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Gay & Bisex

009 PAUSA SENZA SBORRA


di CUMCONTROL
29.10.2019    |    5.504    |    3 5.2
"Il culo già mi si apriva a trombetta e ho detto tutto..."
Quando nell’ottobre del 2017 mi cimentavo nella scrittura del mio HUNGARIAN RHAPSODY era ben lontana da me l’ipotesi che la trascrizione dei miei ricordi potesse infliggermi un cosi tale tormento, poiché mi persuasi che più ci si presta alla verità, più l’uomo si presta a pena.
Sta forse in questo il motivo per il quale l’uomo tenderebbe alla menzogna. La menzogna è la necessaria deflessione della morale alla sofferenza.

Ma io no. Io volevo essere un Uomo, e affrontare la verità dell’esistere facendo voto di verità.
Mi esprimerò al passato remoto, nonostante sia trascorso un tempo relativamente breve dal tempo in cui mi cimentavo nelle prime scritture dei miei ricordi, ma in questi due anni a CUMCONTROOL sono accadute molte cose, troppe, per il quale il tempo si è dilatato. Il dolore ne ha fatto da protagonista, e se è vero che nella felicità il tempo si misura in istanti, nel dolore più profondo il tempo si sospende.

Tenendomi la mano la mia psichiatra mi chiese di prendermi un’altra pausa dalla scrittura delle mie memorie. La precedente pausa non risaliva che all’estate precedente, ritenuta necessaria dalla mia psichiatra perché potessi meglio elaborare gli incesti coi quali mi depravai con mio padre.
La dottoressa mi vide distrutto. Ero annientato, e così mi suggerì dunque una pausa, anche se temevo di non riprendere più a scrivere il mio UHNGARIAN RHAPSODY.

Ma poi mi convinsi.
Le promisi che mi sarei dato del tempo, che avrei chiuso il file della mia storia, almeno fino a quando non fossi riemerso dagli abissi oscuri del mio stesso dolore.

Tornai a casa con le mani in tasca e la sigaretta accesa tra le labbra. Pioveva, s’era fatto buio, e sui marciapiedi e sul catrame favillava il riflesso dei semafori, delle insegne e dei fari.
Mi sentii leggero, come quella pioggia di ottobre sulla città semideserta.
Accostai ad un angolo, mi lasciai accarezzare da brividi lievi di uomo liberato e poi urinai. Nel farlo mi accorsi che un ragazzo di là dalla strada s’era fermato per guardarmi. Non mi mossi da lì. Contemplai la schiuma farsi strada tra le acque di pioggia sul marciapiede e quando mi voltai il ragazzo mi stava di fronte.

