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Gay & Bisex

Ritorno al noccioleto - Parte 2


di LuogoCaldo
02.12.2021    |    9.523    |    3 9.5
"“Come va in città? Sei sparito..."
Alle cinque del mattino ero pronto davanti al portone.
L’auto di zio Gaetano arrivò puntuale e la prima cosa che notai è che era solo.
“Dov’è la zia?” chiesi.
“Non sta bene. Probabilmente non verrà per tutta la settimana. Ma non hai freddo con quelle gambe di fuori?”
La sua mano ruvida afferrò l’interno coscia e vi rimase per dei secondi che a me parvero un’eternità. “Sei gelido, è troppo presto per vestirti così”.
“Tra poco farà caldo” risposi. Il cuore mi batteva fortissimo. Era un anno che aspettavo che quella mano si posasse tra le mie gambe.
“Come va in città? Sei sparito.”
“Ho avuto molto da fare. Sai, lo studio, l’università …” cercai di ricompormi.
“Studi troppo, dovresti uscire di più, frequentare qualcuno …”. “Ma lo faccio” risposi.
“Ah si, e chi frequenti?” mi fissò incuriosito. “Molta più gente di quella che immagini” dissi laconico.
“Ah, ti sei fatto pure i segreti. Scendi va, cammina che oggi ti faccio lavorare”.

Il noccioleto era rimasto esattamente come lo ricordavo.
Le file ordinate di alberi, il capanno, il trattore parcheggiato accanto al cancello d’ingresso.
Era come se il tempo si fosse fermato all’estate scorsa.
Zia Marzia, però, non c’era.
Sapevo che quella circostanza non avrebbe rappresentato, per me, un vantaggio.
Zio Gaetano era irrimediabilmente eterosessuale.
Il corpo della sua donna lo trasformava nel demonio che da mesi agitava il mio sonno.
La disperazione con cui lo avevo visto abbattersi dentro la fica di lei dimostrava che, per la sua soddisfazione, quell’orifizio non era sostituibile.
Eppure, in cuor mio, speravo che quel maschio, per qualche ragione, potesse prima o poi guardarmi con gli occhi famelici con cui mi guardavano gli uomini della città e che, in un momento di rivelazione, potesse accorgersi che i calzoni che stavo indossando quella mattina erano gli stessi attraverso i quali il suo respiro era strisciato tra le mie gambe un anno fa, trasformandomi per sempre.

“Buongiorno don Gaetano” una voce maschile interruppe le mie riflessioni.
Un ragazzo alto sbucò da dietro il capanno, avvicinandosi lentamente verso di noi.
Notai subito la corporatura imponente e le cosce grosse fasciate dal tessuto aderente dei jeans.
Il pacco gigantesco era volutamente ostentato.
Non capii subito il pericolo che stavo correndo. Poi, all’improvviso, trasecolai.
Il viso olivastro che già conoscevo mi fissava spavaldo e, su quello, un ghigno divertito incorniciava una fila di denti bianchissimi.
“Lui è Alfonso” disse distrattamente lo zio “Quest’anno ci darà una mano a raccogliere le nocciole”.
Mi sentii letteralmente mancare la terra sotto i piedi.
Alfonso era uno dei miei compagni del liceo.
Il ragazzo che molte volte mi aveva schernito, gettato in terra ed irriso davanti a tutta la classe era ora dinanzi a me, nel luogo in cui, per anni, ero venuto a nascondermi da lui.
“Ciao Paolo”. Mi disse mellifluo. “Non sei cambiato affatto”.
“Ciao …”. Risposi freddamente.
Zio Gaetano era visibilmente incuriosito. “Tutto bene ragazzi?”
“Si tutto bene” risposi seccamente “Mettiamoci a lavorare che si è fatto tardi”.

Lo sforzo fisico mi aiutò a mantenere lucidità.
Quella mattina, mentre lavoravo, rimuginai a lungo sul passato, interrogandomi sulle ragioni avevano indotto Alfonso a sfogare la sua rabbia su di me e su quelle che avevano indotto ME a subire i suoi assalti senza reagire.
Fu un esercizio utile e alla fine giunsi alla conclusione che, con molta probabilità, entrambi avevamo recitato una parte, fingendo di essere qualcuno che, in realtà, non eravamo.
Il ruolo della vittima e del carnefice conveniva ad entrambi. Proteggeva entrambi.
Così, mentre prendevo consapevolezza della mia stessa storia, l’attività al noccioleto si trasformò in una operazione meccanica e, dentro di me, mi ritrovai a scuola, a rivivere l’esperienza che, per tanto tempo, mi aveva turbato.

