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Sottomesso in officina


di michiamanotu
25.10.2019    |    20.982    |    10 8.6
"Ci furono diversi attimi di silenzio..."
Era buio.
La luce dell’ufficio di Giovanni, all’interno dell’officina di sua proprietà, era stata spenta in tutte le sale. Solo la luce bianca del computer portatile poggiato sulla scrivania illuminava il suo piccolo e grigio ufficio di una luce fioca. I dipendenti erano stati mandati a casa e la porta chiusa a chiave. L’uomo tuttavia non era andato via come ogni sera nella sua utilitaria, verso l’appartamento di periferia in cui viveva da solo. Quella sera si era fermato all’interno del suo ufficio.
E cosa avrebbero fatto i suoi due dipendenti Massimo e Alberto, l’apprendista, se l’avessero visto in quel momento? Probabilmente sarebbero rimasti sbigottiti.
Questo pensava Giovanni, mentre, in quel piccolo ufficio, giaceva rilassato sulla poltrona mezza rotta, leggermente reclinata, totalmente nudo, con un vibratore acceso su per il culo e il cazzo duro e bagnato.
I piedi poggiati sulla scrivania, erano illuminati dalla luce del monitor che trasmetteva un porno in cui un ragazzo peloso sulla trentina era legato ad una sedia e subiva la sottomissione fisica di un silver daddy pieno di muscoli.
Giovanni era presissimo dalla visione.
Con una mano masturbava senza sosta il suo pisello duro, dalle dimensioni impressionanti, sia in larghezza che in lunghezza, con l’altra ficcava sempre più a fondo il vibratore dentro il suo buchetto peloso.
L’uomo era presissimo e quando sullo schermo il maturo venne sul viso del ragazzo, anche lui iniziò a fremere e a schizzarsi addosso numerosi fiotti di sborra bianca e calda.
Dopo qualche secondo di riposo si diresse verso il bagno e accese la luce, incontrando il riflesso del suo corpo nudo nello specchio.
Quando si guardava, l’unica cosa che riusciva a pensare era che avrebbe voluto essere diverso. Il suo aspetto da uomo forzuto, giusto un po’ in carne e molto peloso non era assolutamente male ai suoi occhi, ma era convinto che, al fine di esaudire i suoi desideri sessuali più profondi, apparire così non fosse assolutamente d’aiuto. Gli uomini dominanti che lo attraevano nei porno avevano quasi sempre partner più giovani, glabri, non troppo massicci, non troppo dotati, magari biondini. Lui non era niente di tutto ciò e la sua paura di non piacere lo aveva da sempre frenato. A quarantacinque anni non aveva ancora mai esplorato le sue fantasie di sottomissione. Certo, ogni tanto si era concesso di fare un pompino ad alcuni uomini incontrati in luoghi di battuage o sulle app, ma mai aveva lasciato che qualcuno scoprisse quel suo lato o che potesse in qualche modo toccargli il buchetto, che, difatti, era ancora vergine, sebbene costantemente trapanato da Giovanni stesso col suo vibratore.
Quella sera giunse a casa molto tardi e subito si accasciò sul letto sprofondando nel più agognato dei sonni.

“Buongiorno!”, salutò Alberto sorridente entrando in officina.
Giovanni e Massimo erano già intenti a lavorare su una macchina rossa piazzata al centro della stanza, il cui motore aveva avuto qualche problemino.
“Alla buon’ora…”, disse Giovanni sottolineando il ritardo di Alberto, che era solito fare un po’ quel che gli pareva.
Massimo gli lanciò un’occhiataccia. Odiava il modo di fare di Alberto. Quel sorrisetto furbo con cui spesso si presentava, noncurante del ritardo, lo mandava in bestia. Era solo un apprendista, eppure lì dentro faceva come gli pareva e non capiva perché Giovanni lo lasciasse comportarsi così.
“Vieni qua!”, comandò Giovanni ad Alberto. Poi gli spiego cosa doveva fare e gli fece prendere il suo posto.
Alberto era molto bravo in quello che voleva diventasse il suo mestiere in futuro e in realtà Giovanni gli perdonava tutte le sue spavalderie poiché lo considerava molto più importante dello stesso Massimo, che, non appena scoccate le 18, fuggiva via dall’officina.
Alberto invece si attardava spesso insieme al capo, portando a termine tutti i compiti della giornata a dispetto dell’orario.
