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Danilo e Federico - Parte 2: Invasione (4)


di vgvg91
24.02.2023    |    5.007    |    9 9.9
"«Chiara, tu non hai portato nessuno?» chiesi a mia sorella, in separata sede..."
«E così va bene?» chiese impaziente la voce di Danilo dalla camera da letto. La mia completa attenzione era però rapita dalla sistemazione degli ultimi oggetti necessari nelle valigie, accatastate un po’ alla rinfusa nell’ingresso. Sbuffai, madido di sudore mentre con un gravoso sforzo riuscii nella gigantesca impresa di chiudere la valigia di Danilo. Sebbene fossero appena le quattro del mattino, su Milano gravava una cappa di caldo afoso, che rendeva l’aria irrespirabile da giorni. Sarebbe stato un sollievo fuggire dai miei al mare, per qualche giorno.
In quel momento, stavo odiando Danilo profondamente: si era intestardito di non voler portare in vacanza più di una valigia per sé, salvo rendersi conto del fatto che pretendere di poter inserire tutti gli oggetti scritti sull’elenco in un’unica valigia era più complesso dell’ultimo livello di Tetris. E io a Tetris ero davvero bravo.
«Allora, Fede?» insistette lui, raggiungendomi in salotto. Levai lo sguardo verso di lui, ancora ansimante: era a braccia spalancate e mi mostrava con palpabile nervosismo l’abbigliamento scelto per arrivare dai miei. Indossava una camicia a maniche corte di un blu mare intenso, bermuda bianchi e mocassini in tono. Un dettaglio, però, mi fece increspare le labbra in un ironico sorriso: aveva azzardato di rendere il look più “frizzante” indossando sulla testa una paglietta informe. A quanto pare, l’uomo di accorse della mia reazione, perché sollevò un sopracciglio con fare interrogativo e mi disse: «Che c’è che non va?».
«Togliti quella cosa, ti prego» dissi io col fiato mozzo.
«Perché?» fece lui, punto sul vivo. Pareva che i bottoni della camicia avrebbero ceduto da un momento all’altro.
«Dani, dobbiamo affrontare un viaggio di dieci ore. Non mi sembra il caso di tenerti addosso quel cappello» risposi con aria di sfida, alzandomi in piedi.
Danilo prese un profondo respiro e socchiuse gli occhi, squadrandomi.
«Ok, allora me lo tengo» concluse, con un lieve accenno di orgoglio. «Si fa tardi, cominciamo ad avviarci».
«Ti sei assicurato che tua mamma abbia tutto ciò che le serve?» ricordai a Danilo.
«Sì, amore, tranquillo».
La sera prima avevamo cenato da Serena, approfittando di rassicurarci che fosse tutto in ordine e che non avesse nessun problema. Sul frigo, le avevamo affisso un post-it con l’elenco dei numeri di prima necessità da contattare al bisogno.
«Basta pensare a questa povera donna, andate e divertitevi, per l’amor del cielo» aveva detto, schioccando le labbra come suo solito.
«Guarda che non sei obbligato a guidare solo tu eh, possiamo darci il cambio» gli proposi per l’ennesima volta, sapendo già in partenza quale sarebbe stato l’esito della mia osservazione, che arrivò puntuale e scontato.
«Ne abbiamo già parlato, la macchina è mia e guido io» rispose seccamente Danilo. La questione era stata già motivo di discussione nei giorni immediatamente precedenti: avevo come l’impressione che Danilo non si fidasse a lasciare in mano mia la sua costosissima vettura, quasi come se non mi ritenesse sufficiente capace o all’altezza. Certo, non avevo la sua dimestichezza alla guida, ma non ero una frana e avevo la tremenda voglia di dimostrargli quanto si sbagliasse.
«Prima o poi, dovrai lasciarmela guidare» risposi gelido.
«Prima o poi» sentenziò lui, partendo, mentre le prime luci dell’alba rischiaravano il nostro cammino.
