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Gay & Bisex

008 O . B . L . I . V . I . O . N .


di CUMCONTROL
02.10.2019    |    4.719    |    10 7.3
"Abbassai l’elastico e la massa di carne svettò dura..."
L’amore vero è il primo graffio di luce nel cielo azzurro della prima gioventù.

Il resto è sabbia.
Almeno lo fu per me. Dico questo perché negli anni a seguire non rivissi più emozioni così potenti. Emozioni pure, titaniche, potenti.
Prepotenti.
La vita mi ha predestinato certo ad altri amori negli anni della maturità, ma mai come nel primo, io ho trattenuto nel sangue le folgori assolute di quell’incanto vissuto in una primavera immortale.
Ero innamorato, si. E a rendere tutto così bello nella mia favola innocente fu la clandestinità di un rapporto vissuto dentro un istituto di rieducazione. Una favola perfetta.
Nessuno era al corrente che tra me e padre Goran potesse esserci un rapporto così autentico. Lui era di vent’ anni più grande di me, e la sua età anagrafica rispetto alla mia, mi suscitava come un senso di protezione.
Ero piccola chiglia dalle vele rigonfie che rinunciava al mare aperto, preferendo al dispiego delle rotte, le coccole amniotiche di piccoli fiotti di una darsena premurosa chiamata Amore.

Era estate. Era l’ora della pausa, e sedevo su di un masso del grande parco di quel mio istituto, diradato e pago del mio sentimento per il mio amato. Andavo spesso a sedermi su quel masso, per rifarmi del ricordo della notte prima, al pensiero delle carezze del mio tutore, della passione clandestina, delle dolci parole sussurrate.
Rinunciavo al pranzo, e correvo nel bosco a sedermi su quel masso. Ero felice, e respiravo a pieni polmoni la luce maculata della selva cresciuta alle spalle della gotica costruzione di quei miei beati anni del castigo.
Udivo il fremito dei larici, e mi illudevo che il loro canto fosse orchestrato dal vento solo per me. Ero come un bambino, stupito dell’opalino mutevole delle acque del lago che filtrava azzurro tra i fitti fusti del bosco, e mi accoccolavo tra i tremiti della mia schiena, perduto in un amore immortale.

Tutti i giorni all’ora di pranzo, il mio uomo, padre Goran, se ne stava nel suo laboratorio, presso un capanno di legno sul ciglio del lago, ai piedi di un declivio erboso del parco di questo nostro istituto.
Prima di raggiungerlo, io mi fermavo a pochi passi da quel capanno per godere con tutti i miei sensi quell’ empireo fulgente di foglie, di brezza e di lago.
Mi arrendevo ai pensieri della notte prima, dopo i conficchi resistenti delle sue potenti smanie, quando gli spermi guizzavano nel mio ventre ancora avido di lui.
Era un ginnasta, era maschio e negli spasimi del mio retto io mi avvinghiavo a lui come una femmina. Il suo petto di vello vermiglio ficcava nel mio sangue la smania dei morsi. Le carni essudavano gocciole di una rugiada salmastra, e se di me poteva dirsi la femmina, di lui si enunciava il principio del funzionario della specie, un essere preposto nella carica dei lombi e nel genitale confitto, a generarmi in grembo l’illusione del parto.
Nelle folgori grandiose io deflagravo a lungo sotto di lui in orgasmi titanici stringendo le lenzuola.
Era un deliquio il mio, che mi legava fatalmente a quell’uomo imponente, come ad esito preciso di matematica perfetta che mi rimandava pago alla genesi del mondo.
In una parola, ero felice.

Un giorno entrai in laboratorio ma non lo trovai. Allora cercai lungo la rena del lago, salii sul ciglione più ripido e vidi la goletta del mio uomo nelle acque lontane. Stava provando la tenuta all’acqua di una carena disegnata da lui.
Peccato, mi dissi. Avrei voluto esserci anch’io. Ma poi a pensarci bene come avrei potuto, in meno di un ora sarebbe incominciata la lezione di nuoto con padre Oblin, un prestante istruttore polacco di origini russe giunto da poco in istituto.