In verità questo accadeva anche perché i due avevano un rapporto molto particolare, fatto di rispetto e affetto. Erano ormai anni che Alberto frequentava l’officina e Giovanni era diventato per lui un vero e proprio mentore, che il ragazzo si riservava tuttavia di trattare come un suo pari, noncurante dei vent’anni di differenza che intercorrevano fra i due.
A Giovanni tuttavia questo non importava, perché la presenza del ragazzo era ormai indispensabile sia ad un livello lavorativo che personale.

Quella sera, come al solito, Massimo andò via puntale, mentre Giovanni ed Alberto rimasero in officina per un’altra ora. Mentre erano intenti a lavorare Alberto urtò inavvertitamente un barattolo, sporcandosi la maglia del suo contenuto oleoso.
“Cazzo, Giovanni, mi sono macchiato”, si lamentò il giovane.
Poi con nonchalance si tolse la maglia, rimanendo a petto nudo.
Ogni volta che aveva occasione di vederlo svestito, Giovanni si eccitava incredibilmente.
Alberto era un tipo molto sportivo, nonostante avesse soltanto venticinque anni. I suoi pettorali erano gonfi, le sue braccia forzute e il suo torace scolpito. Il suo corpo era inoltre ricoperto di peli alla pari di quello del suo capo, che lo ammirava quasi sbavando.
Giovanni cercò di darsi un contegno.
“Dai, tranquillo, cambiati e va’ a casa. Chiudiamo domani con questo catorcio”, disse dirigendosi verso il suo ufficio.
Alberto si ripulì in fretta con un panno, si mise una maglietta bianca di ricambio, salutò e uscì.
Dieci minuti dopo la situazione era uguale alla sera precedente, tranne per il fatto che il computer stavolta era spento: a Giovanni bastava immaginare che fosse Alberto a penetrarlo, anziché il suo dildo.
Ad un certo punto la cosa però non gli bastò: aveva troppa voglia.
Prese il cellulare, aprì un’applicazione. Qualche messaggio e due minuti dopo era fuori in macchina.

All’autogrill a pochi passi dall’officina Giovanni andava raramente. Le ragioni erano due, entrambe emergenze: benzina finita o voglia di cazzo.
Oggi il caso era il secondo.
L’autogrill sorgeva in periferia, a fianco ad una piccola radura, attorniata da una rete.
Proprio in corrispondenza dell’autogrill la rete aveva un varco. Lì a fianco lo aspettava l’uomo con cui si era messo d’accordo via messaggio poco prima.
Giovanni parcheggiò la macchina, lo raggiunse e, dopo qualche sguardo i due si addentrarono fra gli alberi. Appena furono abbastanza nascosti l’uomo, un cinquantenne molto alto, brizzolato, dalla pancia pronunciata, tirò fuori il cazzo duro.
Giovanni non lo vedeva bene, ma la reazione fu immediata: si inginocchiò e lo baciò sulla cappella dura e bagnata. Un brivido gli traversò la schiena. Preso da quella magnifica sensazione combinata di rischio ed eccitazione fece subito scomparire il cazzo dello sconosciuto dentro la sua bocca, con la cappella che scendeva giù nella gola. Fu un pompino molto anonimo, ma Giovanni era eccitatissimo. Voleva farlo godere al massimo, voleva essere al servizio di quell’uomo. Ogni tanto riceveva uno schiaffetto e un suo commento di approvazione.
“Brava, troia”.
Giovanni palpitava. Il suo uccello, schiacciato dentro le mutande, implorava di uscire fuori, le sue mani cercavano il corpo dello sconosciuto, quasi del tutto inghiottito dal buio, per tastarne gli attributi maschili: i polpacci forti, i peli sul culo, le palle gonfie, la pancia da uomo adulto, il petto villoso.
Nel frattempo bocca e lingua lavoravano imperterrite.
L’atto non durò molto e dopo circa dieci minuti, l’uomo sborrò copiosamente sul volto di Giovanni, lasciandolo poi lì dopo un veloce saluto.
Passò qualche minuto, giusto il tempo di ripulirsi, e anche lui uscì dalla radura e raggiunse la macchina.
Mise in moto e ripartì, inconsapevole del fatto che occhi increduli lo stavano osservando dall’altro lato della strada.