«Lo sai che rischio di addormentarmi, mentre mi piacerebbe esserti di compagnia» tentai nuovamente, cambiando approccio.
«Se vedo che ti stai addormentando, ti faccio il solletico» disse lui, avvolgendomi una gamba nella sua forte mano. Il suo gesto mi fece acquietare, almeno per il momento. Alla prossima occasione utile, sarei ripartito all’attacco.
Dopo una decina di minuti di silenzio, mentre la vettura sfrecciava lungo l’autostrada, mi schiarii la voce e chiesi: «Allora, come ti senti?».
Danilo deglutì e impiegò qualche secondo per rispondermi: «Diciamo che… sono abbastanza tranquillo».
Questa volta, fui io a poggiare la mia mano sulla sua gamba poderosa, carezzandogli i peli. «D’accordo, sai che puoi dirmi tutto».
«Allora ti conviene togliere immediatamente la mano dalla mia gamba, perché mi sto arrapando con le tue suadenti carezzine e vorrei evitare di obbligarti a farmi un pompino mentre guido» disse lui, con una calma glaciale.
Io arrossii e levai la mano in un lampo: «Sì, non sarebbe il caso».
Danilo rise: «Cerchiamo di arrivare interi dai tuoi, poi ti assicuro che la prima cosa che farai sarà prendermelo in bocca». Mi passò una mano sulle guancia e tornò a concentrarsi alla guida.
Quella volta, non mi appisolai. Ero troppo teso di rivedere la mia famiglia ma, soprattutto, di presentare loro Danilo. Il mio ragazzo… amico… no, compagno… oddio, come avrei dovuto presentarlo? Panico. Respira. Ragazzo andrà benissimo, siamo maturi e tra persone civili. Poi, il volto di mio padre mi balenò alla mente. Che reazione avrà? Oh no, spero non si dimostri deluso o in imbarazzo, potrebbe complicare le cose.
«Che hai?» chiese Danilo improvvisamente, che aveva colto il repentino modificarsi del ritmo del mio respiro.
«Nulla… è che papà…» provai a rispondere io.
Danilo aggrottò la fronte. «Ti preoccupa un po’ la sua reazione, immagino». Annuii, silenziosamente.
«Tuo padre ti vuole molto bene. Dovrà solo abituarsi, ma andrà bene. Stai tranquillo».
Grazie alle sue poche ma efficaci parole, il resto del viaggio trascorse nella serenità più totale. Solo nel momento in cui lessi sul cartello stradale il nome del mio paese, il cuore mi balzò in gola.
“Ci siamo”, pensai.
«Fede!» trillò una voce, ricca di allegria, mentre io e Danilo eravamo intenti a sgombrare il portabagagli dalle valigie. Alzai lo sguardo e vidi Chiara, con gli occhiali da sole, sventolare la mano con veemenza dal balcone di casa. Risposi con un cenno timido e insicuro al suo saluto, poi la vidi scompare dietro la tenda della finestra, che si muoveva frenetica sospinta dal fresco venticello proveniente dal mare.
Danilo respirò a pieni polmoni: «Questa sì che è aria. È davvero piacevole».
«Vero» risposi io, accompagnando il suo gesto. «Avevo quasi dimenticato come fosse». Gli strinsi velocemente la mano, prima di accostarci alla porta di casa. Non feci in tempo a bussare, che la porta si spalancò: sulla soglia, ad accoglierci, mia sorella, che si gettò immediatamente tra le mie braccia e, in posizione più defilata, mia madre.
Mentre ricambiavo calorosamente l’abbraccio di Chiara, notai qualcosa di strano in mia madre.
“Non ci credo, si è sistemata i capelli di fresco e si è truccata!” notai tra me e me. Aveva le labbra tiratissime, cercando in tutti i modi di formare sul suo volto il velo di un sorriso. Istintivamente, fui io a sorridere e l’abbracciai.
«Mi sei mancata, mamma» le dissi all’orecchio in un sussurro.
