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Nera come la frustra


di Blacknoble
03.12.2021    |    8.199    |    4 9.4
"Quella sfera che consideravo la parte più magica della vita..."
“Ehi puttana, quanto vuoi?”.
Ci ero abituata, ho sentito anche di peggio.
Ho la pelle nera. In un paese come l’Italia, per tanti, troppi, sta ancora a significare che non sono altro che una prostituta.
Sin da adolescente ero bella, desiderata... ma le altre ragazze, forse gelose delle attenzioni che ricevevo, non facevano altro che fare battute sarcastiche e lanciare frecciatine per il colore della mia pelle. Si offendeva la mia origine per ferirmi perché non avevano altri appigli; andavo bene a scuola, eccellevo nello sport ed ero sempre di un’ottima disposizione d’animo. Ho ereditato, nonostante sia nata qui, la gioia di vivere innata degli africani. E quindi vivevo in bilico tra il voler dare ed il non ricevere abbastanza.
Soffrivo molto per quelle offese gratuite e forse, inconsciamente, me la prendevo con gli altri africani. Biasimavo le loro condizioni di vita, poiché venivo accomunata a loro. Non pensavo, o non volevo pensare, alle loro rinunce, al loro coraggio, alla loro tenacia, agli enormi sacrifici che compivano nel lasciare le loro terre alla ricerca di una vita migliore. Fu un periodo particolare e delicato per me; da una parte desiderata perché considerata bella, dall’altra, odiata perché nera. Solo più tardi avrei compreso che, anche se fossi stata bianca, una ragione per odiarmi qualcuno l’avrebbe sempre trovata. Anche se fossi stato l’essere più perfetto sulla faccia di questo pianeta. Ma chi per ideologia sceglie il razzismo nn accetta se stesso. È privo di consapevolezza di sé e non trova altro modo che denigrare per contare.
Camminavo per Trastevere. Ormai ero adulta, avevo trent’anni, ma il copione si ripeteva uguale. Pur avendoci dovuto fare il callo, certe frasi riuscivano sempre a graffiarmi graffiarmi l’anima, a farmi male al cuore.
Non risposi, ero da sola, non potevo rischiare di scatenare una reazione. Non avevo nemmeno idea se l’uomo che mi aveva urlato contro fosse lucido, non avevo guardato nella sua direzione, fingendo di essere concentrata sulla strada. Fortunatamente si arrese subito ed io continuai a camminare. Andavo ad un appuntamento con un uomo conosciuto su Tinder.
Sì, l’app di incontri. Non era la prima volta. A dire il vero ero presente su molti altri siti, specialmente a tema Bdsm.
Ero cresciuta indipendente, col peso del mio colore, ma la fortuna della mia bellezza. Un enorme contrasto. Da una parte gli insulti, dall’altra le lusinghe. Quell’equilibrio così estremo nel quale vivevo, mi aveva avvicinata ad un’infinità di situazioni. Per prima cosa aveva contribuito a forgiare il mio carattere, rendendomi una donna decisa ed autonoma, con una vita sessuale piuttosto varia e movimentata. mi aveva spinto verso il mondo del sesso. Nel sesso, del resto, si riflette il mondo di fuori; a volte magico, a volte orrendo.
Dopo una relazione durata due anni, mi lasciai alle spalle illusioni e valori di famiglia per concentrarmi su di me e la mia vita. Ero un avvocato, già socio dello studio dove lavoravo. Seppure il mio aspetto fisico avesse creato in un primo momento non poche diffidenze tra colleghi e colleghe, ero molto apprezzata per la mia prontezza intellettuale e la mia dedizione al lavoro.
In parte, era quello a cui avevo sempre aspirato; essere al centro dell’attenzione per il mio cervello piuttosto che per il mio corpo. In quanto al corpo poi, decidevo quando metterlo in primo piano, e quando nasconderlo.
Camminavo col capotto interamente chiuso. Sotto indossavo solo l’intimo di pelle che mi avvolgeva strettamente, dandomi a volte un po’ di noie.
