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Gay & Bisex

Danilo e Federico - Parte I: Stasi (7)


di vgvg91
21.01.2022    |    5.699    |    9 9.5
"Fermo sulla soglia, notai il solito campo di battaglia che si creava dopo ogni nostro amplesso..."
PREMESSA
Cari lettori, vi ringrazio infinitamente per l'accoglienza che il mio racconto sta ricevendo, nonostante si tratti di una ripubblicazione. Come ho già spiegato, sebbene il racconto presenti una cornice erotica necessaria al contesto, la storia ha soprattutto l'obiettivo di far riflettere sul modo in cui alcuni traumi, alcuni incontri influenzano e modificano la nostra vita. Perciò, sono necessarie anche queste fasi di STASI nello sviluppo della narrazione principale.
Come sempre, buona lettura!

Quando il mattino dopo aprii lentamente gli occhi, la prima cosa che vidi fu l’enorme schiena di Danilo in controluce. Mi dava le spalle e si trovava in piedi vicino alla finestra. Sembrava assorto nei suoi pensieri e decisi di lasciarlo ancora qualche minuto da solo con essi, quando lo vidi chinarsi e raccogliere da terra la sua camicia, abbandonata lì dalla sera prima. Con movimenti calmi e decisi, provò a tenderla, poi iniziò a infilarla. Soppesava ogni azione con la massima cura.
«Buongiorno» biascicai, sbadigliando. Mi stiracchiai, mentre Danilo piegò leggermente la testa in direzione della mia voce, per poi tornare a guardare fisso fuori dalla finestra.
«…giorno» rispose a malapena. Non si abbottonò la camicia e rimase lì impalato.
Non seppi cosa fare: per me si trattava di una situazione nuova, perciò esitai ancora un attimo nel letto.
«Ti… preparo un caffè?» proposi io, tentando di rompere il silenzio. Danilo trasalì, come se lo avessi riportato nel mondo reale con uno strattone.
«No» rispose freddamente, senza aggiungere altro. Si voltò verso di me: la camicia aperta faceva intravedere il petto massiccio e incorniciava perfettamente la sua peluria. Il lembo inferiore celava a malapena il suo arnese a riposo, ma sempre enorme. Era maledettamente sexy: arrossii e il mio cazzo diede segni prorompenti di risveglio.
Danilo si sedette sul bordo del letto, dandomi di nuovo le spalle, e cominciò a infilarsi mutande e pantaloni, senza aggiungere nient’altro. Presi a preoccuparmi: temevo di irritarlo, se avessi insistito con le mie solite domande a raffica, ma non potevo di certo lasciare che la situazione non si sbloccasse. Perciò, tentai un approccio più diretto: sapevo che lo avrebbe apprezzato maggiormente.
«Credo che dovremmo parlare» dissi, infine. Mi sollevai con estrema lentezza, puntellando la mia testa sulla mano, sostenuta dal gomito poggiato sul materasso.
Danilo sospirò e, dopo aver abbottonato i pantaloni, si girò in mia direzione, fissandomi dritto in volto. «Immagino di sì». I suoi occhi cerulei percorrevano le linee del mio corpo, sebbene le lenzuola celassero le mie parti intime. Ebbi l’impressione che l’intensità del suo sguardo volesse penetrare il tessuto e guardare attraverso.
Quando mi sistema seduto contro la spalliera del letto, piegando le gambe e sistemando le braccia attorno ad esse, lo vidi scuotere la testa e tornare a concentrarsi sul mio viso.
Sorrisi lievemente: «Adesso sono io a porti una domanda che hai fatto tu a me diverse volte» feci, soppesando le parole. «Che cosa provi?».
Non rispose. Le sue dita tradivano l’imbarazzo che stava sperimentando in quel momento, disegnando linee immaginarie sulle lenzuola. Poi cominciò a dire: «Non vorrei che tu…» ma lo interruppi all’istante, completando la sua frase: «…che io mi faccia illusioni?». Danilo annuì. Il mio sorriso si increspò, ma sostenni il discorso, cercando di trasmettere quanta più serenità possibile.
