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Gay & Bisex

001 LA BELLA ESTATE - [ HUNGARIAN RAPSODY ]


di CUMCONTROL
01.06.2019    |    8.978    |    12 6.2
"Me lo disse sussurrando, quasi a non voler destare troppo la coscienza di mio padre e non voler al contempo violare il silenzio di quella solitudine marina..."
Di certo non si può dire che io non abbia trascorso una infanzia felice.

Come Venere nacqui dalle acque per via di un parto naturale in poppa al panfilo di famiglia, nel mare che sta a largo di Portofino.
Mi partorì così mia madre, come da sempre le madri della mia stirpe mettono al mondo la loro discendenza. Fu dunque un parto naturale, nelle blu acque oltremare a largo di Portofino.

Fui allevato da una nutrice molisana che da anni era alle dipendenze della mia famiglia.
Mi fu madre amorevolissima ed istitutrice. Passavo le notti a sentire le sue storie. Mi raccontava della sua infanzia felice tra le giovenche e i prati, della sua casa fatta di tufo con i glicini in fiore, mi narrava della ricotta che preparava con sua madre e del forno di casa da cui venivan fuori odorosi pani di grano saraceno.
Era devota e umile.
“Se al mondo ci sono omosessuali è perché dio lo ha voluto. Il mondo è di tutti, così come pure l’amore che non ha sesso. E dio non giudica, dio è amore”. Mi consolava così quando io di tanto in tanto le manifestavo una mia non meglio delineata identità sessuale alle soglie della mia adolescenza.
Ma quando mia madre s’accorse che mi insegnava le cose del mondo, e quando si diede conto che tra me e lei v’era un rapporto speciale, la donna fu licenziata. Non la rividi se non trent’anni più tardi, morente senza nessuno attorno in un letto di ospedale a San Giovanni Rotondo.

Ora non c’è più. Ma credo che di lei avrò un forte ricordo fino al mio ultimo battito. Vive nel mio cuore.
Questo fiore si chiamava Filomena, detta da mia madre "Filomena la Terrona".

Dopo la cacciata di Filomena, alla mia crescita si occuparono diverse donne, sotto l’occhio vigile di mia madre che a poco a poco, come in un disegno invisibile, lasciava che trascorressi molto tempo con mio padre, il quale per me ebbe attenzioni assai sollecite.
Troppo sollecite.
Ma non da subito.

La bestia - come diceva mamma - doveva crescere ancora.



Il risultato fu che la mia pre adolescenza fu caratterizzata da desideri strani.
Odoravo la poltrona su cui mio padre giaceva spesso nei meriggi a curare i conti di famiglia.
Mi piaceva il suo odore e quando una sera ebbi a confessarlo a mia madre con somma vergogna, ella depose sulle ginocchia il libro che stava leggendo, (“Fallathio memorie”, lo ricordo ancora) e mi parlò delle scorregge leggendarie di mio padre.
Sulle prime ridevo alquanto perché mia madre era un’abile ed ironica narratrice. Forse inventava storie un po’ balzane ma assai veritiere per la mia ingenuità. Mi disse che odorare l’aria di mio padre era stata una pratica trasmessa nel tempo di generazione in generazione. E pare portasse fortuna.

Si che alla sera, quando mi spogliavo e mi infilavo nel letto, tastavo qualcosa sotto il cuscino. Accendevo la lampada di fianco al mio letto e dai guanciali sfilavo lentamente e con sorpresa le mutande di mio padre, altamente intrise dei suoi umori tenaci che io annusavo profondamente. Talvolta vi trovavo dei calzini umidi o calzini talmente intrisi di sudore paterno da risultare incartapecoriti.
Dovevo fare ricorso alla saliva per ammorbidire quegli splendidi filati di Scozia e liberare nell’etere le fragranze fetide e feconde di mio padre.
Solo in seguito intesi chi, fra tutti in casa, mi predisponesse quei regali sotto il guanciale. Erano i domestici, che seguivano con zelo le disposizioni di mia madre.

Trascorrevo molto tempo con mio padre. Lo seguivo nelle sue partite a golf, alle partite del tennis e del calcetto. Non lo perdevo di vista un solo istante, salvo quando si ritirava negli spogliatoi del club Frascati, sui colli romani. Mia madre pareva molto contenta di quel rapporto padre e figlio.
Papà non era solo nobile di lignaggio, ma era anche un abilissimo imprenditore nelle forniture belliche e si dava un gran daffare a gestire i sui stabilimenti cosparsi in tutto il mondo.
Eravamo ricchi.
Ricchissimi.


