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NEL CANTIERE DEL PIACERE


di La_Lilla
03.09.2022    |    10.066    |    13 9.6
"Poi di nuovo le mie, più forte..."
Quel giorno stavo scorrendo la rubrica telefonica alla ricerca del mio commercialista quando leggo il nome: Lina. Erano passati mesi da quel giorno in quel locale LGBT e non le avevo mai scritto. Non so perché, ma mi ero come dimenticata di lei. Certo non di quella serata. E poi c’è anche un altro fatto: non sono solita uscire con sorelline trav. Preferisco organizzarmi le mie cose da sola, senza seccature.
Decido però di inviarle un messaggio.
Le scrivo: Ciao Lina, come va? Ti ricordi ancora di me, vero? Immagino di sì. Sono Priscilla.
Ho fatto giusto a tempo di uscire dalla stanza, che sento il suono di una notifica. Vado a controllare. Mi ha risposto.
Ciao Priscilla. Tutto okay, sì. Potremmo vederci, un giorno di questi.
Perché no, le rispondo. Sempre se hai qualcosa di piccante da propormi. Con una emoticon che ride.
Ma certo che sì, cara. Posso chiamarti?
Va bene, le dico.
Mi chiama.
“Ciaooo. Volevo chiamarti anche io, il mese scorso. Poi non sapevo se ti disturbavo o cosa”.
“No, no. Tranquilla. Dimmi, piuttosto. Mi dicevi di una proposta piccante”.
“Sì… si tratta di una cosa che volevo fare da sola da parecchio tempo, però non sono mai riuscita a trovare il coraggio di realizzarla. Magari in due mi faccio più forza”.
“Di che si tratta”, le chiedo.
“Be’, praticamente, qui vicino a casa mia stanno costruendo un grande edificio. È tutto ancora allo stato rudimentale, anche se piuttosto avanzato. E, insomma, ho visto che ci sono una decina di operai…”, la sento ridere.
“Voi provarci?”.
“Sì, ma non so come. E poi non so come possono reagire”.
“Se non ci provi non potrai mai saperlo”, le dico.
“Vieni con me allora?”.
“Sì, io verrai, ma come intendi fare”.
“Bo’, non so. Intanto adiamo lì vestite da troie. Dopo qualcosa succederà, spero”, ride.
“Be’, è probabile, sì. Ma dove si trova sto posto”.
“Ti mando io la posizione, non ti preoccupare. Domani pomeriggio sei libera?”.
“Sì, penso di sì”.
“Perfetto. Ti mando la posizione appena arrivo. Io aspetto in macchina, nel frattempo”.
“Va bene. A domani, allora”.
“Sì, ciao, a domani. Sono già eccitata la pensiero”.
“Anche io”, e ridiamo.


Il pomeriggio del giorno dopo sono in macchina e mando un messaggio a Linda. Mi risponde subito inviandomi la posizione. Il posto si trova a circa quindici chilometri da dove mi trovo. Parto.
Quando arrivo, accosto e parcheggio.
Vedo Lina che scende da una macchina nera, e mi viene incontro.
Scendo e la guardo.
“Cavolo. Che mignottone”, le dico.
“Ah! Ah! Ah!”, ride. “Anche tu non scherzi”.
Mi ero messa un vestito rosso cortissimo. Dietro si vedevano i ganci del reggiseno.
“Belle scarpe”, le dico. “Altissime”.
“Sì”, fa, “spero solo di riuscire a camminare in mezzo a tutti quei calcinacci”.
L’edificio in costruzione è praticamente di fronte a noi.
“Cosa stanno costruendo?”, le chiedo.
“Bo’, appartamenti e negozi, credo”, mi fa mentre ci muoviamo verso l’entrata del cantiere.
“Aspetta”, butto là io, “non possiamo passare per di là: è un ingresso riservato a quelli che lavorano qui. Non vedi il cartello?”.
“E che me frega”, fa lei ridendo, “dobbiamo pur passare da qualche parte”.
“Secondo me ci fanno storie”.
“Ormai siamo qua. Dobbiamo andare fino in fondo. Non sei stata a tu a dire finché non ci provi ecc.?”.
“Sì, sì, è vero”.
“Andiamo, allora”, scostando una transenna.
Poi camminiamo per una ventina di metri cercando di non cadere a terra e sorreggendoci l’un l’altra.
“È un casino qui per terra”, le dico.
“Te l’avevo detto. È in costruzione”.