Nella sua macchina tutta ammaccata infatti, Alberto guardava il suo capo lasciare il luogo dell’incontro.

Poche ore prima, quando Giovanni aveva lasciato l’officina, Alberto lo aveva visto. Era in macchina e stava parlando al telefono con un amico. Aveva ricevuto quella chiamata subito dopo essere uscito e si era fermato a chiacchierare senza partire.
Quando Giovanni era uscito, affrettandosi alla macchina, era di spalle e non lo aveva visto. Dal finestrino aperto Alberto lo sentì mentre registrava con lo smartphone un audio diretto a chissà chi: “Ok, all’autogrill. Sarò tuo.”
Salendo in macchina, l’uomo si era poi diretto verso una direzione totalmente opposta a quella di casa sua.
La curiosità di Alberto era troppa e lo aveva seguito, vedendo la scena dell’incontro.
Si era perfino intrufolato nella radura dietro i due.
Aveva osservato nell’ombra il pompino di Giovanni, aveva sentito l’uomo sborrare mentre la faccia del suo capo veniva riempita di sperma caldo, al buio, in un boschetto, come fosse una prostituta.
Solo che l’aveva fatto di sua spontanea volontà.
Alberto era sbigottito da quella situazione. Mai avrebbe potuto immaginare che quello stesso Giovanni che conosceva ormai così bene potesse fare una cosa del genere, che potesse provare determinati desideri. Era unito a lui da un legame che in qualche modo ricordava un rapporto padre/figlio, mentore/allievo. Anche se non lo dava troppo a vedere nutriva un rispetto profondo nei confronti di quell’uomo e non riusciva ad accettare che qualcuno potesse trattarlo in quel modo. Ma forse non era proprio quello il sentimento che provava. Non gli dava fastidio che Giovanni potesse essere attratto dagli uomini, anzi, l’erezione nelle sue mutande doveva significare qualcosa. Capì che quello che provava era principalmente fastidio. Fastidio che qualcun altro all’infuori di lui potesse averlo in quel modo, che qualcun altro potesse vedere quel lato di Giovanni che a lui non era mai stato concesso vedere.

Il giorno dopo fu tutto normale.
Alberto però non riusciva a smettere di guardare Giovanni. Non aveva mai, nemmeno per un momento sospettato nulla di lui e si sentiva stupido.
Per la pausa pranzo Giovanni e Massimo andarono a prendere un panino fuori. Alberto disse che non aveva fame e rimase in officina, lasciando straniti i due colleghi, che comunque andarono a sfamarsi.
In quel frangente si diresse verso l’ufficio di Giovanni e senza farsi grossi problemi iniziò a frugare tra la sua roba.
Trovò il suo dildo.
Poi guardò nel computer e scoprì più a fondo i suoi gusti tramite la cronologia mai cancellata del suo browser, piena zeppa di porno gay di sottomissione.
Alberto decise così che era proprio il caso di agire.

Quel giorno si attardarono nuovamente dopo che Massimo se n’era andato.
Giovanni aveva un’espressione particolarmente stanca.
Fu Alberto a proporgli di andare a casa quella sera.
“Mi sembri stremato”, gli disse, “vatti a riposare”.
“Che fai, ti preoccupi pure per la mia salute ormai?”, rispose Giovanni, stupito da quell’attenzione dimostrata dal ragazzo.
“Si”, rispose secco Alberto.
Giovanni lo guardò interrogativo.
“Sei importante per me, Giovanni. Lo sai”, disse sincero e sfrontato come al solito, anche se in verità un po’ scosso.
Si stava rendendo conto sempre più di un certo tipo di sentimenti che provava nei confronti di quell’uomo. Non capiva bene cosa fosse, sapeva soltanto che non gli stava bene che lui si concedesse ad uomini casuali. Perlomeno, che sapesse che lui era pronto a soddisfare certi suoi bisogni, prima di continuare ad andare con gli sconosciuti.
Giovanni fu sinceramente colpito dalle parole di Alberto, che mai si sarebbe aspettato.
Senza rifletterci troppo l’uomo si avvicino al ragazzo e lo abbracciò. Fu solo qualche secondo, ma per entrambi quel gesto significò molto. Nonostante questo avvenimento che poteva essere un ottimo punto di partenza, quella sera Alberto non volle agire. Voleva che Giovanni fosse più reattivo, pronto per quello cha aveva in mente per lui.
