incedere sicuro, quasi arrogante nel gettare a destra e sinistra il culo tondo e sodo, compresso in una gonna di jeans che lasciava scoperte il grosso delle cosce e delle gambe già abbronzate dal sole di Posillipo, ripercorse con sguardo lascivo e appiccicoso la morbida curva di quelle gambe, si soffermò sulla piega del poplite per riprendere fiato e ridiscese la linea sinuosa del polpaccio, fino alle caviglie, al tallone, ai piedi infilati in sandali bassi color cuoio, che esaltavano lo smalto argenteo delle unghie. Quando Gaia ritornò dal bagno, gli passò accanto e gli disse dove avrebbe potuto trovare una parte della mercede promessa, nello stesso posto lui avrebbe messo la traduzione, il resto dopo. Così disse: «il resto dopo». Gennaro Cusani lesse due volte il testo davanti a lui – non gli ci volle di più per memorizzarlo tutto, virgole e incisi compresi -, si prese qualche minuto in più per qualcosa di simile all’auto-training, al fine di gestire quell’incredibile ed improvviso avvampare di emozioni che gli urticava lo stomaco, poi alzò il braccio destro – movimento che gli rimandò una ventata di sudore saturo di feromone che lo stordì -, ricevette il permesso di uscire e ricalcò, con un’andatura da orso con la gotta, il tragitto percorso da Gaia poco prima.
Le indicazioni della ragazza, sebbene sussurrate di passaggio, erano state precise. Superata la cattedra con i due bidelli, voltato l’angolo, tra il distributore delle bibite e dei tramezzini e la porta della vice-presidenza, tra il muro scrostato e il vaso di un grosso ficus Benjamin, Gennaro Cusani trovò un involucro di carta igienica, che, con gesto insolitamente repentino per la sua flemma, si ficcò nelle tasche dei calzoni. Col cuore che gli pompava a ritmo forsennato, come un assolo di Lars Ulrich lanciato a razzo contro l’inferno, si chiuse nell’ultimo cesso in fondo, si sedette sulla tazza, con le spalle poggiate alle piastrelle ricoperte di graffiti osceni, numeri cellulari e scritte infamanti sulla dubbia discendenza dei professori e della moralità poco edificante di alcune studentesse, chiuse gli occhi e aspettò che il respiro e il lavoro di sistole e diastole si regolarizzasse, quindi recuperò il malloppo di carta e se lo tenne qualche secondo sui palmi delle mani uniti a mò di tazza, come se contenessero la più preziosa e misteriosa delle reliquie. Scartocciò il pacchetto con delicatezza, con una lentezza meditabonda e d’attesa speranzosa allo stesso tempo, come un giocatore di poker all’ultima mano che per riprendersi aspetta il suo punto, trizzianno le carte con un gioco di indici e pollici per scoprire solo l’angolo in alto a sinistra, il necessario per intuirne il seme. E alla fine eccolo lì il trofeo, adagiato morbidamente sulla carta come un ricciolo di cioccolata da guarnizione su un dolce. Un perizoma trasparente e tutto merletti, con una vezzosa nocchettina rossa sul davanti e sul retro un filo merlettato così sottile da somigliare molto ad un filo interdentale dopo un uso piuttosto energico. Se lo portò al naso e inspirò avidamente, come un tossico a rota che si ritrova inaspettatamente una boccetta di popper tra le mani. E del popper, semmai li avesse conosciuti, Gennaro avrebbe potuto dire di aver goduto gli effetti, dacché, subito dopo l’inalazione, fu percorso da una scarica elettrica che, devastando il percorso vellutato delle mucose nasali gli si piantò alla base della nuca, per poi ridiscendere in picchiata lungo la spina dorsale e conficcarsi al centro del coccige con un secco colpo di maglio, e da lì irradiare con un estuario di saette scintillanti la zona inguinale, per coagularsi finalmente in un’erezione portentosa che gli sformò i pantaloni trasformandoli nella stilizzazione dell’obelisco dell’Immacolata di Piazza del Gesù. Tenendosi il perizoma stretto al naso con la mano sinistra, come se dovesse sfuggire ad una fuga di gas, con la destra tirò giù scompostamente – e non senza difficoltà, visto il grosso ingombro da spoggettare - brache e mutande, si strinse forte il cazzo imbizzarrito nel pugno e prese a masturbarsi compulsivamente, con la saliva che gli colava dalle labbra e gli occhi spiritati da fuori, le ciondolanti palle da mulo che sbattevano di continuo contro l’orlo interno del water, le gambe stese e contratte. Contemporaneamente, e a velocità non meno frenetica, la sua immaginazione produceva una serie ininterrotta di fotogrammi monografici su singole porzioni anatomiche del corpo di Gaia, una collezione di reperti accumulati durante tutto il triennio – da quando cioè la fanciulla aveva dismesso l'ancor infantile pinguedine ed era fiorita, nel giro miracoloso di un'estate, in femmina vigorosa, opulenta di vita, sprizzante sesso da ogni singolo poretto della sua pelle ambrata e levigata come la superficie di un uovo – che si composero in quel momento, nella mente imperversata dalla libidine, in un collage a luci rosse con Gaia l’Amazzone – così l’aveva ribattezzata per via dei capelli corti, rasati sulla nuca, e il corpo statuario, prepotente nella carica erotica che le vibrava a fior di pelle – impegnata in tutte le acrobazie possibili sulla sua pertica palpitante. Vedeva il suo culo bruno – con un piccolo triangolo bianco appiccicato sull’osso sacro, in netto contrasto con il cannellato delle chiappe sode – alzarsi e abbassarsi sul cazzo duro, lasciandovi sul tronco la bava del suo umore, mentre la sua bocca accoglieva e succhiava capezzoli turgidi e dolci come i frutti dell’Eden. Sentiva la femmina godere, le sue esortazioni volgari a scoparla più forte, a sfondarla col suo cazzone – proprio così diceva Gaia con voce roca: «cazzone» - a riempirla di crema bollente. Venne tra le urla dell’Amazzone, che rimbalzava sul cazzo come posseduta da un demone, tenendosi forte ai suoi capelli e scuotendolo come una maracas, e spruzzò il suo seme spingendo avanti l’uccello come fosse una pompa. Quattro, cinque, sei, sette densi fiotti di sbrodo si schiantarono contro la porta, producendo un rintocco sordo e componendo, nel loro disperdersi in rivoli e rivoletti, una macchia decisamente estesa, che ricordava vagamente una performance astrattista o una di quelle chiazze di inchiostro che gli psichiatri nei film mettono sotto al naso della gente interrogandoli sul suo significato.