«Credo che tu mi abbia frainteso. Non intendevo chiederti cosa provi nei miei confronti, ma in generale. Sei turbato da qualcosa?».
Anche questa risposta si fece attendere. Le sue dita continuavano a muoversi convulsamente sulle lenzuola, finché non si fermarono di colpo.
«Devo riflettere» disse, con la sua solita tendenza a tagliare corto, senza esternare i suoi pensieri.
A quel punto, decisi di continuare testardamente lungo la mia strada.
«Non credo che si possa far finta di nulla, dopo stanotte» insistetti.
Danilo si alzò: pur essendo imponente nella mia camera dal soffitto non particolarmente elevato, notai per la prima volta in lui un fremito di insicurezza che lo fece sembrare più piccolo del solito.
«Tu non capisci» disse di getto, poi uscì a passi svelti dalla camera. Il mio cuore perse un battito, mentre cercai di districarmi dalle coperte. Scesi dal letto e lo raggiunsi di corsa, ancora nudo.
Lo trovai all’ingresso con una mano già protesa verso la maniglia.
«Te la stai dando a gambe?» sorrisi amaramente, ma la mia voce tremò.
«Non è così» replicò lui, in difficoltà.
«E allora come dovrebbe essere?» chiesi io, alzando il tono di un’ottava. «Per una volta nella vita, spiegati, ti prego» aggiunsi, stringendomi nelle spalle.
Dopo aver esitato, si passò una mano tra i capelli e disse: «Non so come fare, adesso».
«Quando si tratta solo di scoparmi, ci sai fare benissimo invece!» urlai, guardandolo dritto negli occhi con una espressione dura. Le sue sopracciglia si inarcarono, mentre mi girai di traverso e mi strinsi ancor di più nelle spalle, circondandomi con le braccia. La mia bocca era tesa.
«Prenderai freddo, così» fece lui, avvicinandosi.
«Non credo ti riguardi, no?» risposi io, velenosamente. Danilo si bloccò, poi indietreggiò in direzione della porta e la aprì. Uno spiffero gelido proveniente dalla tromba delle scale pervase la camera.
«Dammi tempo» aggiunse, prima di lasciarmi lì, chiudendo la porta alle sue spalle.
Rimasi per qualche minuto immobile nel medesimo posto. Il ticchettio dell’orologio mi rimbombava nelle orecchie, era insopportabile. A passi lenti, tornai in camera da letto. Fermo sulla soglia, notai il solito campo di battaglia che si creava dopo ogni nostro amplesso. Le lenzuola pendevano alla rinfusa lungo i bordi del letto, mentre il coprimaterasso lasciava scoperta la parte sottostante in più punti. I miei vestiti giacevano a terra alla rinfusa. Cominciai a raccoglierli: pur non avendo la benché minima voglia in quel preciso momento, mi costrinsi a tenermi occupato per non pensare a niente. Raccolsi la camicia e i pantaloni, piegandoli ordinatamente sul bordo del letto, poi poggiai il blazer alla spalliera di una sedia e mi chinai per raccogliere le mutande che erano finite sotto il letto. Le presi e le osservai: erano strappate esattamente a metà sul davanti. La mente galoppò velocemente, fallii nel tentativo di imbrigliarla per riportarla nel mio stato di atarassia forzata.
La brama di Danilo per il mio corpo lo aveva spinto la notte precedente a strapparmi le mutande senza sfilarle: gli era bastato fare pressione con entrambe le mani e tendere il tessuto in direzione opposta. Poi aveva cominciato a baciarmi il basso ventre e a palparmi gambe e fondoschiena. Potevo sentire ancora le sue forti mani sul mio corpo, che lo esploravano avidamente, mentre io con le gambe attorno ai suoi fianchi lo accoglievo, lo imploravo di entrare e farmi suo, di possedermi. E così era avvenuto, ma la scopata della scorsa notte aveva lasciato spazio ad estesi momenti di tenerezza, di passione, di lunghi baci, non solo di sesso violento e animalesco.