Nell’imbarazzo generato da quella situazione i due, in fretta e furia, si prepararono per tornare a casa.

La sera successiva si attardarono in officina ancora una volta.
“Ok dai, mi sa che andiamo via pure noi adesso!”, disse Giovanni intorno alle sette e mezza.
Alberto annuì.
Attese che il suo capo avesse spento tutte le luci, poi gli prese con forza un polso e lo strattonò verso di sé.
“Che cazzo fai?”, urlò Giovanni facendo la voce grossa.
“Vieni con me”, disse Alberto calmo.
“Ma che dici? Dove?”, chiese Giovanni allibito.
Alberto non disse niente, lo tirò verso di se, fino all’ufficio.
Aprì l’armadietto in cui aveva trovato il vibratore, lo prese e lo mostrò a Giovanni.
“Questo lo uso con una ragazza che viene a trovarmi ogni tanto…”, provò a discolparsi.
“Dai, per favore Giovanni. So tutto. Ti ho visto l’altro giorno, con quell’uomo, all’autogrill”.
Ci furono diversi attimi di silenzio.
“Spogliati”, disse Alberto serio e autoritario.
I suoi occhi scuri erano i soliti, ma Giovanni ci vide una risolutezza che non era più quella di un ragazzino.
“Spogliati, adesso. Spogliati per me”, ripeté, con maggior fermezza.
In quel momento Giovanni capì che le intenzioni di Alberto erano serie.
Era ora di lasciarsi andare, di mettere di lato la sua vergogna. Desiderava Alberto e, anche se inconsciamente, desiderava mostrargli come un maschio virile e insospettabile come lui potesse avere dei desideri lascivi nei confronti di altri uomini, come anche un uomo oltre i quaranta che faceva il meccanico potesse anelare ad essere sessualmente prevaricato. Senza dire una parola, Giovanni abbassò lo sguardo. Alberto lo fissava e lui iniziava per la prima volta a godere davvero di quello sguardo, adesso che le sue intenzioni erano finalmente chiare. Si tolse prima la maglietta bianca ricoperta di macchie nere, lasciando che il suo apprendista vedesse il suo busto villoso. Le sue braccia erano tozze, piene di peli, le sue spalle muscolose ed estremamente virili, segno della passata attività in palestra. La sua pancia tradiva invece la sua età e l’abbandono dell’attività fisica in favore del lavoro. Alberto aveva uno sguardo eccitatissimo, era preso da quel corpo maturo, dalle caratteristiche paterne, che non vedeva l’ora di fare completamente suo.
“Ti sei fermato?”, chiese impaziente, “Le troie stanno nude di fronte ai loro padroni”, continuò.
Giovanni arrossì in maniera evidente. Si vergognava sinceramente di essere trattato così da un ragazzo appena venticinquenne, molto più giovane di lui eppure al contempo così disinibito e inaspettatamente autoritario. Si vergognava e si sentiva umiliato, ma questo non faceva che rinforzare l’erezione, già bagnata, che aveva nelle mutande. Questo lo spinse ad accontentare il ragazzo. Poggiò la maglia sul tettuccio dell’auto rossa che si trovava ancora al centro dell’officina. Non gli importava più di nulla. In poco tempo Giovanni si era tolto scarpe e jeans, rimanendo soltanto con i suoi boxer larghi e le calze.
“Cosa non ti è chiaro del termine nudo, Giovanni?” Chiese Alberto mostrandosi infastidito dalla timidezza dell’uomo.
Non aveva più pazienza. Lo voleva.
Giovanni non disse niente, guardò il ragazzo dritto negli occhi trovando un po’ di coraggio in quella situazione che era il completo ribaltamento della loro quotidianità ormai consolidata. Cercava nei suoi occhi un’ultima certezza, un ultimo accenno del ragazzo che gli facesse intendere che di lui si poteva fidare, che quello che stava facendo sarebbe rimasto tra loro.
Alberto fece quello che Giovanni non poteva aspettarsi. Si avvicinò, lo guardò fisso negli occhi e lo abbracciò forte.
“Sei solo mio”, gli disse piano.
Giovanni trattenne un sorriso. Quel ragazzo era un adorabile impertinente. Lo desiderava, e fu in quel momento che si accorse di come, affianco al desiderio, stava iniziando a nascere in lui un nuovo sentimento, qualcosa di ancora più caldo e, forse, pericoloso.