Con l’andare del tempo però, presi a stufarmi di succhiare i sudori di mio padre. Annusare le sue scorregge lasciate sulla poltrona dello studiolo era una cosa che si mi piaceva moltissimo, ma l’ormone che in me albeggiava non senza turbamenti, prese a scuotermi dal di dentro, chiedendo alla mia mente di andare oltre.
E l’occasione mi si presentò in breve tempo, in un episodio tanto sconcertante quanto fortemente seducente.

Nelle pause delle sue partite a tennis, mio padre andava a sorseggiare la sua acqua ai bordi del campo. Si sedeva, posava la sua racchetta sulle gambe e parlava col suo avversario. Io ero distante dai due ma sufficientemente vicino da osservare ogni sua movenza. Mio padre parlava e rideva. Sentivo poco il contenuto del suo discorrere per via del brusio delle cicale nelle chiome dei viburni ed il cinguettio dei passeri tra i pini marittimi. Mentre parlava, mio padre quasi si sdraiava su quella sedia, aprendo le gambe.
Le apriva e le chiudeva in successione ritmica quasi a volersi dare aria nelle sue parti basse. Dall'orlo dei calzoncini bianchi, io scorsi il testicolo.
Fantasticavo, ed essendo io una persona da sempre avvezza all'attività del pensiero, filosofeggiavo su ciò che guardavo. Dal lavorio incessante di quel testicolo, di quei testicoli, ebbe origine la mia vita.

Scorsi inoltre il suo nerbo di carne, poggiato tumido sul testicolo sotto i larghi calzoncini, ed ebbi un sobbalzo così forte da farmi quasi piangere per la commozione.
Quel genitale nulla aveva a che fare con il mio. Suscitava in me il bisogno di un contatto orale. Il suo sudore fresco, appena essudato dal perineo o dal pube, mi avrebbe reso pago di esser vivo su questa terra.
Io volevo il nerbo di mio padre, ma restavo ancora immobile e profondamente turbato.
Chiesi a mio padre di essere riaccompagnato a casa. Il domestico mi riportò in casa mentre io, stando seduto dietro nella macchina, smaniavo non sapendo ancora bene dove e come toccarmi.
So solo che sentivo un brivido caldo nei pressi della vescica. Un piacere interiore, un piacere oscuro covato nel mio ventre.
Corsi a casa, risalii in tutta fretta la grande scala elicoidale e mi andai chiudere in camera mia. Ansimavo e tremavo. Aprii il cassetto mentre mi spogliavo alla meglio, sfilai una mutanda unta di mio padre messa in una scatola di latta a mano a mano che la servitù me ne passava qualcuna, e buttandomi nel letto restavo a guardare il soffitto respirando forte.

Avvolsi il prezioso intimo intriso che ficcai nella bocca e succhiandone gli effluvi, presi a massaggiarmi forte il ventre e poco sopra il pube. Le dita incerte sfregavano anche il mio inguine e la bocca dell’ano, senza ancora sapere che quella mia porta d’ingresso, in un futuro non troppo lontano, sarebbe stato il monumentale ingresso ai miei diletti.

Cercavo di evitare troppo i contatti con mio padre ma non era affatto facile. Mia madre ci teneva affinché io potessi stargli sempre accanto e seguirlo in ogni sua occupazione. Mio padre forse avvertiva il mio impaccio ma si mostrava naturalmente indifferente. Lo pensavo sempre, senza sapere con esattezza come avrei potuto io, maschio e figlio, beneficiare di lui.
Un pomeriggio mia madre mi venne di fianco mentre restavo seduto sul divano a piangere silenziosamente. Fu in quella circostanza che confidai a mamma di quelle mie sensazioni strane che mi pervasero mentre ero là giù, al campo di tennis. Mia madre mi si sedette di fianco ed accarezzandomi fece di tutto a persuadermi che infondo queste cose erano normali.
Ne avrebbe parlato con papà, ed ella si prodigò in ogni dettaglio perché quel tempo fosse vicino.

Organizzò una gita in barca a largo di Capri, col panfilo di famiglia e con a bordo alcuni amici di mamma e di papà. Era finalmente il mio diciottesimo anno.
Ricordo quel sole ed il mare calmo, il cielo azzurro e le rocce nervose dei faraglioni. Dal trampolino si tuffavano tutti. Mio padre indossava il suo costume bianco ed esibiva al sole le sue forme maschili, statuarie. Non era il muscolo di per sé che mi affascinava della sua fisicità. Era il muto gioco dei nervi, dei tendini, la pelle e di peluria che modellava le sue forme.
Quando fu ora del pranzo, le donne indossavano i camicioni di lino con i ricami sbarazzini e gli occhiali da sole. Gli uomini invece mangiavano a torso nudo. Eravamo tutti sotto il parasole di poppa e si conversava. Io guardavo la pelle bronzea di mio padre e lo desideravo.