Io mi guardai attorno e lasciai che il ragazzo mi toccasse il cazzo. Egli lo guardava e di tanto in tanto sollevava lo sguardo ebbro sui miei occhi. Io distolsi lo sguardo e il ragazzo si piegò a succhiarmelo. Guardavo ora a destra ora a sinistra e mi distesi a sentire la bocca che affondava, e affondammo entrambi nella periferia della grande città dai marciapiedi deserti a quell’ora. Ma poi passai la mano sul capo del ragazzo, lo allontanai, ritirai il cazzo e richiusi la patta.
Il ragazzo insistette stringendomi il pacco ma io mi voltai, avvinto da una profonda tristezza e per questo presi la strada di casa piangendo.
Il ragazzo corse verso di me e mi si accostò di fianco. Era un ragazzo di circa trent’anni e dal capello rasato. Aveva occhi vispi, una carnagione liscia e una barbetta appena accennata che conferiva grazia alle sue labbra. Aveva due natiche straordinarie e pare che la natura non fosse stata ingenerosa solo nel modellare i glutei del corpo, poiché persino nel gonfiore del pacco ebbe a conferirgli forme prepotenti in quella sua complessione procace di giovane bove.
Si chiamava Salvo. Mi chiese di fare un po’ di strada insieme ed io accettai. Avevo certo bisogno di stare solo, ma uno sconosciuto talvolta è più rassicurante di un amico fidato, e persino della ricercata solitudine con se stessi.
Si scusò per il gesto, e mi spiegò che non erano da lui certe intraprendenze, ma gli piacevo molto e dunque aveva osato un approccio “trasgressivo”. Era venuto a Torino dalla sua Sicilia nell’illusione di trovare lavoro senza trovarlo. I tempi erano cambiati e così – forse – sarebbe partito presto per la Germania. Non v’era nulla che in lui potesse dirsi un omosessuale, ad eccezione della borsa a tracolla, che come me giustificava per la sua comodità di farci stare di tutto.
Gli proposi di fare cena insieme, in un ristorantino nei pressi di casa mia. Il suo culo mi parlava sul serio e mi persuasi dunque che quella sera avrei sbrigato con esso sublimi dialoghi titanici.
Entrati nel ristorante lo vidi eccitato per la sua avventura di una sera. Sorrideva a tutti, parlava e straparlava.
Ci accomodammo e non perse tempo. Incominciava già a darmi noia.
- Sai CUM io vengo dalla Sicilia, Villafranca Sicula, conosci?
- Un toponimo per niente cacofonico.
- Che cosa vuol dire cacofonico?
- Provincia di?
- Agrigento
- Oh Girgenti.. Ho amato molto Pirandello.
- Ah si? Non ho letto niente. Ma ci sono bei maschi.
- Ah..
- Sai CUM a me il cazzo piace, se poi uno mi piace gli concedo pure il culo. Tu mi piaci. Ma uno non mi deve deludere. Se con me sei uomo, cioè ti comporti da maschio, cioè sei onesto, rispetto, guarda per me il rispetto è tutto e nel senso che non deve parlare male di me in giro, la gente è falsa.. La gente mi invidia, non so perché. Infatti lo scrivo sempre su Facebook. Voto Lega.
- Hai un bel culo.
- Ti piace? Di che segno sei? Allora dicevo, se uno con me c’ha il rispetto, come te per esempio, allora io te lo metto su un piatto d’argento. Il culo intendo dire..
- Interessante, in una credenza no?
- Dai non scherzare. Cosa c’entra la credenza. A trovarne di uomini veri. Secondo me tu sei un Uomo vero però. Poi sei un bel torello, sei fico, forse anche un po’ bastardo. Mi piaci...nonostante..
- Nonostante?
- Beh, hai l’aria cupa.. misteriosa, ma mi piace.. devi essere un tipo cupo interessante, hai quel non so che. Una specie di rabbia interiore. Che segno sei? Io sono della vergine. Hahahahaha sapessi gli amici miei mi dicono che sono rottainculo hahahahaha. Be’ effettivamente mi piace il cazzo. Che segno sei tu?
- Culatrona.
- Scusa?
- Culatrona e mi hai rotto il cazzo.
- Scusa non ho capito.
- Hai rotto il cazzo. E tira fuori il culo e scorreggiami in faccia nella credenza porco!
- Come??
- AmplifooOOon!!
- Ma?
- Me devi scureggia’
- Credo ci sia un equivoco
- No. Camerieeeeeere, camerieeeeere, dico a lei. Venga qui un attimo.