Avevo un atavico terrore dell’acqua nonostante fossi coraggioso a superare l’ansia che mi dava, e padre Oblin si dimostrò tuttavia paziente nei miei riguardi, anche se talvolta mi seduceva con quella sua corporeità e quella sua intenzionale cupidigia negli occhi.

Padre Oblin aveva una complessione tarchiata, un fare sicuro e muscoli in lega di titanio. Aveva tendini tesi come corde di acciaio alle braccia e alle gambe vigorose e in acqua era bestia anfibia. E’ inutile riferire che tanta vigorosa corporatura non poteva non esplicarsi ugualmente nei volumi del suo basso ventre, dove il costume lucido cedeva ad una massa genitale che incuteva sgomento, sevizia e concupiscenza.
Ma questa sua apparenza così piena si dissolveva nell’acqua nella celerità di una mangusta. Aveva negli occhi una luce cerulea, feroce, a tratti sinistra. Avvolte mi pareva che quegli occhi restassero aperti sul mondo come a guardare un vuoto che gli stava davanti, e questo mi metteva molta soggezione. Era di poche parole, e aveva come una impervia natura umana nella cui vacuità apparente del suo sguardo potevano dimorare oscuri propositi dormienti. La sua presenza e la sua vicinanza, così come il suo tatto quando mi spiegava le tecniche della buona bracciata, mi suscitavano insieme tormento e disagio di una violazione. Temevo di restare impigliato nella geometria tesa dal ragno e cedere all’infedeltà.
Dov’era il mio Goran. In quei momenti io pregavo che venisse a chiamarmi. Io non volevo, mi sentii come carnalmente soggiogato in desideri notturni indicibili, e chiesi al buon dio di conservarmi forte al cospetto di insane corruzioni.

Un giorno ero solo in piscina. Nuotavo per tenermi lontano dall’ansia. Si che in fondo alla vasca vidi annebbiata dall’acqua la figura di padre Oblin che aperta la porta s’era fermato sul ciglio della piscina. Egli si denudò dei suoi abiti, mostrò l’arroganza delle sue forme in costume nero, si tuffò, e nuotando al mio stesso ritmo mi raggiunse. Non dissi nulla. Egli nuotando mi guardava con sorriso compiaciuto. Davamo bracciate sincrone. Risuonava solo il silenzio delle nostre bracciate in quel luogo desertico.
Nuotavamo come due bestie marine, lentamente… fatalmente. Ecco…. ecco che mi accorsi che egli disperse nell’acqua la propria urina, ed io provai una sensazione strana, fui avvolto nel calore di quella sua sostanza dispiegatasi nell’acqua, e quasi non persi i sensi per il deliquio di una sensazione stravagante e pur ardente che ancora oggi non saprei decifrare. Poi con la forza delle sole braccia balzò sul cordolo, indossò l’accappatoio, mi guardò ancora con quel suo ghigno che non scorderò mai, e sparì dietro la porta.

Naturalmente non ne parlai con Goran di quel mio stato d’animo. Mi sentivo un criminale.

Padre Oblin era consapevole delle percezioni che mi suscitava la sua vicinanza, ed appresi solo in seguito che nelle orge in refettorio che ogni sera avevano luogo in istituto, costui mi cercava tra le gozzoviglie, tra i corpi rivolti e tormentati dalla lascivia dei nostri tutori.
Egli voleva approfittare di me, perché io gli concedessi i miei favori retroattivi, così come ogni tutore della nostra educazione si aspettava da noi ragazzi dopo i vespri in refettorio.

Si informò sul mio conto. Fu messo a conoscenza del mio ruolo di “prescelto” da padre Goran.
Scegliersi uno di noi per farne un uso “privato” era una facoltà ammessa nel rigorismo delle orge, per cui i nostri tutori potevano separare un compagno di giochi e ritirarsi nella propria cella per sollazzarsi una notte o settimane intere.
Nel privato di queste loro alcove i più dissoluti scatenavano i sadismi più efferati e c’è chi incappava in esperienze persin più tragiche come il povero Marcello, un ragazzo della mia stessa età, originario della bassa mantovana, che vidi uscire una notte piangendo dalla disperazione. Usciva dalla cella con le mani davanti al viso quasi a volerlo nascondere. Correva nella sua stanza quel poveretto, con il viso totalmente ricoperto di deiezioni umane.
Era legittimo dunque praticare su questi prescelti le più dissennate ambizioni sessuali.
C’è chi invece approfittava di questi ragazzi con più benemerita misura, mostrando loro una qualche forma di riguardo e preferendo amplessi zuccherini alla più sfrenata lascivia.
Dunque non c’era da stupirsi se da qualche tempo non fossi presente alle orge in refettorio, anche se qualcuno iniziò a fiutare ciò che realmente si nascondeva nei ritiri privati tra me e padre Goran. Iniziarono a girare voci di un imperdonabile affare sentimentale in quel gioco delle parti.
E padre Oblin ebbe un ruolo determinante a svelare a quel mondo ciò che di noi si andava vociferando.

