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Gay & Bisex

Al supermercato di viale Papiniano


di Isaac
01.08.2018    |    17.773    |    18 7.1
"L'emozione torbida che mi dava quel gesto osceno mi faceva avvampare, e girare la testa, ormai ogni occasione era buona per infilarmi le dita nel culo, dato..."
L'autunno della terza, in quella vetusta e rinomata scuola media del centro, era iniziato con certe strane inquietudini: l'assegnazione dei posti in classe m'aveva messo in prima fila accanto alla compagna che m'ispirava pensieri romantici sin dal primo anno, una morettina coi capelli lisci a caschetto e la erre moscia, pensieri contraddetti da altri, men romantici, che mi ispiravano i piedi dell'insegnante di lettere da sotto la cattedra e che in quell'autunno mite ancora erano scoperti, le unghie smaltate di rosso come i sandaletti, l'arco plantare così flessuoso.

Dall'estate appena finita, però, un terzo genere di pensieri s'era aggiunto agli altri due, riguardava una suscettibilità nuova che m'ero scoperto negli afosi pomeriggi d'agosto in cui restavo solo in casa, la luce che filtrava dalle tapparelle abbassate, l'assordante frinire delle cicale e certe insistite letture dell'enciclopedia dell'arte, la contemplazione assorta di quadri e sculture, in particolare dei pingui deretani di naiadi e dee.

M'ero sorpreso a specchiarmi di tre quarti per valutare il mio, di sedere e, nonostante l'inesperienza e il fisico impubere, o forse proprio per quello, m'ero scoperto possessore d'un culetto tonico, glabro e femmineo, quasi a mandolino; da lì a vellicarne con le dita il solco, eppoi ad aprire le natiche con ambo le mani per spiarne il bruno bocciolo celato all'interno fu un passo, e un altro passo ancora la dapprima cauta, poi più decisa introduzione della punta del medio, seguita previo umettamento con la saliva di buona parte del dito.

L'emozione torbida che mi dava quel gesto osceno mi faceva avvampare, e girare la testa, ormai ogni occasione era buona per infilarmi le dita nel culo, dato che da uno ero passato a due, non senza qualche sforzo, nel giro di pochi giorni e con l'ausilio dell'olio da cucina di cui m'ero riempito una boccetta che tenevo nascosta nella mia scrivania.

Poi un giorno, a scuola iniziata e in mezzo al fuoco incrociato di quei desideri contraddittori, i sospiri per la compagna di banco, le deglutizioni affannate per i piedi della mia insegnante e gli spasmi del mio culetto vizioso, ebbi una folgorazione: lo vidi, proprio quello tra tanti, incellofanato in una vaschetta di polistirolo al supermercato di viale Papiniano mentre accompagnavo mia madre a fare la spesa. Un cetriolo dalla forma affusolata e lievemente curvo, lo presi per soppesarlo, lo strinsi tra le dita per valutarne la consistenza eppoi lo riposi pensieroso.
Tornato a casa ci pensai tutta la notte e il giorno dopo, uscito da scuola ripassai al supermercato. Lui, proprio lui, era ancora lì, pensai fosse un segno del destino e lo comprai.

Ebbi l'impressione, ma forse fu solo la mia coda di paglia a darmi quella percezione, che la cassiera, vicina di casa, avesse un moto di riprovazione di fronte a quel ragazzetto ipersebaceo e impacciato che le si presentava davanti con in mano un cetriolo; temetti avesse capito le mie intenzioni e disapprovasse tant'è che per stemperare la situazione, peggiorandola ulteriormente, chiesi anche un sacchetto per portarlo via.

Tornando a casa già mi figuravo che nei giorni successivi la cassiera avrebbe trovato il modo di raccontare l'episodio a mia madre: "è venuto suo figlio ieri a comprare un cetriolo confezionato, ha voluto anche il sacchetto; chissà che cosa passa per la testa a questi ragazzi, voi non comprate mai cetrioli!" Ma non mi veniva in mente nessuna scusa plausibile per giustificare quell'acquisto.

Angustiato arrivai a destinazione deciso a non pensarci, m'ero già preparato la scaletta delle cose da fare: da uno scatolone sul soppalco presi una parrucca viola da carnevale, dal cassetto della biancheria di mia madre certe calze satinate auto-reggenti che non le avevo mai visto indosso e da quello di mia sorella uno striminzito reggiseno bianco; dalla mia scrivania la boccetta d'olio santo, come avevo preso a chiamarlo, e mi chiusi in bagno, da cui uscii subito per andare a prendere il cetriolo che avevo riposto in frigo.