Poi lui si alzò, passò in prua, allungò la sedia a sdraio su cui si adagiò a gambe aperte e pose le mani alla nuca, chiudendo gli occhi e voltato al sole. Mia madre poco dopo si alzò dal tavolo, passò di schiena agli invitati con sorriso cerimonioso e mi si accostò all'orecchio. “Vieni con me”.
Sentii forte un emozione nel ventre e le gambe mi tremavano. Mi alzai, mia madre mi prese la mano e percorremmo i sessanta metri dello scafo per raggiungere la prua.
C’era silenzio. Lo strepito degli invitati si fece ovattato, ed udivo nel silenzio del mare le sole piccole onde del meriggio tutte argentate dalla luce del sole che venivano calme contro alla chiglia del nostro natante.
Mia madre mi faceva strada non lasciandomi la mano nemmeno un istante. Quando scorsi mio padre col costume infondo alla prua, ebbi un sussulto e mi fermai. “Andiamo” disse mamma suadente.

Quando gli fummo vicino, io non riuscii a deglutire. C’era un silenzio solare. Mia mamma con un filo di voce disse “credo che ora il ragazzo sia pronto”.


Mio padre restò immobile a fissare ad occhi il chiarore del sole. Vidi solo incavarsi il ventre e smosse impercettibilmente il bacino in avanti offrendomelo con la sua veste chiara di costume da bagno sotto cui giaceva il suo maglio di carne feconda. Fissai mia madre, poi mi voltai avvolto nel silenzio verso il suo pube. Lentamente mi inginocchiai di fianco. Le dita mi tremavano ma cercai di restare concentrato sul cordino bianco per allentare l’elastico del costume da bagno.

Afferrai il bordo del costume, lo risvoltai appena e poi procedetti più deciso perché da quel forziere di tessuto bianco le palle di mio padre si lasciassero bagnare ben presto dalla luce del sole. Adagiai l’elastico sotto lo scroto ed il membro dormiente di mio padre prese ad irrorarsi muovendosi gonfio di ormone come si sveglia dal lungo sonno una mitologica creatura subacquea.
Non sapevo come afferrare quell'animale e così con l’indice ed il pollice sfiorai quel suo prepuzio che lentamente abbassai. Accostai le labbra nei pressi di quel fallo palpitante ed annusai l’aria nei pressi della peluria.

Fu per me una sorpresa non percepire nulla che non fosse salsedine e carne di padre. Strano, il mio pisello di allora aveva un pessimo odore. La verga matura di mio padre era invece scevra da qualunque afrore disgustoso.
Io volevo piangere. Ero sopraffatto dall'emozione. Mia madre che dall'alto della sua posa mi guardava, mi disse di impugnarlo con dolcezza. Me lo disse sussurrando, quasi a non voler destare troppo la coscienza di mio padre e non voler al contempo violare il silenzio di quella solitudine marina violata appena dalle piccole onde del mare sullo scafo.
Dovevo menare dolcemente quella sua carne trepidante e così feci. Poi tirai in basso il prepuzio ed una cappella colma di rugiada si diede alla luce del mondo con tutto il suo orgoglio.

Fu per me come se tutta la forza virile del cosmo si fosse data convegno nella muscolo robusto di mio padre. Ero al cospetto della soprannaturale fonte dell’uomo, sorgente di materia liquida che liturgicamente fluiva dall'uretra circolare e perfetta, fino a irrigare di luce vitale il glande e le creste.
Mi sovvennero i versi di Giovanni, e tra me e me spiccai in quel silenzio le parole celesti. “Signore dammi quest’acqua, perché io non abbia più sete” ed estesi la lingua al glande.

“Ferma” disse mia madre allungando la mano, ed io sollevai lo sguardo su di lei.
“Se toccherai il glande, presto si stancherà. Offrigli i piaceri umidi della tua lingua ma veneragli per primi i bei testicoli, poi l’innesto, ed infine il nerbo. Staziona sulla mazza non dimenticando mai di ripassare i testicoli, vedi come si muovono? Poi risali e assediagli le creste del glande come in un attacco a sorpresa. Muoverai con la punta della tua lingua il frenulo, come se pizzicassi le corde di budello di un’arpa grandiosa. E allora sì poi tu e lui sarete finalmente uniti nella comunione, quando nella tua bocca il glande di papà si farà strada da sé”.