«Anche tu, bambino mio» fece lei. Quando ci separammo, rivolse il suo sguardo a Danilo, che era rimasto perfettamente immobile sul posto. Pareva quasi ancorato al terreno con solide radici.
«Ehm, mamma… ti presento Danilo» dissi, con un cenno del capo.
«Piacere, sono Danilo, signora…» si apprestò a dire lui, levando la mano.
«Chiamami semplicemente Luisa» rispose lei, stringendo vigorosamente la sua. «Com’è andato il viaggio?» aggiunse, dimostrando di voler immediatamente rompere il ghiaccio.
«Dov’è papà?» chiesi nel frattempo a Chiara sottovoce nell’orecchio.
«In salotto» rispose laconicamente.
Deglutii rumorosamente.
Mamma ci mostrò l’appartamentino laterale, una volta appartenuto ai miei nonni, in cui avremmo soggiornato io e Danilo in quella settimana, in modo tale da avere più privacy. Si accedeva dall’interno di casa nostra ma, a prescindere dall’ingresso in comune, era del tutto indipendente.
Poi, ci incamminammo verso il salotto. Il mio cuore era ormai fuori dal petto: avevo l’impressione di averlo perso per sempre. Mio padre era di spalle, intento a guardare la tv o, perlomeno, a impegnarsi di fingere a farlo. Sapevo che le sue orecchie erano tesissime, pronto a cogliere il minimo rumore. E infatti, non appena ebbe il giusto sentore, lo vidi alzarsi in piedi e girarsi verso di noi. La sua espressione era criptica, chiusa. Scoccai un rapido sguardo in direzione di Danilo: aveva la stessa e identica espressione di mio padre, che levò gli occhi per poter guardare in volto l’uomo che aveva appena invaso il suo territorio.
I due si squadrarono per un tempo indecifrabilmente lungo: avevo l’impressione che si stesse svolgendo davanti ai miei occhi una lotta di supremazia e io sapevo di star osservando due degli uomini più orgogliosi e testardi sulla faccia della terra. Un rivolo di sudore mi percorse la nuca, provocandomi un brivido.
D’un tratto, fu Danilo a dichiararsi sconfitto. Levò la mano in segno di rispetto e disse: «Sono Danilo, piacere signore».
«Gianfranco» rispose mio padre, asciutto.
Finché, mia madre non issò una immaginaria bandiera bianca, dicendo: «Fede, tu e Danilo sarete sicuramente stanchi dopo questo lungo viaggio. Perché non andate a rinfrescarvi in camera?».
«Sì mamma, ottima idea» risposi, più veloce di un fulmine. «Ciao, papà» aggiunsi, scoccandogli un rapido bacio sulla guancia. Poi, io e il mio uomo ci dileguammo, con la promessa di riunirci più tardi per andare a cenare.
Quando chiusi la porta dell’appartamentino alle mie spalle, sbuffai vigorosamente e mi accorsi che le mie gambe tremavano. Danilo mi superò con la valigia, che sistemò accanto all’armadio.
«Beh, è andata piuttosto bene» feci io, incoraggiante.
«Sì, bene» disse lui a malapena.
«Dai, abbiamo una settimana per ambientarci come si deve» dissi, avvicinandomi e cingendogli le enormi spalle.
Danilo si abbandonò al mio abbraccio, poi disse: «Ci tengo a fare una buona impressione. Forse avrei dovuto attendere di meno prima di presentarmi, ma ero pietrificato».
«Io credevo che stessi sfidando mio padre a chi avrebbe ceduto prima» feci io, meravigliato.
«Sì e no» mi spiegò lui. «Ho avvertito il senso di sfida da parte di tuo padre e, inizialmente, in maniera quasi infantile, stavo per accoglierla. Poi, però, mi sono bloccato e ho dovuto fare uno sforzo sovrumano per rompere quel momento imbarazzante.
«Ho capito» replicai semplicemente, baciandogli timidamente la schiena.