Il cameriere giunse al tavolo in buona livrea ed io m’ero scocciato di sentire sta cretina, avendo un unico desiderio di culo ma come dicevo io:

- Comandi Signore
- Comandi signore… mo’ cosa sono questi modi ottocento. Mi chiami pure CUM, La CUM per l’esattezza. Molto lieta. Che fa, non fa il baciamano?
- Scusi queste cose si facevano una volta alle signore.
- E io non sono una signora? Ma tu guarda questi dipendenti. Bisognerebbe segnalarlo al suo superiore non trova?
- Sono io il titolare, ma dica signor La CUM
- Faccio finta di non aver sentito. Allora senta, siccome che io e il tale qui di fronte vorremmo un posticino un po’ più tranquillino…..
- Vuole che le sposti di tavolo?
- Voglio che mi ascolti fino in fondo
- Perdoni
- Ecco. Dicevo io e il signorino desidereremmo un posticino appartato per fare le nostre cosine un tantino’ porcellone. Sa, nulla di pretenzioso ecco. Loro hanno una credenzina sul genere Provenza? Magari non troppo lacunosa nello stile, direi possibilmente ad ornamento giocondo, sul floreale ma non troppo, ecco meglio se un tantino deliziosetta, tirata di fino insomma, niente Ikea e cosine dozzinali... ma in assenza di questa, ci starebbe bene che tutto non so, anche un buffet del tipo “bene”, un armadietto carino, un armadietto giocoso, per carità non ci formalizziamo sa, ma di un elemento d’arredo squisitino necessiteremmo, ecco, per cui farmi chiudere dal qui presente giovanotto.
- Una credenza? Per fare cosa?
- Guardi. Detta così parrebbe una richiesta un tantino eccentrica. Se mi chiudo dentro lui che fa? semplice... apre un pochettino le ante, ci posiziona il culo, mena scorreggione e poi chiude subito. Oh, sia chiaro, volesse favorire non mi formalizzo mica, e manco col personale se proprio la vogliamo dire tutta, basta che vi accodiate e io sarò lieta di ricevervi in credenza. Come siamo messi a culi e scorregge?
- Io credo che ...
- Altrimenti facciamo da noi. Magari ecco se il qui presente giovanotto avesse la compiacenza di ammorbarmi con quella sua aria da maschione, purché non parli. Non trova? Torno a ripeterle a me basta una credenza e un culo. Loro hanno di questi ricoveri?
- Scusi?
- Siete tutti sordi qua dentro???
- La prego non urli signor La CUM
- Senta, io non è che me la prendo con lei che farà pure degnamente il suo dovere di inserviente, ma un niente in questo locale che possa dirsi convenevole alle desidera di una cliente che intende chiudersi dentro gli stipiti e farsi scorreggiare da questo signore che sta qui al tavolo con me, uno che mi dice di mettermi il culo in un vassoio. Ha capito? Il culo in un vassoio porco bue!
- Ma cosa sta dicendo e la prego di abbassare la voce o sarò costretto a invitarla ad uscire dal locale.


Indignata come nessuna, Salvo prese la sua tracolla e si diresse alla cassa con aria alquanto arcigna, dove pagò il suo conto senza nemmeno consumare.
Lungi da me ogni giudizio sulla persona, ma che Finocchia.
E io?

Be, io.... Non per dire ma io sono stata presa e buttata fuori come una lavandaia, con tanti di quei Vaffanculo che con una insolenza mi sono stati recapitati rispettivamente da titolare, clientela e tutto lo staff camerieri del locale.
Certo non mi sono tenuta niente. Da dietro le vetrine ho gridato vendetta su Tripadvisor.
Mi hanno buttato una banana.

Voi potete capire come dopo un trattamento così poco urbano, sia stato sopraffatto da una afflizione così profonda per cotanta umiliazione.

Che palle....

Ma chi se ne importava. Io necessitavo di maschio. Di cazzo e di maschio. Solo un maschio vero, e non una checca mi avrebbe salvata dall’oblio scorreggiandomi in una credenza. Ma ben vengano gli scorreggioni perbacco, purché di maschio.
Presi a camminare a passo spedito. Sentivo una improvvisa smania di minchia. So sincera.
Sentii già le forze andare via. Tutto si annebbiava ed era inconfutabile la sopraggiunta sintomatologia chiara ed evidente di una seria astinenza da cazzo. Il culo già mi si apriva a trombetta e ho detto tutto.
Sincera, dovevo farmi la dose o sarei finita moribonda a succhiare una marmitta con gli occhi girati.
Cercai di respirare lentamente. Bisognava allontanare da sé la voglia di cazzo o sarei morta, almeno fino a quando non lo avrei trovato.