Tremai alla voce di mia madre. Chi meglio di lei conosceva l’anatomia di mio padre, ed ora io, figlio, mi prestavo a quei suoi piaceri.
Con la mia saliva cosparsi meticolosamente di luce liquida gli ovoidi paterni. Pennellai la valle dei grandi testicoli dove questi quasi vanno a toccarsi, rintracciai l’anello all'innesto e la mazza fu accarezzata lungo tutto il suo dorso.
La mia lingua ridipinse le dorsali delle vie del sangue sotto la pelle sottilissima della grossa spranga cavernosa di papà. Tornai come disse mamma ai testicoli poderosi, fucine perpetue di vita, supplicando a ciascuno delle due grosse gonadi paterne che la copiosa materia lattea tardasse a venire a luce.

Il latte di papà che io mi aspettavo copioso, lo bramavo come premio finale alla mia destrezza.
Quando sferrai l’attacco finale al glande di mio padre, egli ebbe un sobbalzo di piacere e con ambo le mani afferrò il mio capo mandando all'aria il mio calcolato piano d’assedio, ficcandomi in gola l’intera mazza fino a frizionarmi dolorosamente nel cavo orale.
Mi inarcai dallo spasmo ed aprii gli occhi in lacrime guardando nel vuoto verso il basso, cercando di mettere a fuoco i grossi testicoli battuti contro il naso da cui mi fuoriuscì della cospicua biascia.

Ricordo che tossii acutamente col fascio di carne confitto ancora in gola ma mio padre tenne forte la sua preda tra le proprie cosce facendosi forza sulla sdraio con la spinta dei soli lombi e talloni. Dopo un tempo così lungo da mandarmi in asfissia mollò la presa e reclinai il capo boccheggiando in preda alla fame d’aria. Tra le lacrime guardai mia madre che con il pollice all’insù indicava tutta la complicità del caso facendomi persino l’occhiolino. Per sfuggire a quella esperienza subitanea quanto terribile, mi lanciai contro i testicoli che presi a leccare di modo che mio padre si distogliesse dai propositi di replicare l’azione così molesta.
Ricordo che sudavo dai capelli e che dalla punta del naso si addensava una grossa goccia di sudore.

Cecilia, la figlia dell’ambasciatore della Polinesia che era venuta a bordo con tutta la sua famiglia per trascorrere insieme la gita sul natante, sbucò all'improvviso sul ponte assolato. Cecilia aveva avuto fino a quell'attimo un certo interesse su di me. Ma si arrestò muta a dieci passi da noi. Portò entrambi le mani alla bocca e spalancò gli occhi. Avanzò lentamente con passo felpato. Poi si voltò indietro, bisbigliò al padre più in fondo qualcosa di non udibile, facendo cenno di avvicinarsi. Presto sul ponte di prua gli invitati ci furono attorno ma tutti a debita distanza, tutti muti, sbigottiti, attoniti ad osservare qualcosa di sciagurato che stava accadendo sotto il sole.

Colette, la moglie dell’ambasciatore e madre della giovane Cecilia, intimò a quest’ultima di andare in poppa, ma ella non se ne volle andare. Ricordo che ci fissava sconvolta.
Allora mia madre, ferma di fianco a me e mio padre, chiamò il mozzo che accompagnò la ragazza fuori dalla portata visiva di quello show. Udii la ragazza piagnucolare e poco più tardi dalla poppa del natante sopraggiunsero le sue urla isteriche. Ma non ci feci molto caso perché mio padre riprese vigore e afferratomi per entrambe le orecchie si mise a fottere avidamente la mia gola. Io sbuffavo, sbiascicavo dalle narici e le orbite degli occhi mi parevano esplodere. “Adesso capisci perché cerco un sostituto?” disse mia madre allentandosi da noi rivolgendosi alla Colette, la moglie dell’ambasciatore polinesiano. E poi aggiunse “solo un maschietto può tutto questo perché a me l’arte del soffocone mi ha sempre dato noia alle ovaie” e le due donne presero a sbellicarsi.