Stremato, Gennaro abbandonò le braccia lungo i lati della tazza, col perizoma che gli pendeva dalle dita come uno straccetto steso ad asciugare, aspettò che il cazzo gli si ammosciasse nella mano impiastricciata e che le gambe smettessero di tremare, quindi si alzò e si ricompose. Fu mentre riponeva il perizoma nella carta che vi notò impresso uno scritto a stampatello. Questo è l’anticipo, il resto te lo invio sul cellulare, se hai uno smartphone, o per e-mail. Lascia numero o indirizzo. E non farti troppe seghe, ché diventi pure cieco, porcellino. Chiaramente, pur non sfuggendogli la sfumatura semantica, Gennaro Cusani non diede affatto peso alla sgradevolezza dell’avverbio contenuto nella chiosa – che con assoluta evidenza alludeva ad un ulteriore aggravio a debito di un corpo già sufficientemente disgraziato di suo – ma si coccolò più volte sulla punta delle labbra, stuzzicandolo con la lingua come fosse la scaglia di una giuggiola, l’epiteto che gli era stato attribuito, rimettendo in tal modo in circolo nel sangue le molecole della sua voglia, che lo avrebbero condotto inesorabilmente ad una seconda smanettata se non si fosse già fatta ora di rientrare in classe. Staccò dei fogli di carta igienica, recuperò la biro dal taschino della camicia, si risedette e scrisse la traduzione, avendo l’accortezza di parafrasare un paio di punti e di sostituire qua e là qualche parola con un suo sinonimo. In calce pose sia il numero di cellulare sia l’indirizzo e-mail, e uscì dal bagno. Si lavò le mani, ripose la preziosa carta dietro al ficus Benjamin e fece ritorno in classe. Fino alla consegna – avvenuta appena consentito dal regolamento, con largo anticipo rispetto a tutti i maturandi del Sannazaro – non fece altro che pensare a Gaia, a un metro dietro la sua schiena, con le cosce appena dischiuse e senza le mutandine. Cercò di controllarsi, di pensare ad altro, ma il cazzo gli lievitava fra le gambe, costringendolo ad assumere innaturali e impacciate posizioni per camuffare quell’imbarazzante rigonfiamento. Una volta a casa, nella sua mansarda diede ripetutamente sfogo alla turpe voglia che gli inquinava i processi sinaptici, masturbandosi con foia animale ma con metodo, dedicando una raspa ad ogni accoppiamento con Gaia realisticamente montato seguendo il filo coerente di una trama, senza sovrapposizioni di immagini che interrompessero astrusamente il tessuto narrativo del suo personalissimo film. Aveva perso il conto delle eiaculazioni – ma, volendo, avrebbe potuto averne un’idea approssimativa considerando i quattro pacchetti di kleenex adoperati – per cui non è possibile risalire al numero dell’episodio della serie Le avventure erotiche di Gaia l’Amazzone – precisamente nel momento in cui la giovane donna, schiacciata contro un muro, veniva impalata dal cazzo di Gennaro, tenendogli le gambe ben allacciate alle reni e rantolando una spirale ininterrotta di ah-ah-aaah – allorché la proiezione fu interrotta da un prolungato e reiterato vibrare dello smartphone. Gennaro sbirciò sul display, schiacciò sulla bustina del messaggio e apparvero cinque mms d’aprire. Erano cinque foto di Gaia. Nessun messaggio scritto, ma solo la sequenza del suo corpo nudo in pose da protocollo hard. Le studiò a fondo, con piglio investigativo, e si consumò di seghe per i giorni a venire.
Quello con Gaia, dunque, era stato il rapporto più intimo che Gennaro Cusani avesse avuto con una donna fin quando non poggiò il piede sul predellino dell'IC per Roma e la porta scorrevole gli chiuse Napoli dietro le spalle.


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