Non avevo fretta perché sarei rimasto solo in casa tutto il pomeriggio, così presi la trousse del trucco che era già in bagno e goffamente cercai di rifare le cose che di nascosto avevo visto fare: ombretto, matita per gli occhi, fard, rossetto... dopo pochi minuti e indossata la parrucca l'acerbo adolescente era divenuto una psichedelica ninfetta. Mi spogliai ammirando il mio corpo morbido e appena accennatamente maschile per via delle spalle larghe e delle quasi imberbi pudenda, indossai cautamente le calze, per via dei miei piedi già sensibilmente più grandi di quelli materni, e il reggiseno che faticai non poco ad agganciare.
Il risultato era mozzafiato, d'un tratto mi sentii assai più attraente, sensuale e femminile della mia insipida compagna di banco, e mi rimirai a lungo nella specchiera a figura intera, girandomi più e più volte, compiaciuto soprattutto di quel culetto irresistibile che avrebbe attizzato qualunque maschio.

Mi inginocchiati e mi unsi medio e anulare d'olio santo, con le dita cominciai a lavorarmi il buchetto che in breve divenne morbido e cedevole, presi il cetriolo e dapprima lo misi in bocca, insalivandolo per buona parte, poi lo bagnai d'olio e lo poggiai alla mia rosellina sbocciata e palpitante.

Respirai a fondo, col cuore che batteva a mille, lo introdussi lentamente, un millimetro alla volta, ansimando e sospirando in un crescendo di emozioni finché, ad un certo punto sentii male: non avevo capito che la forma affusolata era ingannevole e che dopo essere entrato per qualche centimetro, il diametro era divenuto eccessivo.

Combattuto tra la foia della troietta animale in cui m'ero trasfigurato e dal dolore che irradiava dal sedere mi fermai un attimo: da una parte avevo paura di lacerarmi, dall'altra la consapevolezza d'essere dilatato come mai prima di allora mi faceva girare la testa e letteralmente sbavare dalla provocante bocca vermiglia che non riuscivo a tener chiusa.

Così ripresi lentamente a spingere il cetriolo con le dita, ancora un millimetro, due, dieci... due centimetri ancora e Il dolore divenne insopportabile, cercai di resistere pensando ai piedi della prof di italiano, mi figurai che fossero le dita di quelli che si facevano strada nel mio ano slabbrato nel tentativo di portarsi dietro tutto il metatarso ma ormai piangevo a dirotto, devastando il trucco pesante che m'ero dato e singhiozzando sia per il male che per la frustrazione di non potermi violare ancora di più, di non poter introdurre quel mio enorme e crudele fallo immaginifico per tutta la sua lunghezza.

Così, non senza qualche ripensamento e più lentamente che potei lo feci uscire, non prima di aver preso uno specchietto per guardare che cosa avevo fatto: il buco era oscenamente dilatato, come mai prima, e nell'estrarre il cetriolo ne colo' fuori un sottile filo di sangue: avevo letteralmente rotto il mio vergine culetto ma la cosa, oltre a spaventarmi, mi riempii di orgoglio.

Poggiai la guancia umida per terra e restai così, col culo arroventato all'aria, singhiozzando di addolorata commozione sino a che il pertugio non si richiuse e il dolore s'attenuò un poco. Con stanchezza mortale e tremando sulle gambe mi ricomposi in qualche modo, mi struccai, mi docciai a lungo, riposi ogni cosa a suo posto e infine mi coricai cadendo in un sonno profondo.

Il giorno dopo a scuola, seduto al mio banco in prima fila e con accanto la compagnuccia insolitamente ciarliera ma da me platealmente ignorata, mi sorpresi a contrarre ogni tanto lo sfintere per riprovare lo spasmo di dolore, trasalendo ogni volta; durante la ricreazione andai in bagno e fu con emozione e felicità che mi resi conto di avere le mie pudiche mutandine bianche da tredicenne macchiate di sangue, come se fossi stata deflorata il giorno prima o mi fossero venute le mestruazioni.

Va da sé, per un lungo periodo dovetti evitare quei giochi solitari e mai più mi cimentai con calibri al di sopra delle mie possibilità ma per tutto l'anno scolastico mii gratificò l'idea che di tutta la classe, forse dell'intera scuola media, fossi stata la prima ragazzina a perdere la verginità.
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