Alfonso mi strattonava con forza lungo il corridoio, facendomi cadere ad ogni piè sospinto.
Mi spingeva verso i servizi, mentre il resto della classe guardava divertita.
“Ti piace il cazzo, frocio? Dì la verità che ti piace, checca. Dillo!” continuava a ripetere.
Quando varcammo l’uscio del bagno quell’animale chiuse la porta dietro di sé e, con rabbia immotivata, mi tirò per i capelli e mi appiattì la guancia contro il muro, premendo il gomito sulla mia faccia per immobilizzarmi.
“Devi dire che ti piace il cazzo, troia. Devi dirlo.” Continuava ad urlare, assestando forti ginocchiate alle mie gambe.
Ero paralizzato. Non riuscivo a proferire parola. Non riuscivo a reagire.
D’un tratto, mentre il suo respiro si faceva pesante, le ginocchia si fermarono.
Sentii le cosce di Alfonso sbattere contro le mie, il suo ventre pieno aderire completamente alla mia schiena.
Non capivo cosa stesse accadendo.
La violenza aveva assunto una forma nuova. Una forma che stavo cominciando a gradire.
Il corpo imponente di quel maschio si abbatteva contro il mio e il suo bacino strusciava freneticamente sulle mie natiche, dal basso verso l’alto.
Il cazzo enorme, fino a quel momento costretto dentro le mutande, riuscì a liberarsi e con prepotenza puntò il mio buco del culo, ostacolato solo dal tessuto della tuta.
Lo sentivo premere imperioso e, nel mio intimo, desideravo ardentemente che riuscisse a perforare la stoffa sottile che ci separava e che si piantasse nelle mie viscere.
Mi sentivo quasi soffocare quando, d’un tratto, quel toro distolse il gomito dal mio volto e, con una sola mano, da dietro, mi afferrò per la gola.
I colpi si fecero via via più decisi e il fiato divenne progressivamente più corto, fino a quando non sentii le sue labbra avvicinarsi al mio orecchio e sussurrare dentro di me, con tono sempre più rotto, “puttana, sei una puttana …. put - ta – naaa”.
Lui rimase lì, immobile in quella posizione, per alcuni secondi. “Se lo dici a qualcuno ti ammazzo” disse sottovoce. E se ne andò.

Ricordo che piansi a lungo dentro quel bagno, ma non era quello che Alfonso aveva lasciato sulla mia tuta a farmi sentire sporco.
Attribuivo il mio malessere alla violenza subita, all’umiliazione e non riuscivo ad essere sincero con me stesso.
In verità non avevo provato alcuna umiliazione e non avevo percepito alcuna violenza.
La furia di quel maschio mi era piaciuta, la sua potenza sessuale mi aveva turbato e QUESTO, allora, mi faceva sentire in colpa.

Quella sera, quando zio Gaetano mi riportò a casa, lo stupore che avevo provato durante il lavoro cedette il posto a un sentimento nuovo.
Sotto la doccia, mentre l’acqua scrosciava rumorosamente, appoggiai la guancia contro la parete di vetro della cabina e sentii nuovamente il gomito di Alfonso premere sul mio volto.
Questa volta non c’era paura ma solo consapevolezza.
Quel ragazzo gigantesco stava scaricando il suo desiderio dentro di me e nessun tessuto arginava la furia del suo cazzo affamato.
Mi godetti tutto il suo peso, l’ingombro delle sue cosce muscolose, il pelo duro che graffiava le mie gambe lisce e il palo d’acciaio che riusciva finalmente a farsi strada tra le natiche aperte.
Le sue urla non erano offese ma espressioni d’incitamento che nutrivano il mio bisogno di piacere e la mia reazione si esprimeva libera, senza riserve “Fottimi, Alfonso, fottimi più forte che puoi. Ho bisogno di sentire la tua minchia dentro di me”.
La mia erezione si fece potente e finalmente, dopo anni di menzogne, la verità esplose copiosa contro muro di plexiglass e quello che per tanto tempo era stato il mio carnefice divenne il primo oggetto del mio desiderio.

Non vedevo l’ora di far ritorno, il giorno seguente, al noccioleto, dove gli uomini che così profondamente avevano segnato la mia personalità avrebbero potuto vedere quello che, anche grazie a loro, ero infine diventato.

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