Ero terrorizzato, era come se la verità dilagasse oltre la porta della nostra stanza ove ad origliare non erano le mute effigi di pietra del convento, ma esseri umani, dei più spregevoli.
Una notte ne parlai con Goran dopo aver fatto l’amore. Biascicavo parole confuse per via della bocca madida di quella sua albuminosa sostanza testicolare dopo l’orgasmo.
Percepì la mia paura. Egli conosceva il mio timore di un ritorno imminente nello sfrenato carname del refettorio. Goran mi disse di non preoccuparmi, che fino a quando egli sarebbe stato in quell’istituto, a me non sarebbe capitato nulla.
E così lo accarezzai, sfiorando con le dita la sua coroncina d’oro che gli cingeva il collo. Mi afferrò per le natiche, mi voltò su di lui e ricominciammo a fare l’amore.
Mi affondò però in un modo strano. Fu violento e passionale. Sommerso tra le lenzuola gemevo nell’ impeto dei suoi reni sferzanti. Lo fece per lunghe ore, tanto che mi sopraggiunse l’ equivoco che anche lui quella notte avesse assunto le tossiche pozioni che aizzavano le brame nei festini in refettorio.
Ma poi mi convinsi che egli in fondo mi desiderava, fino al buio umido dei miei polposi abissi. Mi sussurrava all’orecchio di amarmi e mi mordeva la nuca da lasciare gli incisivi come prova di appartenenza.
In quella veemenza del coito io chiusi gli occhi, e per attimi balenavano le immagini deformi del mio istruttore di nuoto che faceva scempio di me come un giaguaro che addenta bramoso le carni della preda. Nel senso della colpa io gemevo sotto i fervori colpi dei reni di Goran.

Come siamo strani noi esseri umani. Vorremmo essere dell’uno, e vorremmo essere di tutti. La logica nel sesso sovverte il principio di non contraddizione impostaci dalla ragione.
Nelle cose del sesso, la carne vince sul cerebro e sul cuore, imprimendo a quest’ultimo le fatali ambizioni criminali. Maledii e benedii quella notte il demone di padre Oblin.
Ma io ero città protetta. Questo non poteva accadere. Non a me. Eppure dovevo darmi conto però, che le mura della città avevano già accolto inconsapevoli la somma divinità equina.
Ero città ignara, ero città in assedio.
Io ero Troia.

Provai orrore di me. Io non lo volevo. Mi aggrappai al torso di Goran e come Circe volli graffiargli la schiena. Gli supplicarmi di essermi più vicino, di non lasciarmi mai solo. Egli fece si con la testa battendomi il fallo nel ventre. Avevo paura di me.
Poi lo vidi spremersi ancora ed io adagiai finalmente i talloni tra le lenzuola bagnandomi di lui. Poi mi propose di trascorrere l’ora di pranzo con lui il giorno dopo. Una gita nelle acque lontane e sfavillanti del lago.
Mi addormentai felice. E i miei fantasmi si estinsero al richiudersi delle ciglia.

