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007 PADRE GORAN. L'ORACOLO DELLE RONDINI


di CUMCONTROL
18.09.2019    |    8.856    |    21 7.0
"Dolcemente poi, di ciò che rimaneva, io deglutivo assorto ogni restante di lui..."
Ho vissuto per anni in monastero alle porte di Ginevra, per ricevere una educazione degna della buona borghesia romana, come era di consuetudine a quel tempo.
Ma la verità fu che mia madre scelse di disfarsi di un figlio divenuto scomodo per l’armonia familiare.
Mia madre giudicò d’un tratto “immorali” le mie attitudini “contro natura”. Per via di una sua mai risolta frigidità, se mamma si dimostrò compiacente nei rapporti incestuosi intrattenuti con mio padre, di contro non tollerò che in quelle comunioni tra consanguinei io mi lasciassi catturare da arditi sentimenti per lui.

Le persone ritengono che certi crimini rappresentino un carattere distintivo delle classi sociali meno abbienti. La verità è che certe empie comunioni carnali sono largamente praticate anche in famiglie di tutto riguardo e di invidiata rispettbilità.
La differenza consta nell esercizio di una certa “discrezione”, più risoluta nella buona stirpe, più transitoria nelle classi volgari.

Mia madre optò dunque la soluzione finale di una “rieducazione” ed impose la mia permanenza in un istituto sul lago di Ginevra, presso un ordine di prelati che solo in seguito la magistratura italiana e quella elevetica smantellarono del tutto.
Già il Vaticano anni prima aveva disconosciuto il dicastero di quest’ordine oscuro, ma le vicende giudiziarie balzarono agli onori della cronaca solo dopo le prime testimonianze degli scampati da quella “rieducazione” che raccontarono al mondo le cronache immorali subite in quel luogo.
Era il 1977, forse qualcuno ricorderà.

A pochi mesi dal mio ingresso in quell’immenso edificio nascosto tra gli alberi secolari di boschi maestosi attorno alla città, potevo dirmi succube delle sfrenate brame serali di quegli individui. I preti, sedicenti tali, erano assai zelanti nell’esercizio delle loro funzioni educative, ma alla sera, dopo i vespri, presso il refettorio queste loro brame si scatenavano in orge a carico di noi ragazzi.
Ogni infamia si consumava in quella mensa. Occorreva presto mostrarsi consenzienti a certi abusi, perché le pene inflitte ai reticenti erano davvero atroci da sopportare, e non escludo, col senno del poi, che certe sparizioni o certi “incidenti”, non fossero dovuti alla impazienza di certi irragionevoli giovinetti o al caso accidentale, ma che dietro questi eventi si celasse in realtà la regia occulta di quel nugolo di uomini aderenti ad una nobile dottrina, ma il cui fine ultimo era di rallegrarsi a danno dei sottoposti.

Questa gente dimostrò nei miei riguardi un particolare accanimento, poiché la mia virilità sia pur tardiva era esplosa in pochi mesi con prepotenza.
Ero forte, ero agile, mediterraneo d’aspetto e la mia schiena, il mio genitale, la mia nuca, i miei lombi fino alle natiche, suscitavano in loro appetiti sfrenati.
Questa gente dopo i vespri si drogava e si alienava nelle pratiche più turpi. Diventavano altro da quei morigerati individui delle ore di lezione, e i loro membri restavano tumidi per lungo, lunghissimo tempo, quando in refettorio tutto si trasfigurava in deliranti festini pagani, sacrileghi e dionisiaci.
L’accanimento per me era tale che venivo spesso seviziato in refettorio insieme agli altri ragazzi, ma con la differenza che questo accedeva tutta una notte, fino ad obnubilarmi la mente per tanto strazio.
Ma ciò che accadde una notte fu troppo.

Sanguinai dal retto, ed il dilavare del mio sangue lungo le cosce vacillanti non inibiva affatto gli ardori dei miei fottitori che a turno, ed in molti, si succedevano ancora più attizzati, per cui mi ribellai e tentai una fuga cieca, convulsa, forsennata, ma fui riacciuffato e trascinato alla sedia contro cui giacevo piegato da ore per prestare loro i miei favori retroattivi.
Singhiozzai, mi disperai, fui barbaramente percosso e fui forzato nuovamente da quei falli che premevano insolenti contro la mia fessura richiusa.
Ma la cieca tenacia di questi uomini fu innegoziabile. Fu in quegli attimi tremendi cui mi parve di morire sopraffatto dall’anossia di un cuore impazzito, che un prete esasperato dalle mia disperazione giunse in refettorio ormai semivuoto e mi liberò finalmente da tanta disumanità.
Mi trascinò via, ed io fui così ottenebrato dalla mia disgrazia che mi lasciai trascinare per il polso e correvo con lui malfermo luogo le penombre gotiche di quel regno.
Entrammo nella sua stanza del mio salvatore.