“Non pensavo così. Ho le scarpe sudice ormai”.
“Lei pulisci, dai. Non fare storie”, e, dopo un attimo, fa: “eccoli là sotto, li vedi?”.
Guardo nella direzione che mi indica. Sì, li vedo. Saranno cinque, forse sei, compreso il caposquadra.
“Li vedo, li vedo”, dico. “E adesso: cosa si fa?”.
“Ci avviciniamo ancora un po’, e poi ci sediamo su quel muretto là, in modo che possano vederci”.
“Okay”, le rispondo io. “Andiamo”.
Ci avviciniamo a questa specie di muretto ¬(che non è altro che una parte di muro in costruzione, o forse una finestra da ultimare, non si riesce a capire bene).
Ci sediamo.
“Secondo te riescono a vederci da quella distanza?”, le chiedo.
“Be’, come noi vediamo loro…”.
“Ma non guardano da questa parte”.
“Fa qualche rumore. Lancia qualche calcinaccio, allora”.
“Fallo tu”, le dico.
“Okay”.
Vedo che raccoglie un pezzo di muro da terra, o un sasso, non capisco cosa, scende dal muretto, fa qualche passo e lo scaglia verso gli operai. Il pezzo di cade a una ventina di metri da loro, che manco se ne accorgono.
“Dobbiamo avvicinarci”, le dico. “Così non ci vedranno mai”.
“E dove ci mettiamo. Questo è l’unico muretto disponibile”.
“Là”, le dico indicandole un paio di bidoni. “Ci sediamo su quelli”.
“Ma saranno sporchi, unti”, mi fa.
“Adesso chi è che fa la sofisticata”, le dico.
“Va bene, dai, andiamo”.
Ci muoviamo verso i due bidoni. Diamo una spolverata veloce con le mani e ci sediamo.
“Allarga un po’ quelle gambe”, mi fa.
“Ecco”, dico. “Quello ci ha visto”.
“Sì, vero. Sta parlottando con quell’altro”.
Poi li vediamo venire verso di noi.
“Signore”, dice quello più tarchiato dei due, che deve essere i caposquadra, “non potete stare qua. L’accesso è vietato. Non l’avete letto il cartello?”.
“Sì”, fa Lina, “cioè no… Voglio dire, eravamo curiose di vedere cosa stanno costruendo qui e siamo entrate”.
Quell’altro ci squadra dalla testa ai piedi. Io sono seduta e credo mi si vedano le mutandine.
“Capisco. Comunque non potete rimanere qui. Devo invitarvi ad uscire. È una questione di sicurezza. Questo è un cantiere”, insiste.
Poi quell’altro, un ragazzo sui trent’anni alto e barbuto, gli sussurra qualcosa all’orecchio.
“Aspettate solo un attimo”, ci dice il caposquadra.
Se ne vanno tornando verso gli altri operai, che ne frattempo si erano fermati a guardare da questa parte per capire cosa stava succedendo.
Io e Lina li vediamo parlottare da lontano. Siamo stra-eccitate, e penso si capiscano al volo le nostre intenzioni.
Ora vengono verso di noi altri due operari.
“Bene”, fa uno dei due, un tipo carino e muscoloso, sopra i quarant’anni. “Cosa cercate qui, voi?”.
L’altro ride sotto i baffi. Anche lui è un ragazzo sopra i quarant’anni, magro e alto.
“Volevamo guardare”, gli dico io. “Capire cosa state costruendo”.
“Anche a me piace guardare”, mi risponde lui. “E vedo che hai delle belle mutandine rosse”.
Lina ormai è in visibilio.
“Le hai viste?”, dico io, tirandomi giù il vestito inutilmente.
“Sì”, fa, sempre lui. “Ma mi piacerebbe vederle più da vicino”.
In quel momento si avvicinano e ci aiutano a scendere dai bidoni.
“Venite”, fa l’altro.
Ci accompagnano fino al resto della squadra. Ci salutano tutti e poi ci spostiamo verso una zona apparentemente inaccessibile. Invece no: passiamo, abbassandoci, dentro quella che sembra essere una finestra, e entriamo tutti in questa grande stanza con varie aperture, più o meno grandi, da cui penetra la luce.
Due operai portano dei cartoni molto grandi e li lasciano cadere a terra.
Io e Lina ci guardiamo e cerchiamo di trattenere l’eccitazione.