Attraversata la strada con le mani in tasca mi ripresi dalla frescura a pioggia cessata. Tuttavia, incedendo da vero maschio, avendo il buco del culo a stappalavandino e non mi vergogno a dirlo, sganciai uno scorreggione felice. Maschio.

D’altronde “l’omo è omo. Rutta, scuregia, e soprattutto puzza”. E io sono oma.

Sicché a un certo punto mi sentii chiamare. Mi voltai e vidi tre camerieri che correvano nella mia direzione. Al che sgranai gli occhi, e vedendoli correre verso di me, pensai subito che la serata poteva non finire così tanto male, che quei maschioni di camerieri avevano udito le mie necessità della serata, e che preso un permesso dal servizio, costoro correvano a far pausa giocandosi una porca.

Diedi una rapida occhiata in giro per scorgere una cabina telefonica cui chiudermi dentro e farmi fare una gang bang sul genere Credenza Provenzale, ma da quando le compagnie telefoniche avevano preso il sopravvento, diventava difficile imbastire una gang bang estemporanea a base di scorregge e cazzo in una cabina telefonica con dei camerieri di sala.

Dunque mi buttai a pesce sulla panchina, calai pantaloni, calai le mutandine e con le mani mi allargai di chiappa per dare il mio benvenuto ai tre maschioni.
Quando i tre tali mi furono attorno, io stavo bella che pronta a tirarmi le chiappe, sì che il buchino potesse far l’inchino.
Per non turbare i miei fottitori, che visti i tempi potevano legittimamente sospettare che io fossi una checca, levai dalla borsa l’asta dei selfie, me la infilai nella trippa, e gemetti maschio a garanzia della mia maschitudine.

E bene. I tre mi sollevarono per l’ascella, e fin qui va bene, e come una vedova distrutta dal dolore mi trascinarono smorta per tutta la strada. Io mugugnavo da attrice drammatica, smaniosa, molto anni cinquanta, Cinecittà diciamo, fino a quando con mia sorpresa fui scaraventata al cospetto del titolare, il quale, esibendomi con quelle sue dubbie ditacce da tranviere strette sullo scontrino fiscale, mi ingiunse di pagare la cena per altro non consumata. Altro che gang bang, va bene?
Uscii da lì cambiando registro. Pagai, salutai tutti ma proprio tutti con l’inchino, manco fossi una sguattera nipponica. Il titolare sbraitò di non farmi mai più vedere nel suo locale, ed io inchinandomi a bacchetta come se avessi un kimono nonostante fossi sguattera, uscii di culo dicendo ripetutamente sono costernata.

Corsi via come una cessa per una buona mezz’ora dicendo povera me ma povera me, quando giunsi ai bordi delle siepi non molto distanti dal ristorantino, entrai nel parco, avendo notato un gran movimento di sagome e motori.
Allora prima accostai al laghetto, e siccome volevo far colpo ai maschioni sempre per la mia famigerata astinenza da cazzo, mi ingegnai in qualcosa di eccentrico per battere la concorrenza spietata. Recisi un lilium dall’aiuola, calai daccapo le braghe e solo in quel momento mi accorsi di avere in dosso le mutandine di pizzo scozzese del giorno prima. Poi piantai lo stelo nel bel mezzo del buco del culo e vogliosa come nessuna mi dissi son pronta.

Ficcarmi dei gambi di flora nel culo è una cosa che ho imparato a fare dal mio ex master ungherese, quando lui crocifiggeva i suoi schiavi con la sparachiodi, e io restavo china ai suoi piedi per ore ad ornamento con un mazzo di dalie in culo. Pala d’altare insomma.