Alberto arretrò nuovamente, mentre il suo uomo sembrava essere un po’ sbigottito. Prese una sedia, la mise vicino alla macchina e si accomodò davanti a lui, come farebbe un re di fronte a un suo suddito. Giovanni si tolse le mutande. L’enorme cazzo nascosto dentro quei boxer gonfi rimbalzò in tutta la sua venosa, bagnata e volgare erezione.
Rimase in piedi, nudo, eccitato a fissare il suo apprendista.
“Non ci siamo ancora Giovanni,” Disse lui “ho detto nudo”.
L’uomo capì che si stava riferendo alle calze.
“Per terra è lercio…” obbiettò a bassa voce.
“Ti importa di più che io goda o di restare pulito?” Chiese lapidario Alberto.
La risposta era chiara ad entrambi.
Giovanni si tolse le calze scure, poggiando entrambi i piedi sul pavimento sporco della sua officina.
“Finalmente,” sussurrò Alberto, “sei tutto nudo e solo per me”.
Il suo sguardo era davvero soddisfatto.
“Sei mio”, disse ancora.
Giovanni annuì. Era sempre più rosso in volto, guardava a terra, ma era felice.
“Inginocchiati, troia”, disse lapidario Alberto. “E ricordati che non una volta voglio che tu stia in piedi mentre sei nudo di fronte a me, a meno che non te lo chieda”.
L’uomo si prostrò. Poi fu costretto dal suo apprendista a gattonare fino ai suoi piedi. Le sue ginocchia si sporcarono di nero, così come i palmi delle sue mani. Alberto non resisteva più: prese la testa del suo superiore, che così tanto aveva desiderato negli ultimi giorni, e la spinse con forza sulla sua patta.
I pantaloni sporchi e ruvidi del ragazzo davano una sensazione poco confortevole ma estremamente eccitante a Giovanni, che era felicissimo di essere così vicino all’assaggiare l’uccello del suo Alberto.
Con i piedi, il ragazzo iniziò a torturare l’enorme cazzo di Giovanni, schiacciandolo a terra. La verga turgida dell’uomo non voleva saperne di andare giù, nemmeno sotto quei vecchi scarponcini, che in realtà premevano con una forza moderata, tradendo la cura che Alberto stava mettendo nel sottometterlo, senza fargli davvero del male. E come avrebbe potuto? Quell’uomo rappresentava ormai troppo per lui.
Pochi secondi dopo Alberto tirò finalmente fuori il cazzo. Non era né lungo né largo come quello di Giovanni, ma l’uomo sussultò comunque nel vederlo, totalmente duro e scappellato. D’istinto la prima cosa che fece fu lanciarsi sulla cappella e pulire con la sua lingua assetata le poche gocce di presperma di cui era ricoperta.
“Chi ti ha detto che lo puoi leccare, cagna?” Lo rimproverò Alberto.
Giovanni si ritrasse.
“Alzati”, gli fu ordinato.
Alberto si alzò con lui ed aprì una delle portiere posteriori della macchina.
“Qui” disse indicandone l’interno.
Giovanni, come fosse nient’altro che un cagnolino obbediente, si avvicinò alla macchina, e salì. Le sue gambe erano ormai tutte sporche e i suoi piedi neri.
Alberto andò nel retrobottega.
Furono secondi interminabili per Giovanni. Cosa stava facendo? Quando tornò fu tutto più chiaro. Aveva in mano una corda spessa di canapa, di quelle resistenti che usavano quando dovevano tenere insieme materiali e altri oggetti utili per l’attività in officina. Alberto entrò in macchina e con destrezza legò la corda intorno al busto di Giovanni, bloccando anche le braccia dietro la sua schiena.
Poi fu la volta dei polsi, che furono legati insieme dal ragazzo.
“Così impari a prendere iniziative”, gli disse. “Quello che sta succedendo adesso accadrà di nuovo”, continuò, “e voglio che tu impari adesso che in questi momenti sono io che ti ordino cosa fare. Tu sei tenuto unicamente a eseguire e fare i versi che le cagne come te dovrebbero fare. Se dovessi andare troppo oltre e ti sentissi a disagio schiocca le dita e mi fermerò immediatamente. Siamo intesi?”.