A quel punto uno degli operai (ne ho contati otto) si avvicina a me e mi spinge giù, poi con un gesto rapido si abbassa i pantaloncini corti e sfodera il cazzo. Me lo pianta davanti alla faccia.
“Volevi vedere questo, vero? Non il cantiere”, mi fa.
“Sì”, gli dico decisa.
“Allora inizia a succhiarmelo, vacca”, fa lui.
Intanto anche altri due, accanto a me, si sono abbassati i calzoncini e stanno cazzo all’aria.
“Succhia e smanetta”, fa di nuovo quello davanti a me, “so che sai farlo”.
Prendo i due cazzi, uno in una mano, uno nell’altra e mi ficco il cazzo di quello di fronte in bocca.
“Brava puttana, così. Smanettali”, mi fa, mentre li sego e faccio avanti e indietro con la bocca.
Lina, intanto, si sta divertendo; ma non la vedo, perché è dietro di me.
“Ammazza oh che troie”, fa uno dei due che sto smanettando. “Oggi è proprio il nostro giorno fortunato Mike” (Mike è il tipo a cui sto succhiando il cazzo).
“Puoi dirlo forte. Ci divertiremo un pezzo”.
Sembra un’operazione semplice quella di succhiare e smanettare, ma non lo è affatto: ci vuole parecchia coordinazione nei movimenti e non sempre mi riesce al meglio; infatti rallento con la mano sinistra, per esempio, per affondare in gola il cazzo di Mike che si è fatto ancora più duro e teso, e come risposta il tizio alla mia sinistra mi dà un forte schiaffo sul culo.
“Non fermati, troia”, dice.
Riprendo a menargli il cazzo con la sinistra; cerco di stringerglielo ma non ce la faccio: mi sembra di avere un’asta di spesso acciaio caldo in mano. Ha il cazzo grosso e io ho le mani piuttosto piccole, sicché non riesco neanche a farci il giro completo con le dita.
Quello alla mia destra per ora non si lamenta mentre Mike mi tiene la testa in modo di impedirmi di sfilarmi il cazzo di bocca.
In quel momento sento uno dietro che mi lecca il buchetto. La cosa mi manda in estasi e inizio a smanettare velocemente i due ai lati.
“Dillo”, mi fa Mike, permettendomi di liberarmi la bocca dal cazzo e lasciandomi respirare. “Dillo cosa sei”.
“Sono una vaccaaaaa”, grido.
“Proprio così”, dice lui. “una vacca”.
Sento la lingua di quello dietro entrarmi nel pertugio anale. Me lo sta inumidendo per bene.
“Penso che sia pronta”, dice.
E poi lo sento appoggiare la cappella sul buco umido.
“Sbattiglielo dentro alla puttana”, gli dice Mike e quello, non facendosi pregare, me lo ficca dentro fino alle palle.
“Pompala per bene”, gli dice quello alla mia sinistra, mentre io, con la pisella che sbrodola, lo sego a mille.
Ne ho quattro attorno e mi sento proprio una troia. Meraviglioso. Quello dietro ci sta dando dentro non risparmiandomi i colpi. Fa su e giù velocemente e riesco a sentire il classico suono delle palle che sbattono sulle mie chiappe.
A un certo punto, sento: “portatela qui”.
Non capisco da dove provenga la voce.
Alzo la testa e guardo Mike che mi dice di tirare fuori la lingua. Lo faccio e comincia a sbattermi il cazzo sulla lingua mentre lo guardo.
“Allora”, sento di nuovo. “Ci sentite? Portatela qui”.
Vedo che Mike annuisce e poi sento che i due che sto segando iniziano a sollevarmi di peso. Mi spostando e mi girano, mettendomi faccia a faccia con Lina, anche lei a quattro zampe.
Ci guardiamo e ridiamo.
“Questa situazione l’hai voluta tu”, le dico.
“Dovresti ringraziarmi”, fa lei, cercando di contenere l’eccitazione mentre uno dietro la sbatte.
“Che fate”, dice uno con la barba lunga e brizzolata. “Limonate, troie”.
Io e Lina ci guardiamo di nuovo. Siamo infoiate e ormai prive di freni. Tiriamo fuori le lingue e ci tocchiamo vicendevolmente le punte.
“Brave, così”, dice Mike. “Mostrateci quanto siete troie”.
Iniziamo a limonare mentre gli altri, a turno, ci chiavano.
Ne sento entrare e uscire almeno sei, nel giro di quindici minuti, e ho avuto due orgasmi anali.