Ma ora stavo lì famelica di cazzo. Aggrappato alla staccionata tremenda nel mio desiderio a pecorina roteavo il sederino, così che il lilium si sbatacchiasse tutto e richiamasse il maschio vero nei paraggi. Ma niente. Solo petali sbattuti per aria. Di gente ce n’ era per carità, ma di passaggio, sul tipo che ne so.. coppiette di fidanzatini, anziani con il cane, qualche runner. Oh, tutti a sghignazzare ma mai un maschione vero con le palle cariche da sparo.
Quindi intesi che non era il posto giusto.

Mi diressi all’argine, più buia come situazione, e mi accostai al tubo di scarico delle fogne cittadine, un tubo lungo e grosso, un metro e mezzo di diametro diciamo, che sbucava rigido rigido rigido dal muro di cemento e da cui usciva ogni genere di schifezza.
Fui preda di una voglia fetish , a tratti dirty.
Vidi un manzo con la maglia Adidas che stava a pochi metri. Pisciava. Ebbene mi misi a cavalcioni sulla conduttura, coi pantaloni calati sotto il gluteo e interpretai la parte della benzinaia coi jeans tagliati a fior di culo che lava con la spugna un’autovettura.
Ma come avrebbe potuto resistermi. Sulla cloacona mi avrebbe punita quello lì, a manganellate di cazzo mi avrebbe presa, a debordate di randello, a schiaffeggiate di minchia, e io avrei detto pietà pietà a mo’ di piccola fiammiferaia a cui magari avrebbero preso a calci il banchetto di fiammiferi e schizzata di sborra tra due bidoni di immondizia.

Ma il tipo parve interdetto, esitò nel passo, io lavavo lavavo il tubo della fogna strusciandomi tutta. E allora?
A parte che quello accelerò il passo e se la svignò che voglio di si mettono l’Adidàsse ma poi sono tutte delle catechiste in pectore, ma un niente che fosse stata una sola ditata nel culo, e indignata scivolai aggrappata al tubo e per poco non finii a farmi un bagnetto di pura merda.
Che schifo guarda. Che schifo.

Di certo non sarei rincasata senza uno straccio di cazzo. Corsi sulla collinetta poiché attirato da due sagome, una irta, l’altra china sotto un lampione guasto.
Allora dalla tracolla sfilai il pettine e mi diedi quattro colpi di spazzola, poi cavai la lacca e mi stirai a sparo i capelli come la Patty, e per finire udite udite tirai fuori il lucidalabbra.
Raggiunta la collinetta mi accostai ai due, e indovina chi vedo china? No dico, il Salvo, il commensale che voleva offrirmi il culo su di un vassoio al ristorante e che a torto pretesi che mi scorreggiasse in dispensa.

La cretina senza neppure cacarmi di pezza se ne stava a pompar la mazza, ed io allora sbottonai la camicia al tale e mi apprestai a succhiargli il capezzolo.
Naturalmente mugugnava. Sicché leccai l’ascella e il pomo d’Adamo facendogli venire la pelle d’oca.
Bè, cercai le sue labbra allungandomi un po’ a tacchina diciamo, con le labbra a culo di piccione, ma il tale si voltò altrove e io ci rimasi un pochino male.
Gli domandai all’orecchio se mi puzzasse il fiato, ma lui mugugnava e basta. Gli piaceva, ma di baci un cazzo.