L’uomo dal quale stavo andando era un deputato. Non proprio giovane. Un uomo importante che si era affrancato dalla miseria facendo fortuna in politica in una Calabria povera e speranzosa.
Non lo conoscevo ancora. Dopo un mese di chiacchierate in chat, avevamo deciso di incontrarci. I nostri gusti erano complementari, entrambi volevamo, più o meno, le stesse cose.
Non avevo paura, anzi... ero eccitata.
L’incontro al buio non mi metteva alcuna soggezione. E poi, tanto al buio non era. Dalle conversazioni e dalle foto, era come se ci conoscessimo già. Avevo visto il suo corpo, tutto. Un corpo atletico, ma che cominciava a mostrare i segni dell’età. Conoscevo anche parte della sua vita. Gli uomini, in questo, sono un po’ tutti uguali; appena trovano un orecchio attento, si raccontano, cercando di toccare quelle corde dell’anima che portano al cuore. Io ascoltavo, mi piaceva, quando avevo tempo. Sapevo molto di lui, addirittura, le dimensioni del suo pene. Mi aveva mandato delle foto molto intime. Sorrisi al pensiero ed accelerai il passo.
Non ebbi bisogno di bussare. La porta si sbloccò con un click metallico appena vi arrivai di fronte. La spinsi ed entrai.
L’appartamento era un duplex lussuosissimo. Un open space minimalista con due quadri appesi ai muri. Uno rappresentava una donna sensuale che lasciava andare un palloncino verso il cielo con la testa alzata a seguirlo; l’altro, una bolgia di colori messi insieme di cui non capii il senso. Tuttavia, dava calore all’ambiente. Un giradischi vicino ad un falso camino, suonava un disco di Mina che riempiva la stanza con la sua voce vibrante. Lui non c’era.
Rimasi in piedi per un paio di minuti, poi decisi di sedermi.
Sul tavolo c’era una bottiglia di Veuve Clicquot, due bicchieri ed un piccolo vassoio con della polvere bianca insieme ad un biglietto di grossa taglia arrotolato. Mi versai da bere e mi accesi una sigaretta, benché non ci fossero posaceneri e la casa odorasse di pulito. Buttai il mozzicone nel falso camino, e cominciai a spazientirmi.
Paolo scese le scale senza rumore. Più che vederlo, lo avvertii.
Era completamente nudo. Il pene racchiuso in una specie di piccola armatura tubolare che lo comprimeva e due reti metalliche conformate che accoglievano le palle. Il tutto chiuso da un lucchetto. Portava un collare al quale aveva già agganciato una lunga catena.
“Mi perdoni padrona…”. Furono le sue prime parole.
Accavallai le gambe. Avevo aperto i bottoni del capotto. Lui si incantò a guardare le mie cosce nere, fece per sedersi accanto a me.
Senza parlare, gli indicai il suolo o, meglio, il tappeto. Si sedette senza protestare e mi chiese se poteva mettersi al mio servizio.
Annuii e mi accesi un’altra sigaretta.
Nel frattempo lui stappò la bottiglia di champagne e lo versò generosamente.
Quando si avvicinò per darmi la flûte, allungai il braccio e presi la catena che gli penzolava dal collo. Risalii sino all’inizio e incastrai la sommità del guinzaglio sotto al tacco. Usai il suo bicchiere come posacenere, mentre lui aveva testa china tra le mie gambe e il bicchiere teso verso di me in un atteggiamento remissivo e docile.
“Grazie padrona”, disse.
Il potere, la dominazione. Chi ha potere domina o, chi domina, ha potere. Un riflesso dei nostri istinti,accettato implicitamente nella società, ma ipocritamente negato nel sesso. Quella sfera che consideravo la parte più magica della vita... speciale, necessaria.
Paolo bevve il suo bicchiere d’un fiato. Cenere compresa. Io, invece, lo sorseggiavo e lo guardavo. Lui non mi guardava mai negli occhi. Mi chiese se potesse sniffare un po’ di cocaina. Gli diedii il permesso. Subito dopo tornò ad accucciarsi ai miei piedi in attesa di ricevere i miei ordini e soddisfare i miei desideri. Presi il guinzaglio, lo arrotolai fino a creare tensione nella direzione in cui volevo che strisciasse. Quando fu nel punto che desideravo, lo feci mettere carponi e gli piantai un tacco nell’incavo della schiena.