Era stato questo a turbarlo? Non si aspettava di poter fare l’amore con me in un modo del genere? Con un altro uomo? Effettivamente, ripercorrendo gli istanti della notte precedente, non c’era stato un solo momento in cui le sue labbra avessero sfiorato il mio sesso. Non potevo nemmeno dire che ne fosse stato tentato, talmente ero invaso dal piacere da non accorgermene. Quindi ero solo un buco caldo di riserva per lui?
Le domande martellavano incessantemente la mia mente mentre, con ancora le mutande rotte in mano, mi distesi sul letto, rannicchiandomi. Poi, mentre una singola lacrima mi rigava il viso, caddi in un sonno profondo.
I giorni passarono lentamente, tramutandosi in settimane. Per molti giorni, il cielo milanese era ossessivamente grigio, ma non una singola goccia cadde. Ebbi l’impressione che stesse rispecchiando perfettamente il mio stato emotivo: mi sentivo in un limbo, non avevo la forza di provare emozioni. Ero un guscio vuoto monocromatico, grigio per l’appunto. Non provavo più nemmeno il desiderio di masturbarmi. Come un automa, mi trascinavo a scuola ogni giorno e svolgevo il mio lavoro con la solita dedizione, con l’obiettivo di non farmi trasportare dai pensieri. Il mio metodo funzionò e quasi non mi resi conto di essere alle porte delle vacanze di Natale. Me ne accorsi durante un pigro pomeriggio quando, tornando verso casa, stavo percorrendo una via secondaria e la luce della vetrina di un negozio catturò il mio sguardo. C’era un manichino che indossava un maglioncino invernale a collo alto di un bel blu scuro e dei pantaloni grigi a scacchi. Attorno al bordo del vetro, le luci a led intermittenti mi catapultarono nella realtà e, aguzzando lo sguardo, vidi nel negozio un piccolo albero di Natale decorato di tutto punto. L’accostamento dei colori mi piacque, così entrai per acquistare i due capi e indossarli il giorno di Natale.
Tornato nel mio appartamento, comprai senza indugio il biglietto del treno e mostrai a mia madre con un messaggio l’ora di arrivo presso la stazione del mio paese natale. Avrei passato lì l’intero periodo natalizio. Avevo bisogno come mai prima del calore dei miei affetti più cari, di abbandonare per un po’ la grigia vita milanese che mi aveva travolto e sommerso inesorabilmente. Il mio dito scorse automaticamente le chat seguendo una precisa operazione automatica, finché non aprii quella con Danilo. L’ultimo messaggio risaliva a qualche settimana fa, la sera della cena aziendale, ed era scritto da me: “Un paio di minuti e scendo”.
Un paio di minuti erano tutto il tempo che avrei chiesto per rivederlo.
Quando varcai la porta di ingresso di casa, sentii mia madre ai fornelli. Il dolce aroma di biscotti natalizi investì le mie narici: sono a casa, finalmente, pensai sollevato. Mi affacciai in cucina e, sorridendo, la vidi parlare al telefono mentre metteva una pentola sul fuoco.
«Sì Chiara, ho capito… Ho capito! Non appena riesci, vieni a casa!» e chiuse la chiamata con una vena di impazienza, sbuffando.
Chiara era mia sorella maggiore, aveva 32 anni e lavorava in un’azienda nell’ambito delle risorse umane.
«Ma’…» feci io, facendola sobbalzare sul posto.
«Fede, ma ti sei rincoglionito!?». Risi, mentre si portava una mano sul petto.
«Oh, andiamo ti sei spaventata per così poco? Sapevi che sarei arrivato oggi!».