Quest’uomo era Padre Goran.

Goran. Uomo della montagna nella sua lingua. Un macedone di 43 anni da poco arruolato dal direttore nel corpo dei docenti. Era il nuovo docente di meccanica.
Goran. Occhi profondi, cupi e pur lucenti. Aveva labbra guizzanti di luce, ebbre di una sensualità generosa, aveva l’incarnato promettente e un vello corporeo di un color vermiglio che si infiammava sulla barba folta, disegnando nel volto le sembianze clementi di un dio generoso.
Da quel momento fui sotto la sua protezione. Con lui ero al sicuro mi disse. Egli godeva della considerazione del direttore, un vecchio già avanti con l’età eppur laido, corrotto, dissoluto e pervertito.
Correva voce che anni prima Padre Goran fosse stato il suo “prescelto” con cui si sollazzava di notte in acrobatiche concessioni rettali, prima che “l’uomo della montagna” decidesse di chiudere quel rapporto insano. Finì dunque altrove, forse per ritorsione o forse perchè ripugnato dalle immorali vicende di quell'istituto di cui il vecchio ne era regista compiaciuto.
Goran era tornato molti anni più tardi nello stesso monastero che aveva lasciato. Fu per volere dello stesso direttore, che in questo riavvicinamento confidava in un “ritorno” del suo amato. Non fu così.

Goran. Uomo della montagna nella sua lingua. Mi salvò dalla dannazione eterna di quella notte in refettorio, donandomi il riparo di lenzuola candide e il tepore un camino acceso. E così le maglie di lana furono levate via di corsa e un abbraccio caldo, caldissimo, mi avvolse fino a convolare tra morbide coperte di lana.
Mi distesi in attimi d’eterno. Il suo petto dischiuso per me fu origliere primigenio di una vita prenatale, amniotica, e la mia guancia godette del tepore di quel vermiglio di pelo brillato solo da una sottile coroncina d’oro.
Mi strinse fino all’alba e mi baciò il capo standocene distesi, ed io, avvinto dalla paura e intimidito dalla circostanza, accennavo carezze sul suo ventre richiuso su di me. Era respiro di vita il suo.
Sussurrò la sua maledizione su quegli uomini ignobili, ma io non seppi proferir parola. Restai in silenzio mentre il riparo delle coperta nascose al mondo qualcosa di invisibile.
La gamba abbarbicò la mia anca per proteggermi forse dalle fiere della notte che abitano gli incubi dei dannati.
Sentivo il palpitare del membro contro mio ventre. Era irrorato ma se ne stava racchiuso nelle morbide mutande di latte e cotone. Allora mossi timido con le labbra nella ricerca del suo capezzolo, quasi a cercarne le secrezioni saline cui nutrirmi come cucciolo di essere umano, ma poi sfinito andai a riposare nell’alveo sicuro sotto il suo pomo d’Adamo.
Di quella notte ricordo il soffio del vento e il crepitare delle faville; sento ancora il suo respiro, rievoco i caldi malleoli e poi la rincorsa delle mani, e la sua mano posata dolce sul mio capo arreso.

I giorni che seguirono furono per me il bagliore primordiale che si accese sulle vette del mondo.
Nei giorni che seguirono, Padre Goran manifestò nelle aule un distacco quasi regale, per non suscitare le ire e i timori avversi di un laido direttore che potesse sospettare dell’intesa clandestina tra me e lui.
Quando invece alla sera eravamo finalmente soli, tutto si gonfiava di una luce celeste. Nella sua stanza, nei pleniluni alpini al di là delle invetriate, mentre in refettorio i gorghi delle basse cupidigie ingoiavano i corpi di poveri innocenti, io mi consumavo tra le fiamme di ambizioni titaniche.
Egli mi sottraeva dall’abominio di quel refettorio. Dopo la cena, quando l’orgia serale aveva inizio, aveva cura di avvicinarmisi, e per mano mi conduceva oltre il rigurgito delle colache, dove corpi senili banchettavano sudici sui corpi freschi di poveri sventurati.
Correndo via dall’inferno, noi andavamo a dissolverci nei bui corridoi fino alla sua stanza.