Ero bagnata. Cosi bagnata che colavo sul capotto. Mi pulsava la figa. Lo stacco della mia gamba nera sulla pelle di Paolo. Una sensazione di potenza assoluta su un uomo che era potente. Solo il senso di dominazione mi faceva godere. Amavo quei momenti in cui un essere si affidava a me, alla mia luce, ma anche alla mia oscurità. È come se l’anima si piega al tuo spirito e ti consegna il corpo che lo ripara. È espiazione di colpe nel piacere. Tutti sono colpevoli, tutti devono espiare. Chiunque sia, qualunque potere abbia.
Spinsi il tacco nella pelle di Paolo che ebbe un gemito. Poi mi tolsi la scarpa e gli infilai le dita dei piedi in bocca, mentre mi versavo ancora da bere.
La sensazione della sua bocca calda che avvolgeva il mio piede era sublime. La sua lingua rosa, disegnava il contorno della mia pianta, del mio tallone, delle mie dita, provocandomi brividi e contrazioni nella mia figa, facendomi sussultare.
Paolo era in estasi. Le sue pupille, dilatate dalla droga, guardavano in un punto indefinito, mentre la sua bocca, instancabile, baciava senza sosta il mio piede. La luce, non disegnava le nostre ombre, mostrava noi. II nero e il bianco.
Lasciai che Paolo mi baciasse anche l’altro piede. A lungo. Bevvi ancora e accesi l’ennesima sigaretta che fumai ciccando sulla sua schiena. Guardai il suo pene costretto in quella gabbietta. Era gonfio e viola, così stretto che si capiva che doleva. La mia eccitazione crebbe, mi misi due dita sul clitoride e cominciai a masturbarmi, il piede nella sua bocca, le mie dita nella vagina.
Dopo, lasciai che Paolo, con la stessa diligenza, mi ripulisse la figa e il cappotto con la lingua. Poi mi alzai, presi il guinzaglio girandomi appositamente per fargli vedere il mio culo nero alto e sodo. Avevo rimesso i tacchi e le cinghie di pelle nera che mi conferivano un’aria perfidamente perversa.
“Dov’è la stanza?”, gli chiesi.
Mi indicò la scala. Sorrisi quando la vidi. Paolo, nelle nostre conversazioni, mi aveva accennato che aveva una stanza dei giochi. Ma i maschi quasi sempre sono esagerati e non davo molto credito a ciò che dicevano in generale perché, puntualmente, la realtà si rivelava molto al di sotto delle aspettative suscitate. Almeno di solito, ma Paolo diceva il vero.
Eccetto il muro dove si trovava la porta, le tre altre pareti erano ricoperte interamente di specchi. Al centro della stanza campeggiava una gogna. Sulla sinistra era sospesa una croce, sulla destra, fissate al muro, pendevano alcune catene con manette alle estremità, in fondo una sex-machine e, in bella mostra su un raffinato mobile antico, vi erano numerosi tipi di fruste, tra cui una snake e un gatto a nove code. Continuando a guardarmi intorno, notai gli oggetti più astrusi, persino per me che non ero certo una novizia. Strumenti di tortura e di umiliazione assolutamente originali.
Paolo sembrava compiaciuto della mia reazione. Carponi, mi osservava godendo delle mie reazioni.
“Cazzo...” mi venne naturale esclamare.
Dopo aver lasciato che Paolo andasse a prendere un’altra bottiglia di champagne, cominciai ad esplorare minuziosamente la stanza.
In una cassettiera erano riposti una miriade di strap-on, di vibratori di varie dimensioni, tra cui uno persino più grosso del mio braccio. E, ancora, vi erano gel lubrificanti di varie marche e dai gusti più esotici, stringicazzi come quello che indossava e altre cose di cui non potevo nemmeno immaginare l’uso. Paolo tornò mentre stavo ancora guardando e si sedette in un angolo ad aspettarmi docilmente.