“Guarda quanto è aperto”, fa uno allargandomelo. “Una caverna”.
Io e Lina riprendiamo a limonare e uno si abbassa e infila il cazzo fra le nostre lingue. Noi glielo lecchiamo come si lecca un ghiacciolo, sempre facendo incrociare le nostre lingue, e lui se ne viene in una copiosa sborrata.
“Giulio è andato”, ridacchiano gli altri.
Sempre a turno infilano i cazzi fra le nostre lingue ma quelli rimasti sono più duraturi. Alcuni ci scopano la bocca, girandoci la testa.
La gang va avanti per un’altra mezz’ora buona, così, a spanne. Poi è il momento delle venute.
Ci fanno sedere una accanto all’altra e svuotano a turno nelle nostre bocce.
“Tira fuori bene la lingua, troia”, dice Mike segandosi velocemente, “aghht! Ohgtttt! Aghtt. Aahhhhh”, lo sento venire: due o tre spruzzate cariche di sborra densa.
Mi volto verso Lina, anche lei ha la bocca piena di sborra. L’abbiamo trattenuta in bocca a posta. Iniziamo a passarcela con la lingua.
“Puttane”, sentiamo.“Mignotte”.
“Mandate giù”, dice uno.
Ci guardiamo di nuovo e ingoiamo.
“Fatemi vedere. Aprite bene le bocce”, fa quello con la barba lunga, tirandosi su i pantaloni. “Mmmm. Brave. Sono vuote”.
Subito dopo qualcuno dice: “Dai, andiamo. Sono quasi le quattro. Tra un po’ arriva il caposquadra”.
“Ma allora non è qui”, dico io basta, abbassandomi il vestito e pulendomi la bocca con un fazzolettino passatomi da Lina.
“Macché”, mi dice Mike, “arriva tra un po’. Fareste meglio a sloggiare, anzi. Prima che vi veda”.
“Potevate dircelo che non c’era. Così non finivamo tutti nei casini”.
Intanto alcuni di loro iniziano a uscire da quella stanza in costruzione.
“Ci avete provocato”, fa Giulio il precoce, “e sapevamo di avere un po’ di tempo. Ma sì, adesso andate”.
“E dove andiamo?”, domando io. “Se usciamo di qui ci vedrà”.
In quel preciso istante sentiamo una voce grossa, roca, dire: “dove cazzo sono Giulio e Mike?”.
I due si guardano impauriti.
“Siamo da questa parte, capo”, urla Mike. “Arriviamo subito”.
Ma il caposquadra vuole vederci chiaro e oltrepassa il pertugio attraverso cui eravamo passati.
Ci trova tutti e quattro là.
“Che cazzo sta succedendo qua!”, fa. “E quelle due perché si trovano qui? Non possono stare qui, è pericoloso”.
“Eh”, fa Giulio inghiottendo la saliva. “È quello che stiamo cercando di far capire alle ragazze”.
“Ma come hanno fatto a entrare qui dentro?”, domanda.
“A questa domanda rispondo io”, dice Lina, togliendo le castagne da fuoco (dopo quasi un’ora di cazzi in bocca, Lina riesce a parlare con una discreta nonchalance, cosa che a me riesce di rado, e a conservare un trucco quasi perfetto, merito probabilmente dei costosissimi prodotti che acquista) . “Io e la mia amica, qui, volevamo vedere questo nuovo complesso in costruzione e ci siamo addentrate un po’ troppo. Ci scusi, non volevamo creare problemi”.
“Ma non li avete visti i cartelli fuori?”.
“Non ci abbiamo fatto caso. Ci scusi di nuovo”, fa Lina.
Il caposquadra, un uomo sulla sessantina, con una lieve pancetta, testa pelata e barba arruffata, ci chiede di seguirlo e aggiunge: “perché devo portarvi un una zona di sicurezza”.
Decidiamo di fare come dice lui, anche perché a quel punto non avevamo alternative, e usciamo di nuovo per il pertugio di prima. Gli altri operai, intanto, hanno ripreso a lavorare e, a parte quello con il cazzo grosso e di acciaio che mi ha guardata un pezzo, il resto della squadra finta di non vederci.
“Siete state brave ad arrivare fin qua con quelle scarpe”, ci dice il caposquadra, riferendosi alle nostre scarpe col tacco alto.
“Un’impresa, sì”, dice Lina ridacchiando.