In realtà, ecco cosa accadde il giorno dopo.
Dopo la lezione di chimica, corsi in tutta fretta in cucina e preparai il consueto tè da portare al mio uomo che come tutti i giorni stava nel suo capanno.
Poi mi diressi a passo svelto lungo il bosco assaporando con i sensi lo stormire ampio dei larici, e quando giunsi lungo la costa del ciglione che dava sulle acque del lago sfavillante, riconobbi nell'opalino la figura tozza e veloce di padre Oblin.
Mi fermai a guardarlo.
Nuotava dirigendosi ai piedi del ciglione. Mi nascosi dietro un cespuglio di more e lo vidi emergere dall’acqua e portarsi sulla rena, da cui raccolse il proprio asciugamani che portò in volto. Poi si denudò calandosi il costume. Vidi qualcosa di mostruoso tra le cosce e indietreggiai spaventato per ciò che avevo visto. Fui preda dei batti violenti del mio cuore, tanto che rovesciai la mia tazza di tè sul selciato.
Misi entrambi le mani agli occhi. Mi sedetti ai piedi di un olmo e tentai in tutti i modi di sedare quel mio povero cuore sconvolto da ciò che intuivo da sotto il costume, ma vederlo fu troppo. Volli raccogliermi, e mi incantai allo stormire della brezza sugli agapanti gentili, taciti testimoni irti e ozianti sul ciglio del pendio, mentre io, perdutamente, osservavo inebetito il loro ondulare nell’incertezza dell’ indaco, che mi distrassero da quella visione, dalle smisurate proporzioni di una verga di maschio, e mi ricongiunsero alle naturali cose di un’armonia che temevo di smarrire.
Annusai l’aria, così gravida di freschi aromi di una flora gioconda cresciuta all’ombra dei larici, e poi finalmente il respiro entrò lieve ad acquietarmi nell’immobilità del corpo.
Io amavo Goran e mai avrei commesso un crimine così efferato. Il tradimento.

Mi rialzai. Mi diressi dunque lungo il ciglione non guardando di sotto e puntando dritto verso la scala che mi avrebbe portato alla capanna, allorché balzai d’improvviso. Ciò che vidi non l’ho più dimenticato.
Alla mia destra, tra cespugli di more in una plaga illuminata dal sole, c’era Oblin nudo, accosciato che come un fauno mi stava fissando. Mi sorrideva con il volto corrugato dallo sforzo.
Quest’uomo stava cacando.
Indecentemente quella bestia accosciata tra il ronzio degli insetti mi fissava facendomi segno di andargli in contro. Io fui travolto dal ribrezzo, ma le spire del fauno furono protese e mi avviluppavo a quel centro gravitazionale fatta di luce nera, cuore pulsante di un oscuro reame.
Tuttavia dalla mia parte non giungevano gli afrori di quell’empio compiersi delle cose umane, vuoi per il mio essere a sfavore di vento, vuoi per la ragionevole distanza, poco più di dieci passi.
Di quella situazione dunque ebbi nitida percezione oculare che eluse l’olfatto. Ecco perché parte di me si arrese a quella visione.
Voglio dire che la figura accosciata dell’uomo, con le pieghe di un addome concavo e gli avambracci conchiusi a tenersi i ginocchi, mi incollarono silente a guardarlo tra i rovi.
Quella peluria di satiro sulle cosce poderose che nella posa comprimevano i polpacci, smossero qualcosa di indecifrabile nel mio sottosuolo.
Osservai i suoi piedi dai tendini piantati saldi alla terra tra il frenetico vorticare degli insetti, con quella sua materia immorale lentamente consegnata alla terra dall’anulare meschino. Quella visione mi procurò indefinite ambizioni dionisiache, e quasi trascurai le proporzioni tese del suo membro spaventosamente irrorato di putrescenti cupidigie.
Ancora una volta mi fece cenno con la mano di approssimarmi a lui, e menava accosciato la sua verga mostrandomi un sorriso vischioso.
Il brusio di insetti dal dorso iridescente si dipanò tra me e lui, in migliaia di corpuscoli eccitati dagli afrori che non avvertivo, e nella il ronzare degli insetti mi parve di impazzire, poiché le mie carni esacerbate dal melmoso confondersi tra immorale e ingordigia, si richiamavano a lui come maliarda al suo demonio.
Poi corsi via. Corsi come un dissennato tra i larici e non mi voltai dietro. Corsi, corsi e mi lanciai lungo la scala che il mio Goran vedendomi trafelato depose gli attrezzi del suo lavoro e mi venne in contro.
Gli volai tra le braccia ed egli mi chiese che cosa fosse accaduto. Io singhiozzai, incavai la mia tesata nel suo petto, con le mani frementi gli aprii la felpa e affondai nel suo manto di petto. Egli fu dolce, non capiva e pur teneramente abbracciava il mio capo.
Cosa ti è successo, cosa hai visto, mi chiese. Io non volli rispondere. Avidamente leccai il suo torso e morsi la carne contratta del petto richiamandomi ai capezzoli che succhiai avidamente. Singhiozzavo dal pianto.
Egli indietreggiò alla mia spinta mentre la brama di lui incendiava le vallate arboree, le selve di larice e lo sfavillante lago di gocce di luce. Egli sorrise trovando quasi comica la mia disperata avidità ed il sangue del suo ventre però irrorò le cavernose spugne del membro che spinse le resistenze del suo costume.
Raccolsi con la lingua le gocciole della sua salina traspirazione e mi approssimai al pube mentre la cappella ingrossava, e pregna del suo lucente precum fece capolino di già oltre la linea tesa dell’elastico. Le mani mie compressero il ventre dell’uomo a palmi spalancate che arretrò ancora di passo, mentre io nella mia afflizione invocavo lui, supplice mi chinavo nei singulti implorando di non essere mai lasciato solo.
Egli non capiva eppure rispondeva alla mia gola rigonfiandosi di membro apparecchiato già per l’unione carnale.
Abbassai l’elastico e la massa di carne svettò dura. Mi si propose così orgogliosa che io mi avvinghiai con spinta feroce a tal punto che il povero Goran quasi perse l’equilibrio. Fu il bordo della chiglia su cui andò a poggiarsi che evitò l’incidente di finire sulla rena di ghiaia.
E così scosciato con i fertili testicoli gocciolanti al sole, il mio Goran socchiuse gli occhi e voltò il viso al cielo, mentre io… io a due mani gemevo con la gola ritorta.