Il ridacchio senza misura delle donne in comunella è l’aspro sogghigno delle streghe. Qualunque sia il loro rango, qualunque sia l’ammaestramento alla vita sociale, o di qualsivoglia natura sia il loro lignaggio, le donne nella concordia rivelano di essere di fatto il migliore boccone del demonio a danno degli uomini.
Fu in quell'attimo che papà si sollevò dalla sdraio sfilandomi il tarallo dalla bocca. Fece un lungo sospiro e prese a manovrarmi senza sapere con esattezza che cosa volesse fare. So solo che diedi un rapido sguardo alle donne, all'ambasciatore e ad altri due invitati. Poi il mio sguardo si indirizzò timidamente alle caviglie di papà che intento a manovrarmi mi fece distendere con la nuca contro il bordo della sedia da sole.
Mi montò sopra, centrò la mia bocca e fece le sue flessioni su di me mentre io, divenuto già abile nel prestargli una fica orale, mi aggrappavo dapprima alle sue forzute braccia, toccando con gli indici il disegno dei tricipiti per poi porre le mie mani agli avambracci. Nel fottìo della mia bocca stabilizzai il mio stare sdraiato sul ponte facendo del mio meglio, e standomene con la nuca poggiata sul ciglio della sdraio, poggiavo i palmi delle mani sulle natiche di mio padre, intento in poderose ed instancabili spinte lombari. Papà spingeva tenendosi fermo con le braccia ai bordi della sdraio mentre tutto il suo muoversi si scaricava sulle punte dei piedi ben divaricati. Il fallo di papà era di granito e quando scaraventò nella bocca del figlio tutta la propria sborra, mi colmo' il cavo orale, che tracimò in parte fino a colarmi sul petto commisto a biascia salivare ma l’abbondanza dei fiotti fu così esuberante che per prendere aria mi costrinsi a deglutire.

Ancora oggi a ricordare quel mio episodio mi si ingrossa la cappella. Il sapore dello sperma del padre resta per sempre fissato nella memoria di un figlio stregato dal padre.
Dopo la sborra papà chiese ed ottenne una leccata finale ai testicoli. Mi insediai nel perineo ed egli sudato e stanco mi si accomodò sulla mia faccia lasciando che succhiassi la polpa di uomo che sta tra lo scroto e il buco del culo, con cui mio padre si arrese ad un docile uno sbuffo di fine mandata.

L’ambasciatore polinesiano rimase straordinariamente meravigliato per quanto i suoi occhi avevano visto e non mancò di porgere a mio padre l’asciugamani perché si pulisse per bene. Gli altri due invitati mi aiutarono a sollevarmi dal ponte. Ricordo che avevo l’epidermide del petto arrossata dal sole e continuavo a deglutire saliva mentre quel sapore di padre continuava a detonarmi nella gola.
Poi mio padre si rituffò in acqua e fece una gran nuotata fino a quasi scomparire dalla nostra vista. Guardai attorno, e osservai come tutti restavano impalati con un mezzo sorriso sulle labbra a fissare l’erezione non appagata del mio genitale.
“Naturalmente confidiamo tutti nella vostra discrezione” soggiunse mamma. Tutti tacquero. Mia madre non parlava mai a caso e questo suo proferire risuonò come monito da non sottovalutare. In certi ambienti certi silenzi sono da osservare, e certe violazioni alle regole del silenzio hanno esiti fatali. In certi ambienti non si scherza mai su queste cose.
“Adesso va’ gioia, va’ a lavarti” aggiunse mamma rivolgendomi un sorriso vischioso e corsi carico di vergogna nella mia cabina.

Dalla mia cabina udii i pianti sommessi di Carlotta che stava nella cabina di fianco alla mia. Era ancora scioccata quella cara ragazza ed io quasi mi sentii in colpa per non essere stato all'altezza di essere degno del suo interesse. La sentii singhiozzare, quella povera stella era davvero disperata. Fu sulle prime consolata dalla madre che cercò di farle intendere in tutti i modi e con voce attenuata che non ci si poteva fare nulla, che non vi era panacea per curare l’omosessualità dei ragazzi, che forse un giorno avrebbero trovato la cura e che il suo futuro comunque non poteva compiersi di fianco ad un malato per altro avvezzo alle copule incestuose. Ma la ragazza, più sentiva questo dalla madre, più il suo pianto si faceva disperato fino a quando non fu zittita dal padre che bruscamente entrò in cabina e le mollò due sonori sganascioni prima di ingiungerle di darsi un tono e portarsi di nuovo fuori per la cena.

All’ora di cena preferii restare in cabina per la mia vergogna. Dagli oblò si affacciò una notte carica di stelle e la luna dipingeva d’argento il profilo nervoso dei faraglioni. Sul ponte dopo cena mia madre con gli invitati del tutto ubriachi organizzò una bella gara in skateboard, ridacchiando come cretini e andando a sbattere ovunque.
Mia madre cadde lunga lunga mentre sul ponte volavano risate, infradito e tanti, tantissimi vaffanculo.









HUNGARIAN RAPSODY
Autobiografia di un libertino.
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