D’improvviso, Danilo si girò, mi fissò intensamente negli occhi e mi prese il mento tra le mani. Dischiuse le labbra e mi diede un bacio lungo, intenso, saporito. Ricambiai con altrettanto trasporto, perdendomi nelle sue labbra.
«Mi devi ancora un pompino» sussurrò lui, deciso a sciogliere la tensione. Poi, con una piccola pressione della mano sulla mia spalla, mi fece inginocchiare, mentre provvedeva a liberare la belva, già dura, svettante e pulsante.
Mi bloccò le mani al muro, dopo averle sollevate, e ordinò: «Apri la bocca». Non me lo feci ripetere due volte e spalancai la mandibola, mentre Danilo inseriva senza troppi fronzoli il suo palo di carne nel mio cavo orale, spingendo finché non si affacciò nel mio esofago. Ebbi un solo conato, ma ormai ero abituato a gestire le sue dimensioni: presi a succhiare con avidità, gustandomi il suo sapore intenso e maschile. Le grosse palle di Danilo erano poggiate sul mio mento: avevano chiaramente bisogno di essere svuotate e chi ero io per non soddisfare la necessità impellente del mio uomo? Presi a vorticare rapidamente la lingua attorno alla cappella, a baciarla, a percorrere l’intera lunghezza dell’asta, mugolando di piacere. Anche Danilo grugniva, chiaramente soddisfatto del mio trattamento. I nostri sguardi si incrociarono: il suo, da uomo dominatore, mi guardava dall’alto. Il mio, da sottomesso, lo supplicava dal basso.
D’un tratto, mi sollevò di peso e mi gettò sul letto di pancia sotto: immediatamente, mi fu sopra con tutto il suo peso, si avvicinò al mio orecchio e disse con voce minacciosa: «Vogliamo far sentire al tuo paparino che troia di figlio ha cresciuto, eh?».
«No, Dani» risposi io, visibilmente allarmato che mio padre potesse sentirci. Danilo mi tappò la bocca e continuò: «Nessun Dani. Per te, adesso sono solo signore o padrone» e mi assestò un forte schiaffo sul culo. Gemetti, ma il suono era ovattato.
«Hai capito o no, puttanella?» incalzò lui, sempre più severamente e liberò la mia bocca per darmi la possibilità di rispondere un flebile: «Sì, signore», eccitandomi a dismisura per il trattamento ricevuto.
«Bravissima» fece lui, abbassandomi i pantaloni. Mi aggrappai al suo braccio con vigore, pronto a ricevere l’enorme uccello del mio uomo.
Quando Danilo assumeva quell’atteggiamento, sapeva dosare benissimo parole e gesti, mantenendomi sul ciglio sottilissimo del timore e dell’eccitazione, che si sublimava perfettamente in un amplesso quasi ferino, poco romantico e animalesco. Quella volta non fu diverso: dopo aver velocemente lubrificato il suo membro e il mio ano con qualche sputo di saliva, mi riempì il ventre con la sua potenza virile. Gli occhi mi schizzarono fuori dalle orbite e urlai, mentre Danilo mi premeva con forza la bocca affinché i vicini di casa non sentissero nulla dei miei lamenti di dolore commistionato a piacere.
«Guarda che troietta» grugnì Danilo, dando inizio alla sua poderosa cavalcata. «La mia troietta» aggiunse, con un colpo secco di reni.
Mi dimenai, mentre i miei interni venivano lacerati e squassati da quel maschione. Il mio cazzo era intrappolato nelle mutande, ma potevo avvertirlo pulsare di piacere assieme alle contrazioni prostatiche che solo Danilo era in grado di suscitarmi con il suo vigore, il suo calore di maschio.
Mi scopò a pecora per cinque minuti abbondanti, finché non mi girò di peso, mi strappò di dosso i vestiti leggeri che avevo ancora indosso, ormai impregnati del mio e del suo sudore. Mi contemplò per qualche secondo lì nudo, sotto di lui, con il culo aperto e le gambe tremanti, completamente sconfitto dalla sua potenza. Poi mi ordinò: «Mettiti su di me a cavalcioni e impalati da sola, puttana. Voglio vedere come giochi con il mio cazzone, come lo desideri».