Egli mi chiese di distenderci sulla carena della barca e acconsentii. Lui andò a sdraiarsi mentre io impiegai qualche secondo in più per levarmi in tutta fretta le scarpe, la tuta e le mutande. Sovrastai il corpo del maschio e guardandolo dall’alto con tutta la sua potenza io mi sentii perdere i sensi. Nel rossore sanguigno la verga giganteggiava davanti ai miei occhi feriti dal sole. Avanzai di qualche passo, allargai le gambe e mi accosciai sul membro che afferrai con la mano. Ebbi a inumidirmi poi le dita ma egli mi chiese di avanzare ancora fino a incombergli in volto.
Fu generoso. Mi accosciai su quel viso e provai la sua barba tra le natiche, poi dischiuse le labbra e reggendomi ai bordi della chiglia sentii la lingua vellicarmi tutt’intorno.
Mi strizzavo nel sudore alle mie natiche ed egli si abbeverava alla sua fonte menandosi il cazzo. Fu avido di me ed io bramavo con tutte le mie arterie irrorate.
Goran. Il mio Goran si era perduto li sotto e mormorava la parola amore. Io restavo tenacemente accasciato su di lui, con le braccia ripiegate e tese ai bordi dello scafo godendo del suo unguento salivare. Volli socchiudere le ciglia e restare sommerso nel mio stesso deliquio. Vibrante dalle folgori dei miei stessi fremiti, io guardai umido l’altrove dove balenavano le gocciole di luce sulle acque increspate del lago.
Ero liquido. Vaneggiavo con la lingua di Goran sotto di me, perduta nel mio recesso e mi libravo nei luoghi incavati attorno a noi. Aspirai l’aria profondamente e infine cedetti schiantandomi sul suo viso ebbro sopra cui mi aresi. Ma egli seguitò, nell’asfissia e nell’unguento salivare. In tutto questo il mio Goran aveva qualcosa di prodigioso. E volteggiavo nei brividi per le fresche selve arboree dipinte sopra il lago, dispiegai per i rialiti e i pianori, spiccai per solchi verticali delle vette nervose, e ancora più in alto, fino a perdermi felice nelle alte plaghe del cielo.