“Eh, lo vedo”, fa lui, guardandoci con sospetto.
Il caposquadra non è nato ieri e ha capito tutto, ma probabilmente ha preferito fingere di fronte agli altri operai, per motivi che non conosco, forse anche solo per non metterli in imbarazzo, penso, mentre cerco di reggermi in piedi in qualche modo.
Arriviamo nei pressi della classico prefabbricato in cui in genere l’ingegnere edile tiene i suoi disegni e dirige i lavori.
“Sentite”, ci fa il caposquadra, “io posso capire la vostra birichinata. Non sta a me giudicare. Però voi vi siete intromesse in una zona privata. Non solo, avete messo a rischio anche la vostra incolumità, dato che si tratta di un cantiere aperto. Io”, ci dice in modo bonario, “posso anche lasciar andare la cosa, ma mi corre l’obbligo di segnarla. Mi dispiace”.
“A chi?”, chiede Lina impaurita.
“Alle autorità competenti”.
“Polizia?”, fa lei.
“Sì”.
La vedo sbiancare.
“Senta”, dico, “lei mi sembra una persona ragionevole. Sì, noi abbiamo sbagliato, ma qui ci sono altre persone che hanno sbagliato, oltre a noi, e lei lo sa”.
Il caposquadra mi fissa e sembra pensare.
“Sono ragazzi. Vi presentate qui così, li provocate volutamente, cosa possono fare loro”.
“Ma infatti”, dico io, “è questo il punto. Noi cercavamo del divertimento e loro anche. Dov’è il problema?”.
“Il problema è che tu e la tua amica non dovevate essere qui: ecco dov’è il problema”.
“Potevano allontanarci, come ha fatto lei”.
“Sono sicuro che sulle prime lo hanno fatto. Li conosco”.
Lina, intanto, sempre essere sul punto di piangere.
“Ma certo che l’hanno fatto. Poi però le cose… sono andate in un altro modo, mettiamola così. E noi due lo sappiamo che è anche colpa nostra. Però da qui a segnalarci alla polizia, mi sembra un’esagerazione”, continuo io.
“Rientra nei miei doveri. E in ogni caso vi sto facendo un favore, perché potrei chiamare già da adesso la polizia. Invece vi sto dicendo che scriverò due righe nel mio rapporto giornaliero facendo sapere che due persone si sono introdotte nel cantiere. Senza fare nomi. Poi ovviamente il mio datore di lavoro vorrà fare chiarezza, e questa segnalazione perverrà anche alle autorità competenti. Funziona così”.
“Capisco”, dico.
Lina sembra distrutta.
“Che succede qui Livio”, sentiamo a un tratto, “chi sono queste due signorine”.
“Oh”, fa lui. “Ingegnere. Non l’aspettavo oggi”.
“Eh, mi sono liberato prima. Per fortuna. Tutto a posto in cantiere? Come proseguono i lavori”.
“Direi che stiamo seguendo alla perfezione la tabella di marcia”.
“Bene, bene”, fa l’ingegnere.
“Loro due”, dice il caposquadra indicandoci, “si sono introdotte qui oggi pomeriggio. Stavo appunto dicendo che devo segnalare la cosa”.
“Uhmmm”, mugugna l’ingegnere, “e per quale motivo siete entrate nel cantiere? Non lo sapete che è severamente vietato l’ingresso ai non addetti ai lavori?”.
Lina non parla: ripeto, è afflitta. Mi faccio coraggio io.
“Abbiamo appena finito di dire al caposquadra quanto siamo dispiaciute per l’accaduto. Non si ripeterà più. Non credevamo di creare tanto disturbo”.
L’ingegnere mi guarda e sorride.
“Be’, non si tratta di disturbo, ma di violazione di una proprietà privata, per altro in un cantiere, un luogo piuttosto pericoloso, voi capite”.
“Certo, certo”, faccio io. “Capiamo benissimo. Ma più di chiedere scusa, cosa possiamo fare?”.
L’ingegnere sembra pensare. Il caposquadra ci guarda in silenzio.
“Marcello”, fa a un tratto l’ingegnere rivolgendosi a lui, “lascia che mi occupi io della cosa. Del resto sono il responsabile del cantiere”.
“Ma no”, fa Marcello, “non si preoccupi. Sono cose di cui mi occupo io, in genere. Si tratta solo di scrivere due righe sull’accaduto”, cercando di difenderci.