«Poggia la tua roba in camera, tra poco si mangia» mi disse, riprendendo a cucinare.
Mia madre era una donna dura, che aveva sempre centellinato le sue dimostrazioni d’affetto nei nostri confronti. A dirla tutta, forse potevo dire di essere stato coccolato più di Chiara. Perciò, quell’accoglienza non mi lasciò sorpreso. Levai gli occhi al cielo e mi recai in camera mia.
Tutto era rimasto così come lo avevo lasciato mesi prima. Poggiai la valigia accanto alla scrivania e mi gettai sul letto, la testa affondata nel cuscino. Rimasi così per qualche minuto, godendomi la ritrovata tranquillità.
Quando Chiara arrivò per pranzo, mi diede un forte abbraccio e mi scrutò in viso: «Che hai?» mi chiese, lievemente preoccupata.
«Sempre con la tendenza a psicanalizzare tutto e tutti? Sto bene!» risposi con un sorriso, tentando di tranquillizzarla.
Il pranzo fu piacevole: mi era mancata la cucina della mamma e parlammo di un po’ di tutto. Del lavoro, dell’ambiente milanese, del tempo, della differenza abissale di servizi tra nord e sud. Ero talmente contento di essere tornato a casa che riuscii a sopportare tranquillamente una delle cose che odiavo di più, i discorsi qualunquisti. Finché non si arrivò all’argomento che, fra tutti, avrei voluto evitare e che me li fece rimpiangere.
«Scommetto che hai conosciuto qualche collega carina» fece mia sorella, ammiccando.
«Non ho conosciuto nessuno» replicai, distogliendo lo sguardo. «Le mie colleghe sono tutte delle cariatidi in attesa di andare in pensione» aggiunsi, con una smorfia.
«Mah, sarà…» disse lei scettica, in un sussurro. Mia madre, invece, mi scrutava con attenzione, gesto che mi fece arrossire all’istante e mi portò a chiederle imbarazzato: «Che c’è, ma’?».
«Nulla, non posso guardare mio figlio dopo mesi?». Distolse lo sguardo e riprese a mangiare. Sorrisi, lieto che quella conversazione fosse terminata.
Mio padre, che lavorava in una ditta di metalmeccanici, rincasò la sera stessa. Mi diede un buffetto sulla guancia e si sincerò sulle mie condizioni. Poi sprofondò nella sua poltrona, chiaramente esausto.
Dal canto mio, mi rintanai nella mia stanza e non ne uscii fino al mattino seguente. Non avevo molta voglia di affrontare altre conversazioni.
La vigilia di Natale, il cenone preparato da mia madre fu molto sobrio. L’avremmo trascorsi da soli, mentre il giorno dopo saremmo andati a pranzo da mia zia. Non avrei potuto chiedere di meglio per quella sera, non ero ancora pronto per avere troppa gente intorno e il cenone della vigilia sarebbe stato il mio banco preparatorio per il pranzo seguente.
Mia sorella aveva acquistato del delizioso vino bianco che ci scolammo entrambi, al punto che cominciammo a ridere a crepapelle rievocando vecchi ricordi. Mia madre partecipava con gioia, mentre mio padre sorrideva, godendosi pacatamente la sua famiglia finalmente riunita.
Dopo cena, ci spostammo in salotto. Il vino faceva sentire ancora i suoi effetti: la testa mi girava terribilmente e il cibo premeva sullo stomaco. Avevo decisamente esagerato.
Mia sorella si accasciò accanto a me, mentre mio padre si accomodava sulla sua poltrona. Di lì, mia madre, maniaca dell’ordine, riassettava le ultime stoviglie.
Poi il pendolo suonò, scandendo l’ora: era mezzanotte.
«Auguri!» esclamò mia sorella, piacevolmente brilla, e mi abbracciò. Ricambiai la stretta.
Mio padre, che si era appisolato, mugugnò qualcosa in risposta, scuotendosi dal suo torpore, mentre mia madre ci raggiungeva in salotto ricambiando gli auguri.