Sentivo le mie gambe inumidirsi. La mia figa stava colava senza sosta. Mi girai e mi guardai allo specchio. Tutta nera, le cosce luccicanti di umori e lì, in quell’angolo raggomitolato, Paolo.
Gli legai i polsi alle manette che pendevano dalle catene e scelsi una frustra. Con quella accarezzai prima a lungo il suo sedere, poi alzai il braccio e gli assestai la prima frustata sulle natiche. Lo stesso brivido ci percorse assieme.
Mentre i segni rossi si facevano sempre più evidenti, decisi di smettere. Quell’adrenalina si trasmetteva dal braccio al cervello e la tensione erotica era così forte da diventare a malapena sostenibile. A quel punto scelsi un strap-on enorme.
Con l’aiuto di un gel, riuscii agevolmente ad entrare fino a buon punto nel suo sfintere. Mi muovevo piano per percepire le contrazioni dei suoi spazi intimi che facevo miei. Cominciai a spingere, godendomi il pene enorme che gli entrava dentro. Le mie cosce oramai erano così bagnate che i lacci di cuoio erano inzuppati. Il senso di dominio è una cosa strana, pare nasca dalla frustrazione e io ne avevo tanta da sfogare. In quanto donna e in quanto nera, una somma di cose che mi faceva vivere parecchie vessazioni che spesso finivano per sfociare in un cumulo di rabbia incontenibile, rabbia che si faceva fatica a tenere dentro. Nella sfera sessuale, ovviamente con individui consenzienti, potevo dare libero sfogo al mio bisogno di possedere, di dominare, di calpestare. Così come la società faceva con me. Forse con tutti.
Paolo urlava a squarciagola mentre lo stavo scopando selvaggiamente. Mi fermai esausta dopo un intenso orgasmo.
Slegai Paolo che subito si accasciò a terra, mi accesi una sigaretta sedendo su una specie di poltrona senza braccioli in un angolo della stanza.
Lo chiamai e gli ordinai di pulirmi con la lingua le cosce e la figa. Aspiravo con voluttà il fumo mentre le sue accurate leccate mi riportavano ad un alto livello di eccitazione.
Mentre Paolo mi leccava, il mio sguardo cadde sulla sex machine, era fissata ad un lato del muro. La lingua rosa di Paolo contrastava con il mio clitoride rosso. Mi alzai e mi diressi verso la macchina. C’era un pulsante con tre velocità, infilai un preservato sul dildo e lo cosparsi di gel, poi la accesi.
Mi girai, e prendendo il cazzo finto in mano, me lo infilai. Era un ritmo piuttosto sostenuto e regolare. Ed in più, vibrava intensamente, il che aggiungeva piacere al piacere. Il fallo di gomma morbida era largo e lungo, mi riempiva tutta.
Ero al settimo cielo, spingevo il mio culo nero contro il pene meccanico più a fondo possibile. Il preservativo era impiastricciato del mio piacere che non era ancora arrivato al parossismo. Spinsi ancora di più, quasi a farmi male, portai le dita al clitoride, mentre con l’altra mano mi strizzavo forte un capezzolo.
Venni urlando come una matta. Rimasi impalata alla macchina per lunghi minuti continuando ad avere spasmi ininterrotti e lunghissimi.
Quando mi riebbi, mi sedetti di nuovo sulla poltrona con un altro bicchiere di champagne. Guardavo tra le gambe di Paolo; erano striate di sperma. Era venuto più e più volte ed era visibilmente soddisfatto. Entrambi andammo a ricomporci e a lavarci in due differenti stanze da bagno. Io andai nel bagno degli ospiti. Quando tornai nella camera dei giochi, Paolo era un altro uomo; avvolto in una vestaglia elegante, la schiena e il collo diritti, lo sguardo fiero e deciso. Tornammo giù.
“Mariam Giusto?”, mi chiese mentre si accendeva un sigaro dopo essersi versato un cognac.
Ci vedemmo per tutto il tempo del suo mandato a Roma. Poi, non so per quale incarico di preciso, venne chiamato a Bruxelles e la nostra storia finì.
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