“Insisto”, dice l’ingegnere, “me ne occupo io. Puoi tornare dai tuoi uomini”, gli fa perentorio.
“Okay, okay. Come non detto”, e se ne va stizzito.
“Perciò”, ci chiede l’ingegnere, “quale sarebbe il reale” (marcando con la voce la parola reale) “motivo per cui avete deciso di introdurvi nel cantiere?”.
“Secondo lei”, dico io. “Per curiosità?”.
“Mmmm”, fa lui. “Considerando il modo provocante in cui siete vestite, credo che il vostro obiettivo fosse ben altro”.
“Sì”, fa alzando la testa all’improvviso Lina; fino a quel momento l’aveva tenuta bassa senza fiatare. “È inutile che ci giri tanto intorno: volevamo farci scopare dagli operai”.
“Beata sincerità”, dice l’ingegnere. “E scommetto che ci siete riuscite”.
Io e Lina ci guardiamo.
“Be’”, continua l’ingegnere, “in ogni modo non sono affari miei, però vorrei solo che mi faceste la cortesia di seguirmi nel box; Marcello ci sta osservando; non vorrei che pensasse che vi sto mandando via senza aver fatto rapporto di quanto accaduto qui oggi”.
Guardo Lina.
“Seguiamo l’ingegnere, dai”, le sussurro, “potrebbe essere divertente”, e le sorrido. Vedo sorridere anche lei, finalmente.
Raggiungiamo il box: un prefabbricato piuttosto grande, ubicato a una decina di metri di distanza dal perimetro del cantiere.
“Comunque eravamo anche interessate a sapere cosa state costruendo”, dico all’ingegnere mentre entriamo.
“Si tratta di un centro commerciale”, fa lui. “Il solito noioso centro commerciale”.
Fin qui non ho descritto l’ingegnere, ma lo farò adesso: un uomo alto, sul metro e ottanta, sopra i cinquant’anni, leggermente in carne, ma non grasso, con una bella pancetta; è quasi completamente calvo e ha una leggera barba grigia.
“Voi capite”, ci fa così, di punto in bianco, “che devo darvi quanto meno una punizione, perché siete state delle monelle oggi”.
A noi scappa da ridere. Cosa cerchi, ci è chiaro, e il gioco ci piace. Incrociando lo sguardo di Lina, capisco che la cosa stuzzica anche lei.
“E come intende punirci”, chiede Lina, dandogli del lei.
L’ingegnere si liscia la barba.
“Incominciate ad abbassarvi le mutandine, sotto il vestitino. Lentamente. Fino alle ginocchia”, ordina.
L’insolita richiesta ci solletica. Io ho già i bollori.
Facciamo come richiesto e ci sfiliamo le mutandine fino alle ginocchia. Io e Lina siamo una a fianco all’altra e l’ingegnere è seduto in una specie di poltrona che assomiglia molto a una di quelle sedie da spiaggia.
“Molto bene”, fa abbassandosi la cerniera dei pantaloni e sguainando il cazzo. “Mi sego un po’ guardandovi, se non vi dispiace”.
A me e Lina, perplesse, scappa da ridere. Intanto la verga dell’ingegnere, in sega, comincia a farsi interessante. Dopo un minuto è in erezione completa. Un pistolone da 22 centimetri almeno. E chi se lo sarebbe aspettato.
“Urca”, si lascia scappare Lina.
“Ti piace?”, chiede l’ingegnere.
“Sì”, dice Lina, “molto”.
“Non lo avrai, allora. Questa è la tua punizione”, le risponde.
Lina strabuzza gli occhi e mi guarda come a dire: ma fa sul serio?
L’ingegnere sembra non scherzare affatto ed essere entrato nella parte del padrone.
“Okay”, fa alzandosi, “ora giratevi e mettetevi a novanta appoggiando le mani sul tavolo”.
Non ci resta che eseguire il nuovo comando.
“Io sto già sbrodolando”, mi fa Lina sottovoce.
“Troia”, le rispondo.
Intanto l’ingegnere, da dietro, ci solleva il vestito e ci scopre i culi.
“Siete state cattive oggi”, fa, “meritate proprio una bella punizione”, dice, schiaffeggiandomi il culo. Poi schiaffeggia le chiappe anche a Lina, che ha un sussulto. Poi di nuovo le mie, più forte.
“Ve li faccio diventare rossi, questi culetti”, dice. “Puttanelle”.
E giù schiaffi sempre più frequenti e veloci.