Gli istanti che seguirono furono molto poco lucidi, ma estremamente rapidi: presi il telefono, scorsi le chat fino ad arrivare a quella di Danilo e digitai “Buon Natale”. Lo feci senza pensare alle conseguenze e senza timore. Fu un gesto istintivo e spontaneo.
Improvvisamente, sotto il suo nome comparve la scritta “online”. Le spunte si colorarono di blu. Avevo il cuore in gola e lo sentivo battere all’impazzata. L’alcool sembrava essersi dissipato in un istante.
Poi, la dicitura “online” venne sostituita brutalmente da quella dell’ultimo accesso.
Lanciai il cellulare sul divano, gli occhi si riempirono di lacrime ed esplosi. Il mio spirito aveva covato dentro di sé delle emozioni incontrollabili che avevo cercato in tutti i modi di reprimere per troppo tempo, ma il coperchio era definitivamente saltato. Le lacrime sgorgavano copiosamente, mentre singhiozzavo e cercavo di prendere boccate d’aria. Non riuscivo a respirare.
Mia sorella saltò sul posto: «Oddio Fede, cos’hai??». Mio padre si risvegliò dal suo torpore e cominciò a guardarmi allarmato. Mia madre si avvicinò prontamente, chinandosi accanto a me e poggiando una mano sulla mia gamba. «Tesoro, di’ qualcosa…».
Tentai, più e più volte, ma non ci riuscivo: sentivo di annegare nelle mie lacrime. Ero a pezzi, completamente rotto. Poggiai la testa sul bracciolo del divano e il mio pianto disperato continuò ancora per qualche minuto.
Mio padre era seduto sul bordo della poltrona, pronto a scattare in caso di emergenza, mentre mia sorella mi carezzava i capelli.
Mia madre tornò con un bicchiere d’acqua, che mi invitò a bere lentamente e a piccoli sorsi. Gradualmente mi calmai e ripresi a respirare regolarmente.
«Non credere di lasciarci così, senza una spiegazione. Parla, adesso». Il tono di mia sorella non ammetteva repliche, mentre i miei genitori annuirono nel medesimo istante.
Così raccontai, sin dal principio. Lasciando da parte i dettagli intimi e modificando la parte iniziale del mio racconto, più per difendere loro dal preoccuparsi che me stesso, mi sfogai. Più parlavo e più mi sentivo leggero, galvanizzato da quella operazione. Mi resi conto di aver represso troppe emozioni, troppi stati d’animo, senza mai avere la possibilità di condividerli con nessuno.
Terminai la mia storia, a cui fece seguito un pesante silenzio. Dopo qualche secondo, venne rotto dalla voce di mio padre, che alzandosi annunciò: «Vado a letto» e sparì nel buio del corridoio.
Mia madre scosse la testa nella mia direzione: «Lascialo andare, ha solo bisogno di metabolizzare» e si sedette accanto a me.
«Lo ami?» chiese mia sorella.
Non risposi. Se avessi detto di sì, avrei mentito a me stesso; non amavo Danilo, come avrei potuto. Non c’era stato modo di coltivare un rapporto degno di tale nome. Anzi, a dirla tutta non ero nemmeno sicuro di poter definire quella situazione indescrivibile come “rapporto” di qualsiasi tipo. Eppure, eppure… qualcosa dentro di me mi impedì di pronunciare un “no” secco. Mi limitai ad asciugarmi il viso madido di lacrime.
«Sei un coglione» aggiunse lei.
«Perché?» feci io, guardandola con espressione interrogativa.
«Ti avevo chiesto di raccontarmi tutto, una volta a Milano. Invece a malapena mi hai inviato due messaggi. Ergo, sei un coglione».
Scoppiai a ridere, mentre mia madre mi avvolse in un abbraccio e mi baciò la tempia. Ero in paradiso.
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