In men che non si dica, fui sopra di lui e mi trafissi da solo con il suo membro, soffocando un gemito di piacere. Mentre proseguivo la cavalcata, Danilo toccò i punti giusti, che ormai conosceva a menadito. Dapprima, mi carezzò i fianchi, poi mi strizzò i glutei e infine poggiò entrambe le mani sui miei capezzoli, strizzandoli, tirandoli e torturandoli.
La difficoltà più grande di quella scopata fu di non emettere un fiato, al punto che arrivai a tapparmi autonomamente la bocca e continuando a salire e scendere su quel cazzo magnifico.
Danilo sembrava divertito e cercò in tutti i modi di farmi emettere un solo gemito: prese a succhiarmi i capezzoli, intervallando l’operato con un «puttana» o uno schiaffo sonoro sul culo. Sapevo che non sarei resistito a lungo, quindi sfoderai anche io la mia arma segreta: mi chinai su di lui e presi ad ansimargli nell’orecchio e a morderlo. Il suo cazzo si fece, se possibile, ancora più duro e pulsante e sapevo di aver attivato il punto di non ritorno.
«Maledetta puttana» ringhiò lui, bloccandomi i fianchi e scopandomi come un martello pneumatico da dietro, incessantemente e con inaudita violenza. Fui costretto a tapparmi la bocca con entrambe le mani, urlando più che potessi per sfogarmi. Quella visione fu per lui la goccia.
«Ecco a te, troietta, ti ingravido per bene!» concluse a denti stretti. Mi circondò il busto con le sue forti braccia e riversò dentro di me fiumi di sborra bollente. Nel frattempo, con sapienti movimenti del bacino, mi strusciai sul suo addome di pietra e venni copiosamente, mischiando i nostri umori.
Ansimammo, godendoci quell’abbraccio che suggellava il nostro amplesso.
«Tuo padre dovrebbe essere fiero di te per come sai prendere questo cazzone» disse lui alla fine, sciogliendoci in una fragorosa risata.
Dopo un sonnellino ristoratore e una doccia rinfrescante, raggiungemmo la mia famiglia per la cena in un ristorante all’aperto.
«Chiara, tu non hai portato nessuno?» chiesi a mia sorella, in separata sede.
«In realtà, sto frequentando un ragazzo» rispose lei in tono tranquillo. «Ma è meglio provocare a papà un trauma alla volta».
Sedemmo attorno a un grande tavolo circolare. Come prevedibile, papà e Danilo sedettero l’uno di fronte all’altro. Era chiaro che volessero entrambi tenersi sotto reciproca osservazione.
«Allora Danilo, c’è qualcosa che non mangi?» fece mia madre, con la sua solita capacità di avviare conversazioni altrimenti destinate a restare impantanate.
«No, signora… mi scusi, Luisa» si corresse immediatamente Danilo alla prima occhiata di mia madre. «Più o meno, mangio di tutto».
«Benissimo. Giovane! Cinque menù della casa!» disse urlando in direzione del cameriere. «Fede, tutto bene?» aggiunse guardandomi. Ero arrossito violentemente per il suo atteggiamento genuino.
«Nulla, ma’» le risposi sorridendo.
«Di cosa ti occupi, Danilo?» chiese mia sorella, determinata a rendere la situazione ancora più distesa e piacevole. Ne fui immensamente grato.
«Adesso non finisce più di parlare» intervenni io, con una smorfia.
«Spiritoso» mi rimbeccò Danilo e si precipitò a raccontare con dovizia di particolare i suoi obblighi in azienda.