L’ingegnere ha il cazzone fuori dalla patta dei pantaloni, sempre in tiro; lo vedo non appena fa il giro del tavolo per prendere una stecca di plastica; una di quelle lunghe sessanta centimetri, che si usano per disegnare.
Rifà il giro del tavolo e viene dietro di noi.
“Cattive”, dice ad alta voce, scudisciandoci le chiappe con la stecca. “Questa è la vostra punizione”.
A ogni stilettata sento accrescere in me il piacere in maniera incontrollata, mentre penso a quel grosso e lungo cazzo fuori dai pantaloni che a breve spero sarà tutto dentro di me. Lina strilla, ma dal godimento.
“Bene”, dice, “sono belli rossi. Tiratevi su le mutandine e giratevi, adesso; e tu”, aggiunge, rivolgendosi a me e liberandosi di pantaloni e boxer (è molto più peloso di quanto lasciasse pensare), “siediti su quella sedia appoggiata alla parete”; e subito dopo, guardando Lina, le fa: “tu invece prendi il cazzo in mano, e segami”.
Io vado a sedermi e mi godo la scena. Lina che sega l’ingegnere mentre muore dalla voglia di ficcarsi quel cazzone in gola, ma non può farlo.
“Guardalo e segalo. E basta!”, gli dice in modo perentorio. “Lo vorresti succhiare, di la verità. Lo so”, continua.
Lina annuisce.
“E invece no: questa è la tua punizione. Sega e basta”.
Lina sega velocemente il la verga dell’ingegnere, che è sempre più dura e tesa.
Dopo un po’ le dice di fermarsi; si avvicina a me, allarga le gambe scavalcando le mie sulla sedia e punta il cazzo verso la mia bocca; la apro e me lo sbatte dentro. Con una mano mi tiene la testa, e dando forti colpi di bacino comincia a scoparmi la bocca. Al decimo colpo sento che sto per avere un conato e cerco di spingerlo via, ma non si muove.
“È quasi tutto dentro”, dice Lina. “Dai che te lo prendi tutto”, fa, invidiosa.
Ma più di così non credo che entri; lui arretra e i io sbavo dalla bocca e sputo.
Giusto il tempo di prendere fiato e ricomincia a scoparmi la bocca, sempre in modo più irruento. Sono bagnatissima. La cosa mi eccita fuori maniera.
Sento che sto per soffocare, di nuovo, ma lui insiste, dicendo: “Tutto in gola, puttana”.
Lo tira fuori, quel gran cazzo violaceo, e io ho due conati di vomito. Lui me lo sbatte sulla lingua; guardo Lina: osserva estasiata.
“Ancora”, dico.
L’ingegnere non se lo fa ripetere due volte e mi sbatte la verga in bocca.
“Adesso lo prendi tutto in bocca, fino alle palle, troia”, dice, e ci si mette di impegno per farmelo scendere fino in gola.
Lo estrae di nuovo, non riuscendo completamente nell’intento.
“Sei stata brava; la tua punizione finisce qui”, dice, nonostante per me sia stata tutt’altro che una punizione.
Indietreggia e, rivolgendosi a Lina, le chiede di sdraiarsi sul tavolo e di aprire bene le gambe.
Lina esegue velocemente, tirandosi su la gonna se mettendosi supina sul tavolo; nel farlo fa cadere a terra penne e matite e alcuni disegni dell’ingegnere. Ma lui sembra non curarsene.
“Così, brava”, le dice, “voglio fartelo sentire fino in pancia”; e poi, parlando a me, aggiunge: “tu apri quel cassetto, prendi i preservativi e infilamene uno”.
Apro il cassetto della scrivania; dentro c’è un po’ di tutto: sigarette, accendini, taglierini, mollette… Prendo i preservativi; ne apro uno e glielo srotolo sul cazzone: è duro come il marmo e mi chiedo quando si deciderà a venire.
Poi si sputa su una mano, sposta il filetto del perizoma di Lina, e comincia ad allargarle il buchetto con le dita. Lei gode già come una vacca, lo vedo. Mi guarda e ride.
Un secondo dopo l’ingegnere la penetra; ma il cazzo entra solo per metà; Lina caccia un urlo di piacere.
“Piano”, gli dice.
Lui tira fuori il cazzo e glielo risbatte dentro ancora con più irruenza.
Lei strilla di nuovo.
“Tutto dentro, fino ai coglioni”, dice lui. “Devi sentirlo in pancia”, insiste lui.