Ma non mi diedi per vinta. Mi misi alle sue spalle, strusciai il membro tra le sue chiappe, ma mi par che non gradisse molto perché mi allontanava con la mano. Eterosessuale, pensai con entusiasmo.
Allora mi piegai, lo allargai di natiche e mi diedi ad una profonda leccata anale. Se lo meritava tutta quel gran maschione, e devo dire che tra le chiappe quel sapore di stracchino non mi dispiaceva affatto.
Mi deliziava il rustico del culo, ruvido di pelo e intinto di quell’aroma formaggino. Senonché, l’ano prese a palpitare. Sulle prime limonai con più profonda avidità, ma la cosa incominciava a angustiarmi, poiché le palpitazioni anali con una pompa in corso preludono sempre l’imminente sborrata.
Al ché mi alzai, di schiena lo strinsi a me imprigionandolo tra le mie braccia, e sussurrandogli all’orecchio, gli esplicai la mia istanza di disfarsi di quella cretina al suo genitale e dare a me, alla CUM, la Pitonessa, il beneficio di una salutare sborrata in gola.

Ma lui taceva. O forse era troppo preso da quel pompino e non si arrischiava ad un subitaneo cambio di bocca. Volevo strillare per il nervoso ma dovetti restare calma.

Quel bocchinaro succhiava forte a due mani, sbrodolando saliva a tutto andare, quella porca. La odiavo quella bocchinara demmerda.
Mai avrebbe condiviso con me quella succhiata ingorda com’era. Se avessi avuto un ferro da stiro nella borZetta giuro l’avrei massacrata per fargli la faccia a mattonella. Ma oltre i preservativi, la spazzola, la lacca, del rossetto, la biografia di Alda D’Eusanio, un cetriolo belga e una peretta svizzera, null’altro avevo io nella borZetta.
D’un tratto la tipa, la mia commensale di un’ora prima, prese a masturbarsi standosene sempre piegata a tirar di bocca. Che schifo, ma la cosa mi fu propizia.
Mi calai i pantaloni fino alle ginocchia, poi via le mutandine e mi ficcai un dito in culo con cui mi trapanai fino al singhiozzo. E allora accostai all’orecchio del tale, chiesi se gradiva che gli mostrassi il mio sederino e promettendogli grandiose svangate mi misi a sussurrargli coccodè come se fossi una gallina.
Non so, in quegli attimi mi sentivo gallina, ovaiola assassina diciamo, desiderosa di tenersi in grembo l’ovo.
Ma lui si voltò altrove, ed intesi che non gradisse molto il mio ruolo di ovaiola eccitata.

Sicché la vacca in basso che succhiava e si spugnettava, non degnandosi minimamente di alzare lo sguardo e quindi riconoscermi, allungò la mano verso di me, e mi tastò il pacco non staccandosi un secondo dal succhiare il manzo.
Un fastidio guarda, cercai nella borsa inutilmente un ferro da stiro, e quella? Quella Buttana non dava il minimo cenno di solidarietà tra donne!.. Ehm.
Tra uomini volevo dire.

Per me la misura fu colma. La Pitonessa che è in me boriò vendetta, e le diede un gran calcio in faccia. Così proprio, sulla faccia. La demente ruzzolò via naturalmente ed era pure ora, ed io presi il mio cazzo e tanti vaffanculo.
Riconosciutami finalmente in viso, Salvo iniziò a inveirmi contro dandomi della ladra. E io, vattene. E quella, lasciamelo. E io, devi morire, mongoloide.
Ma lei insisteva, insisteva, e io cosa potevo fare? Quella mi strattonava e non mi lasciava succhiare. Io la scalciavo e quella continuava a darmi fastidio. Voi cosa avreste fatto?
Poi che dire, io fui tenace. Dovevo restare attaccata al cazzo e Salvo parve che si arrese. Mica tanto.
La demente si infilò sotto le palle che intese leccare a tutto spiano. A si? Fu la morte sua.
Mi alzai, levai entrambe le braccia tipo la òla allo show di Madonna, e affondai gli artigli nei capelli dall’insolentissima mongoloide dimmerda.
Mi sentii un gladiatore nell’arena guarda. Infatti con una mano le stringevo lo scalpo e con l’altra le menai tanti di quei cazzottini sulla faccia che finimmo in terra. Le mozzicai la testa e la ridussi in fin di vita a pizzichi e graffi in faccia.
E Il tipo? Sai che fece il tipo?
Ritrasse la minchia, sollevò la zip, girò i tacchi, e se ne scappò via, capito? La siciliana gemeva sversa sotto i miei artigli ed io ruggivo da pitonessa assassina. Sincera. La odiavo.
Disprezzo l’egoismo nelle persone. Che motivo c’era di non condividere un pezzo di cazzo con qualcuno, no dico, che problema hai?
La verità è che la gente non sta bene.