Le prime notti furono l’esperienza per me nuova di parole sussurrate e di flebili carezze, le prime della mia vita.
Padre Goran ignorava il mio genitale ma questo non mi spiaceva affatto, ed ebbe cura di non penetrare i miei recessi perché io potessi guarire dai danni rettali subiti.
Nei pleniluni, ove la luce dell’astro candeggiava su pareti e lenzuola, egli si lasciava cercare tra gli abiti dismessi, perché la mia lingua si avventurasse tra le sue valli più profonde, perché esplorassi i boschi di vello vermiglio fino alle foci recondite, che nessuno ebbe a violare prima di me.
Quando per la prima volta invitai quell’uomo ad accosciarsi sul mio viso, io ebbro d’amore affondai la lingua umida nel solco di un salino edulcorato delle sue natiche, ove la sua anima bonaria e virile sussultava nelle convulsioni dei tendini e delle membra avvinte.
Con l’approssimarsi delle albe io non esitai ad appagarmi dei suoi timidi e traslucidi secreti che l’uretra fremente mi porgeva come polla di sostanza sorgiva.
Ma la sua ansietà tracimava nelle convulsioni del cuore a mano a mano che spremevo i corpi cavernosi e le grandi gonadi. Egli sedeva sul mio petto e così lasciavo che il mio capo restasse sempre di più nella morsa delle sue cosce.
Poi puntando sui ginocchi egli si inarcava sul mio volto fino a reggersi guerriero alla testiera del letto. Nel moto dell’uomo e nella spinta dei reni, io giacevo sopraffatto tra i guanciali disfatti e quel quel corpo grandioso confitto nella bocca mi tracimava di uno schiumoso orgoglio. Aprivo le mie gambe mentr’egli percuoteva la mia gola umida, restavo avvinto sulle lenzuola madide e le mie dita corsero a sondarmi la fessura che vellicai con ansia.
Ero smanioso di una guarigione che d’un tratto sentii vicina. Pregai con la bocca tracimante all'imminenza del giorno in cui il mio corpo sarebbe stato interamente suo.
Egli fotteva ancora le fauci e la gola, instancabile, ritmico e torvo, eppure così bello. Mi appariva ora feroce ora soffice, ora erompente di energia taurina ora inquieto nell'impeto dei reni.
Poi mi afferrava la testa e le vene reticolate del membro pulsavano, e allora capii che l’amore liquido stava per farsi strada, e le mie mani accorrevano frementi sui suoi fianchi, poi delicate le mie dita si posavano sui lombi, tondeggiavano sui glutei spremuti e infine si afferravano salde alle creste iliache calcando nel ritmo già così spinto perché il nettare mi fosse riverso copioso dalla gola al ventre.
Fu il tumulto della sborra. Era bello vederlo sudato mentre inarcava di scatto la schiena, tenendosi saldo alla testiera del letto, poi mi schiantava col pube ai madidi guanciali e tutte le notti la mia anima detonò nella bocca del suo salino albume.
Dolcemente poi, di ciò che rimaneva, io deglutivo assorto ogni restante di lui.

…………….

Era il mio uomo. Lui sprofondava così esausto al mio fianco. Com’era bello vederlo tornare dai mari perduti dei suoi orgasmi, poi mi sorrideva nell’affanno, e si voltava di schiena al mio fianco a guardare con me la luce della luna. Allora andavo a posare il mio capo sul suo ventre, tacito e felice con la bocca ancora madida di lui.
Attendevo la sua tregua, il respiro regolare, gli ultimi spasmi dei tendini, ed in fine mi arrendevo anch’io sul mio guanciale umano, mentre la sua mano protettiva tornava a posarsi sul mio capo.

Fu in una di quelle aurore che io mi sentii avido d’amore. Capii che fino ad allora io non avevo mai compiutamente amato.
Ma volevo dargli di più.
Dovevo solo guarire.

…………….

Il grande giorno giunse tre mesi più tardi.
Era estate e finalmente tutto tornava a risplendere. Fu il giorno più bello e sinistro della mia vita.
Ecco ciò che accadde e mai più io rivissi l’esperienza di essere vivo. Prepotentemente vivo.