Lina è completamente in estasi; i suoi occhi si fanno grandi; il bulbo oculare sempre più visibile.
Sotto i colpi rudi dell’ingegnere, che la sbatte con foga, Lina è in catalessi.
“Questa è la tua punizione per aver fatto la monella”, le dice. Lei strilla soltanto di piacere e ogni tanto, presa dall’eccitazione, urla: “scoooopami il culooo”.
Io capisco che Lina sta per avere un orgasmo di culo, quindi mi avvicino, scosto leggermente il suo perizoma in modo da far uscire la pisella da un lato, e attendo. Di’ lì a un attimo, vedo che ha un orgasmo di culo. La sborra le esce dal cazzetto: una colata lenta, lenta, che le scende lungo la coscia.
“Stai venendo, puttana”, dice l’ingegnere, galvanizzato e accelerando ancora il ritmo.
Lei ormai urla solo: “Scooopamiiiii”.
Un'altra colata, più intensa di quella di prima, le esce dalla pisella. Una meraviglia.
A quel punto l’ingegnere tira fuori il cazzo dal culo di Lina (è così aperto che ci entrerebbe una mano) e dice: “Dai che svuoto”.
Allora ordina a Lina di mettersi in ginocchio; lei scende dal tavolo e si mette in posizione, in attesa del succo salato. Poi allarga le gambe e mi dice di prendere i coglioni in bocca.
Felice della richiesta mi piazzo sotto di lui e mi metto le sue grosse palle piene in bocca.
Lui inizia a segarsi velocemente, dopo essersi scappucciato. Io ciuccio le palle e Lina attende di essere inondata di sborra.
“Aaaahhhh”, sentiamo, “sborroooo”.
Sento, a ogni gittata, che le palle perdono consistenza e si rimpiccioliscono nella mia bocca. Una volta svuotato, io continua a leccargliele, ma lui si alza e si sposta sulla destra.
Ora vedo Lina davanti a me. Le spruzzate di sborra le partono dall’attaccatura dei capelli e colano giù fino al mento. Ce l’ha dappertutto: non riesce nemmeno ad aprire gli occhi.
“Come fai a sborrare così tanto?”, gli chiedo. “L’hai inondata”.
Lina si tira su: la sborra le scende lungo il collo.
“Se la meritava una bella sborrata in faccia, la cattivona”, poi mi guarda e, mentre si dà una pulita con un fazzoletto e cerca i boxer, mi dice: “Leccagliela via dalla faccia”.
Lina è esausta; la guardo: sospira. Avvicino la mia lingua alla sua guancia e ne assaggio un po’.
“Troia”, dice l’ingegnere. Poi, una volta rivestitosi, afferra il cellulare e lo guarda. “Be’, devo andare di corsa. Chiudete la porta dietro di voi, quando uscite. Ciao. È stato un piacere”.
Non riusciamo neanche a dirgli ciao che è già oltre la porta.
Prendo alcuni fresh&clean dalla mia borsetta e li passo a Lina, in modo che possa pulirsi.
“Ne ho visti di maiali”, mi fa, “ma questo li batte tutti”.
“Non proprio tutti”, dico io ridendo.
“Vuoi dire che ne hai visti di peggio?”.
“Oh, be’, si”.
“Capiterà anche a me, prima o dopo, spero”, fa ridendo come una scema.
“Dai che usciamo di qui. Fa anche caldo”.
Lina cerca un cestino dove poter buttare le salviette umidificate; lo trova. Poi sento che dice:
“Ouuuu. Guarda qui”.
“Che c’è”, dico io, voltandomi.
“Questo deve essere il progetto del centro commerciale di cui parlava il porco”.
Guardo il cartellone appeso che, fino a quel momento, prese dalla foga della situazione, né io né lei avevamo notato.
“Eh sì”, faccio.
“C’è scritto: progetto per la realizzazione del centro commerciale il…”.
Ci guardiamo e scoppiamo in una fragorosa risata.
“Il Piacere?”, dico. “Ah! Ah!!, mai nome fu più azzeccato”.
Lina ride con le lacrime agli occhi.
“Anche se: ‘il paradiso dei porci’ non sarebbe stato male come nome”.
Ci facciamo delle grasse risate e usciamo, barcollanti, tra i ciottoli di residui di muratura, sorreggendoci l’un l’altra e cercando di non spezzare i tacchi.












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