Ero compiutamente aperto sulla sua faccia quando eseguii l’alzata sulle ginocchia tremanti. Vacillavo dalle vertigini che mi parve di finire oltre il ciglio della carena.
Lo fissai, com’era bello vederlo perduto in quelle sue nitide iridi cangianti e con quella sua barba poi, di ruggine ubriaca, pregna di noi, imbevuta di saliva e sudore.
Andai di là, sopra di lui, accecato dalla voglia della sua carne di cazzo, ed umido piegai le ginocchia. Mi affondai in lui.
Ero aperto eppur lo strinsi. Posai i palmi sul suo petto e come guerriero felice cavalcai quel fascio di carne nel mio ventre. Lo sentii rigonfiarsi nel moto delle cosce, quasi che il mio ventre serbasse al suo interno una anfibia creatura sovrumana.
Allargai le braccia, strinsi le mani ai bordi della chiglia e frustai con le mie vertebre perchè il bacino si agitasse con foga. Il mio uomo disteso contrasse i muscoli e ripiegò il collo vigoroso. Dominavo il mio guerriero e con rabbia quasi gli ingiunsi di non venire, mentre dal mio labbro colava il filamento di saliva per la troppa eccitazione.
Ma poi mi chiese di restare immobile, ed io così feci, pur che gli spermi bramosi chiamassero all’appello gli spermi dormienti. Volevo spremerlo. Restai fermo nell’avvinghio delle sue braccia forti, poi lui contrasse l’addome e levò la schiena e così mi strinse la vita incrociando le braccia, si che premendo i talloni sospinse il suo fascio di carne nel retto con tale eccitazione che provai i brividi diramarsi dai lombi.
Era convulso, agitato, eccitato come non lo era mai stato e mi vibrava la verga nel retto che mi disposi a maschio sul maschio. Poi la stretta si fece così forte che mi mancò il respiro ed egli schiantò per sempre il pube alle natiche spremendosi compiutamente.
Poi ricadde.
… Il fuco aveva compiuto l’atto sulla sua regina…

Ansimavamo di bocca in bocca, di ventre in ventre e solo quando il nostro affanno si fece più tranquillo, io chino su di lui proruppi sugli sfinteri e gli spermi ricaddero ancora vivi sulla sua minchia stremata.

Allora mi sdraiai di fianco a lui nella chiglia, e insieme ammirammo il turchino del cielo chiuso nell’ogiva della nostra barca.
Mi voltai vero di lui. Esaminai con cura il ramato della barba, il rubino delle labbra ed il perlato dei denti. Sfiorai i pori del suo collo fino a disegnare la linea del pomo. I miei fantasmi non avrebbero mai più minato il mio grande amore.
Egli dischiuse le ciglia, si voltò, mi sorrise e mi propose di scendere dalla chiglia per una bella nuotata. Varcammo il bordo dell’alcova, facemmo qualche passo sulla rena ed entrammo in acqua. Ma egli volle stringermi e baciarmi ancora. Io mi voltai e mi lasciai abbracciare nelle solitudini lacustri.

Nulla era cambiato. Restando abbracciato a lui, vidi sulla cima dei larici un nembo gravido di pioggia avanzare con fronte compatto e fagocitare a mano a mano il turchino del cielo. Il bosco prese ad ansimare e guardando lo stormire agitato delle chiome, ecco che distinsi la figura sinistra di padre Oblin che spariva dietro un cespuglio fitto di more ai piedi del ciglione. C’aveva visti.
Aveva visto tutto. Aveva scoperto l’immoralità di un amore di un allievo per il suo tutore.
Si udirono i tuoni ed il nembo fu sopra di noi.
Uscimmo veloci dall’acqua. Ci asciugammo e ci vestimmo e di corsa raggiungemmo la scala per risalire il ciglione ed addentrarci nel parco fin verso l’istituto.

Quando fummo a pochi passi dalla grande porta gotica del nostro istituto, l’acqua dal cielo prese a venir giù con le pesanti gocciole presaghe. Ma ai piedi della porta, ci attendeva il direttore, e al suo fianco a braccia conserte, Oblin ci guardava con quegli iridi sempre aperti sul vuoto ma carichi di compiaciuta viltà.

Il direttore convocò subito padre Goran nel covo sinistro del suo ufficio.
E per me, mai più fu come prima.




HUNGARIAN RHAPSODY
Autobiografia di un libertino.
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