Mia madre e mia sorella sembravano rapite da lui e non potevo di certo biasimarle: era obiettivamente un uomo estremamente affascinante e dalla voce calda e profonda. Per questo, rivolsi uno sguardo di sottecchi a mio padre, che d’altro canto pareva totalmente assente e disinteressato alla conversazione. Fissava le portate che sfilavano davanti ai suoi occhi, mentre Danilo sviscerava gli ultimi acquisti della sua azienda di cui si era fatto promotore. Non potei fare a meno di notare che anche lui rivolgeva sguardi fugaci a mio padre, nella speranza di suscitare la sua curiosità, ma inutilmente.
«È davvero interessante, Danilo» disse mia madre con un cenno della testa. «Hai sentito, Gianfranco?» aggiunse, cogliendo anch’essa il voluto disinteresse del marito e tirandogli una malcelata gomitata.
«Uhm, cosa? Ah, sì certo» concluse lui, con fare vago e continuando a guardarsi attorno.
Cominciai a irritarmi: papà non stava facendo il minimo sforzo per provare a conoscere Danilo che, d’altra parte, aveva una espressione chiaramente mortificata in volto. Calò un pesante silenzio quando il cameriere servì la portata successiva.
D’improvviso, il telefono di Danilo squillò: lo vidi armeggiare freneticamente col cellulare sotto il tavolo, finché una impercettibile ombra non modificò il suo sguardo.
«Vogliate scusarmi, torno subito» disse lui, alzandosi e allontanandosi di tutta fretta dal tavolo. Lo accompagnai con lo sguardo, mentre lo vidi precipitarsi all’angolo della strada per rispondere al telefono. Avevo bisogno di rinfrescarmi urgentemente il viso, perciò con una scusa mi allontanai per andare in bagno. Durante il tragitto, ero a portata d’orecchie e udii distintamente mia madre sibilare minacciosa a mio padre: «Sei uno stronzo, Gianfranco».
Una volta in bagno, mi specchiai: avevo le gote in fiamme e di certo non a causa della calda serata. Mi sciacquai velocemente il viso e provai a calmarmi. La testa mi girava vorticosamente e mi aggrappai al lavabo con forza, facendomi diventare le nocche bianche dallo sforzo. Poi, presi un respiro profondo e tornai al tavolo.
Danilo era già tornato, ma il suo sguardo era palesemente turbato da qualcosa. Evitai di fare domande per il resto della cena, che proseguì in maniera anche più imbarazzante di prima, riservandomele per quando fossimo rincasati.
Quando fummo entrambi a letto, finalmente esordii dicendo: «Danilo…».
«Scusami Fede. Ci ho provato…».
«Come?» replicai io, preso in contropiede. «Ah! Immagino, non è stato facile per nessuno».
Danilo si girò a guardarmi, in cerca di conforto, con gli occhi persi.
«Domani andrà meglio, vero?».
«Domani andrà sicuramente meglio» lo rassicurai, scoccandogli un bacio sulla fronte.
«Chi era al telefono, prima?».
Danilo si rabbuiò per la seconda volta quella sera.
«Nessuno».
«Nessuno? Sicuro?».
«Sì».
«Danilo…».
«No, Fede. Non ricominciare. Non era nessuno».
In me prese a montare la rabbia. «Che significa “non ricominciare”?».
«Che quando fai così non ti sopporto». Danilo si scostò da me, dandomi le spalle.
«Così come?» provai a replicare, alzando il tono di voce di una ottava.
«Quando vuoi ficcare il naso in tutti i miei affari» rispose, rimanendo cocciutamente di schiena.
«Beh, scusami se mi interesso della tua vita» dissi in tono aggressivo.
«Tu non ti interessi. Tu sei paranoico».
Fu come ricevere uno schiaffo in pieno volto. Formulai con attenzione le prossime parole da pronunciare, per evitare di peggiorare la situazione.
Ma, ormai, era troppo tardi.
«Sarò anche paranoico, mio caro, ma mi hai appena dato la dimostrazione che proprio nessuno non era a quel cazzo di telefono».
Danilo non rispose, sollevando il muro del silenzio.
«Sai che ti dico? Non mi frega un accidenti di chi fosse. Fottiti» conclusi, girandomi di spalle a mia volta.
“Che paradiso”, pensai.
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