Giovanni annuì. Tutto quello che voleva fare era obbedire, presissimo dalla situazione.
Dentro la macchina l’uomo accolse il pisello di Alberto in bocca. Era legato e inerme, ma se lo godette come mai prima aveva fatto con il cazzo di un uomo. Lo leccava con avidità, lo succhiava con forza, ma l’attenzione che sprecava sulle palle, sul frenulo, sull’intera cappella dimostravano l’affetto profondo che nutriva per quel ragazzo.
Arrivò presto il momento che spaventava maggiormente Giovanni. Alberto voleva il suo culo.
“Voglio scoparti, cagnolino”, gli disse, “chissà quante volte hai dato il culo, sono un po’ geloso”, confessò poi.
Giovanni non voleva rompere il silenzio imposto da Alberto, quindi non disse nulla, non gli rivelò di essere completamente vergine. Si voltò, poggiando la testa sul sedile e portando in alto il lato b, aprendo poi il buchetto alla vista di Alberto. Il ragazzo si accorse da solo di lì a poco che l’uomo non era mai stato toccato. Questo lo eccitò ancora di più.
Non disse nulla, si lanciò con la lingua sulla zona più intima del corpo del suo amante e iniziò a bagnarla con la saliva. Se avessero avuto del lubrificante sarebbe stato decisamente più semplice, ma per Alberto fare rimming al suo uomo era un piacere immenso, così continuò per minuti e minuti. Giovanni inizialmente mugugnava, poi iniziò a scoppiare in vere e proprie urla di piacere, mentre scopriva la goduria di avere il proprio culo esplorato da una lingua calda.
Quando il pisello di Alberto fu dentro di lui il piacere si trasformò in dolore e poi di nuovo in piacere. Il ragazzo lo aveva slegato, poi aveva messo una nuova corda tra le labbra di Giovanni e l’aveva stretta sulla sua nuca, mentre gli ordinava di mettersi a novanta. Di lì a poco lo aveva lentamente penetrato, fra le urla sempre più forti dell’uomo.
Con le mani desiderose di sentire il corpo dell’uomo, Alberto stringeva i suoi fianchi e li portava con forza verso di se. Giovanni non opponeva alcuna resistenza, era stanco, eccitatissimo, in preda a sensazioni nuove. Alberto ogni tanto iniziava a tirarlo avanti e indietro attraverso la cordicella che aveva in bocca e quell’azione lo mandava ai matti.
La penetrazione durò dieci minuti filati in quella posizione, nessuno dei due voleva spostarsi e interrompere quel godimento. Alberto versò tutto il suo sperma bollente nelle viscere di Giovanni, che lo accolse senza protestare.
Tolta la cordicella, Alberto e Giovanni scesero dalla macchina e si baciarono con passione, mentre il seme caldo dell’uno scorreva pian piano fuori dal buchetto appena sverginato dell’altro.
Giovanni tuttavia sembrava voler ancora qualcosa dal ragazzo, ma, con sguardo imbarazzato fissava il pavimento.
Alberto gli chiese se ci fosse qualcosa che non andava.
“Vorrei… ecco…” balbettò Giovanni, che non trovava il coraggio di confessare il suo ultimo desiderio.
“Parla senza farti paranoie. Dopo quello che abbiamo fatto pensi ci siano problemi per me?”, lo incalzò Alberto.
Giovanni deglutì.
“Vorrei, se ne hai la necessità e ti va, vorrei…”, esitò ancora un momento prima di concludere la frase “il tuo piscio addosso.”
Alberto ghignò.
Senza dire nulla prese il pisello ormai moscio fra le mani, fece segno a Giovanni di inginocchiarsi, ed esaudì la richiesta.
Mentre veniva ricoperto dalla pioggia dorata del suo perverso apprendista Giovanni chiuse gli occhi, si prese cazzo e venne, dopo pochissimi colpi di mano, di un gusto che mai prima d’allora aveva conosciuto, sporcandosi le cosce, il petto e la pancia.

La dominazione era diventata tenerezza pura. Alberto si appoggiò sul petto di Giovanni, che lo cinse a se.
“È fuori luogo dirti adesso che ti amo?” Disse Alberto, con una riscoperta timidezza.
“Sei uno stupido”, gli disse Giovanni.
Lo baciò ancora e lo strinse più forte.
“Ti amo anch’io”, sussurrò.
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