Continuai ad infierire sulla moribonda siciliana prendendola a borsettate quando d’un tratto vidi arrivare la polizia che correva con le torce in mano. Mi afferrarono, mi trascinarono via e urlai la mia vittoria come una vajassa.
Voi potete capire che finimmo entrambe al commissariato, ma ci dimisero poco dopo il verbale.

Ci chiamarono un taxi e furono tutti davvero molto gentili, ed io ero così commossa per la loro tolleranza che questi uomini in divisa ci dimostrarono, che avrei concesso a tutto il commissariato di scorreggiarci in faccia. A me e alla Salva.
Ora, capisco che la divisa è divisa, ma non avrei chiesto di certo a questi tutori dell’ordine pubblico, padri di famiglia, di calarsi i calzoni per noi e strapazzarci a turno con le loro virili loffie. Ho un profondo rispetto per le istituzioni. Ma anche col pantalone voglio dire sarebbe stata una cosa carina e assai discreta, poiché trovo il tessuto delle divise assai eccitanti per scorreggiarci in una cella, se non altro perché così facendo non sia cagionato nocumento al rispettabilissimo corpo di pubblica sicurezza.
Infatti azzardai la proposta ad alcuni di loro entrando in taxi, ma mi fu risposto uno meraviglioso vattene a casa rottainculo.

In taxi io e la tipa non parlammo, lei a casa sua, io a casa mia.

Una sera però la mia rivale mi chiamò. Io stavo depressa sul divano a guardare il soffitto mentre mi sfondavo la gola con una zucchina fino ai conati.
Voleva parlarmi. La invitai a casa e facemmo la pace.

Trascorremmo l’intera notte a lesbicare.
Cosa vuoi. Un sessantanove di otto ore con io che gli ficcavo una bella zucchina a torciglione nel culo, e lui, be’ non per dire, ben due zucchine mi ficcò, cui aggiunse il manico dello scopino da cesso più tardi dandomi della gran cloacona.
Aveste visto che portafiori demmerda li mortacci mia.

E comunque ci siamo sturate tutte e stappate francamente alla grande. La verità. Otto ore di pura Epica, non per dire, con tanto di godimenti e se pur temendo entrambe di combinar lo splatter per aria, è finita che è andato tutto per il meglio, con buona pace di mia madre che soleva definire il buco del culo di noi omosessuali una eminente fica cacante e basta.

A colazione poi dopo il caffè la mia amica sicula volle che gli leggessi il mio HUNGARIAN RAPSODY e quando ne ebbi conclusa la lettura egli trovò tutto il mio romanzo assai “efficace”.
“Efficace” mi disse. Un giudizio circostanziato direi. Ma poi si profuse in larghe lodi dopo essersi presa un sabot tirolese che le tirai sulla faccia. Mi pregò di riprendere a scrivere con la borsa del ghiaccio in volto standosene distesa sul sofà. Proprio mi supplicò. E così decisi.
HUNGARIAN RHAPSODY doveva continuare.

Esultammo. Brindammo e poi io aprii il freezer contentissima per aver ritrovato il mio equilibrio da mettermi a scrivere al più presto, e a turno sul sofà ci impallinammo il culo infilandoci uno ad uno una mezza chilata di piselli a testa.

HUNGARIAN RHAPSODY doveva continuare.




HUNGARIAN RHAPSODY
Autobiografia di un libertino.
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