Era l’intervallo dell’ora di pranzo e avevo deciso di saltare il pasto in refettorio. E così, avevo deciso di passare in cucina per prendere del tè che intesi portare al mio uomo. Si. Poteva dirsi a pieno titolo il mio uomo.
Padre Goran beneficiava del giorno di riposo e se ne stava nel suo laboratorio che era stato ricavato in un capanno. Il laboratorio si trovava alle spalle dell’istituto, oltre il parco, oltre il belvedere da cui si scendeva con una scala di pietra lungo un declivio fino al lago.
A metà della scala si apriva tra le fronde un pozzo di luce che giungeva grazie ad un momentaneo diradamento degli alberi.
Vidi il volteggiare di rondini. Il loro volo era frenetico, troppo frenetico. Poi udii un garrito, uno strido lacerante e sul mio capo saettò una rondine che mi parve ferita per quel suo volo irregolare, zigzagante e troppo a bassa quota. La bestia andò a tuffarsi nel folto di un ginepro.
Una manciata di attimi dopo sfrecciò sulla mia testa un secondo uccello. Poteva dirsi una colomba, ma la velocità del volo fu tale che anche la volata saettante di quella bestia mi lasciò turbato perché non avevo mai visto colombe così veloci. La colomba finì come un missile nello stesso ginepro.
Stavo per riprendere la discesa e udii uno strido lacerante e dal ginepro vidi uscire la colomba che mi ripassò sul capo. Riconobbi il becco della rondine afferrata da artigli e mi atterrì quel senso di impotenza nel vedere la bestiola stretta nelle mani non già di una stupida colomba impazzita, ma di un rapace che la portava via verso un altrove.
Era un falco. Avevo assistito ad una predazione.

Scesi di corsa la scala. Ero sconvolto ed ecco che vidi Padre Goran. Lo vidi chino di schiena con una felpa ed un costume da bagno. Indossava dei sandali ed era intento a riparare un vecchio motore che si apprestava a montare sulla carena di una piccola barca.
Si voltò, si sollevò e mi sorrise.
- CUM, cos’hai?
- Niente. Credo di avere assistito alla predazione di un falco
- Qui ce ne sono tanti, è la stagione
- Si ma è tremendo.
- Lo so, ma è la natura.
- Si ma è tremendo comunque
- Già... Ho parlato con il direttore
- Per cosa?
- Per il pomeriggio, sei dispensato dalle lezioni e dovrai darmi una mano a provare questo motore.
- Intendi che potrò restare con te?
- Intendo che mi dovrai aiutare.

Il mio uomo posò la tazza del tè ai piedi di un bosso e spinse lo scafo verso la riva. Vidi i glutei nel costume nero, vidi i riflessi di luce sulle natiche e quelle gambe audaci, e mi suscitarono un desiderio per me nuovo di penetrare la sua carne viva.
- CUM non stare lì impalato, devi darmi una mano
- Scusami, certo, aspetta, ti aiuto.

Spingemmo entrambi nell’acqua e finalmente salimmo. Egli mi ingiunse di restar seduto e si diede un gran da fare ad azionare quel motore che si accese finalmente con somma gioia di entrambi.
Prendemmo il largo. Dalle fronde arboree io mi lasciai bagnare dalla luce del sole che timido luccicava tra le sommità dei gelsi, poi sbucò ad inondare l’iridescenza azzurrina dei petali di agapanto nascosti tra le rocce, per poi risplendere solenne nell’azzurro pulito sopra le vette e dorando le acque increspate in milioni di perle di luce.
Io restavo seduto di schiena alla prua con le mani ben ferme ai bordi della chiglia, e stavo a fissare quell’uomo dalle gambe così sicure mentre se ne stava a maneggiare il motore. Lui indirizzava lo scafo verso le acque aperte del lago, e tutto divenne irreale, distante.
Ero abbagliato dal sole ed io non vedevo che lui, quell’uomo accosciato sull’asse che mi sorrideva benevolo e mi suscitava in quel sorriso una gioia celeste. Pura.
Mi strinsi tra le spalle.
- Cosa c’è CUM, hai freddo?
- No, no, scusa.. è che..
- E’ che?
- E’ che….
- CUM, va tutto bene?
- E’ che sto bene. Sono felice.

Dai miei occhi guizzarono due lacrime, ed egli allora spense il motore, si sollevò, mi venne in contro e venne ad abbracciarmi sorridendo con gioia. Dondolammo nella quiete delle solitudini lacustri. Il mio pianto attutito dalle sue vesti così incerte e pur sensuali commosse forse l’uomo che mi riparava dal mondo, ed il suo petto sprigionava un calore che non aveva nulla di umano, era sovrannaturale come… come una sovrabbondanza di vita trasfusa.
Sentii il dovere di farmi custode di quella vita e in quell’abbraccio io seppi leggere col senno del poi il suo dono più grande. La vita.
Era come se in quell’abbraccio sulla superficie degli abissi io riconoscessi la purezza d’un tempo e nello stesso tempo, l’amore per ogni cosa animata e inanimata di quel creato di cui lui, Padre Gornan, ne era parte.

Ero dolcemente dipendente da lui. Mi sentivo invincibile e pur così vulnerabile. Ogni cosa per me poteva dirsi degna del mondo per il suo stesso esistere. Il mio amore era per me inspiegabile, trascendeva da ogni cognizione umana, eppur poteva dirsi naturale. In me si stendeva la limpida equazione celeste delle matematiche di Dio.

- CUM, amore mio, stenditi, più giù, ancora più giù, bravo così.

Non dissi nulla, mi adagiai sul fondo della chiglia e mi lasciai baciare. Vidi la sua massa scura in controluce che mi sovrastava, intenta a levarsi via la felpa per esibirmi spalle poderose e braccia forti spogliarmi del tutto.
Come femmina io aprii le mie gambe e lasciai che Goran si bagnasse i polpastrelli per poi cospargere le sue sostanze nell’anulare recondito delle mie carni. Poi mi baciò a lungo e le dita massaggiarono la porta ed io pulsai nei fremiti dell’attesa. Egli calò il costume, io chiusi gli occhi porgendogli il ventre e con dolcezza forzò gli sfinteri.
- Ti faccio male CUM
- Un po’
- Non sei guarito ancora
- Ti prego, continua
- Fermami se proverai dolore

Aborrivo dal dolore per natura e per piacere. Per lui mi resi accessibile al dolore sommesso dei singhiozzi, soffocati dalle sue labbra. Erano aulenti bacche di ginepro le sue.
Spinse di reni e finalmente fu dentro. Le spinte dei lombi cancellarono i fantasmi della mia battaglia quando il silenzio ebbe luogo intorno a me.
Udii lo spasmo delle piccole onde tranquille contro la chiglia battere sotto di noi, udii il suo ansimare e udii ancora rondini lontanissime vaticinarmi sussurri inafferrabili come responso delle sibille. Pensai alla povera rondine portata a morire in un altrove. Ma poi tornai alle membra arrese, a quel suo membro confitto che si agitava.
Ebbi nel dolore di quel suo moto incessante un senso di struggente addio, ma di un addio che non seppi decifrare nel tempo dovuto, perché nel mio ventre prese ad albeggiare un piacere profondo, intenso, robusto.
Supplicai di andar più forte ed il mio uomo arruolò ogni tendine e muscolo e arto per spremersi dentro di me. Mi batteva forte. Vidi il mio genitale arreso scuotere inerte e provai un gonfiore profondo dentro di me che mi fece schizzare di precum ed urina. A quello spettacolo Goran chiese di liberare la vescica, e cosi mi abbandonai supino sul fondo della chiglia nei getti convulsi che istigarono l’ impeto taurino del mio vero uomo. Giacevo nella mia stessa pozza ed il suo corpo si intingeva di mio.
Egli resse le mie gambe divaricate e batteva vitale gli istinti della creazione. E quando fu prossimo di dare atto di riversare i secreti della cieca specie nell’ansa infeconda del mio ventre, allora io feci cenno perché sfrangiasse il suo maglio di carne, e mi raggiungesse nella gola ove schizzarono copiose le dense materie di una vita umana.
Bevvi, come non avevo mai bevuto.
Egli nel farlo mi accarezzo’ la gola con il dito.

Poi si accasciò su di me. Giacevo a gambe divaricate con lui conchiuso sulla mia figura, mentre il mio retto seguitava nelle avide pulsazioni. Gli massaggiai la nuca e mi abbandonai al suo respiro caldo dispiegato sul mio collo.

Fui felice e libero, e turbato dal falco e dalla rondine, e di quel turbamento che tardava ad estinguersi.
Riflettevo, restavo vigile a che lui non avvertisse il mio meditare. Riflettevo su quella misteriosa sensazione che fu come un lampo nel cielo del pieno amplesso. Fu quella sensazione di addio che provai nel mio cuore a risuonarmi fulminea come presaga di un imminente abbandono, come di una separazione. Come di una morte imminente.

Non volli pensare. Io stavo vivendo.
Ma….

Ma la vita ci ammaestra a morire, e lo fa tutti i giorni. Le sinistre intuizioni non ci raggiungono mai a caso.
Se la morte ci appare come lontana da noi come una remota anomalia della vita, essa tuttavia ci gira intorno, e portandoci via la vita degli altri, essa dimostra di portarsi via anche buona parte della nostra, di vita.
E lo fa per sempre.

.................. Al mio Goran.




HUNGARIAN RHAPSODY
Autobiografia di un libertino.
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