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Danilo e Federico - Parte I: La storia di Danilo (13)


di vgvg91
01.02.2022    |    4.386    |    8 9.2
"«Io ti ho visto, so come sei fatto nel profondo..."
Passò un mese e arrivò la primavera a spazzare via i rigori del freddo inverno. Di Danilo non ebbi più notizie.
Quella sera di un mese prima, quando tornai a casa, vomitai: un po’ per la nausea che non mi aveva abbandonato un solo istante, un po’ per la forte tensione provocata da ciò a cui avevo assistito. Poi chiamai Chiara: il mio stato di choc la turbò al punto che mi raggiunse per un paio di giorni a Milano. Non parlai molto: mi limitavo a stare rannicchiato sul divano in una morbida coperta di lana, fissando il nulla. Nella mia mente, le ultime immagini di Danilo si susseguivano senza concedermi un attimo di pace. Piuttosto che combatterle, lasciai che fluissero liberamente, provando a trovarne un senso. Mai prima di allora avevo sperimentato sensazioni del genere: da una parte, la reazione violenta di Danilo mi aveva spaventato a tal punto che non avrei mai più voluto vederlo in vita mia; dall’altra, però, mi sentivo terribilmente in colpa ad averlo abbandonato in quello stato di profonda disperazione. Ci doveva essere una spiegazione.
Chiara se ne andò soltanto quando la rassicurai che sarei stato meglio e che mi sarei fatto sentire di frequente.
La primavera cominciò ad infondere nel mio cuore la serenità che avevo perso dopo il viaggio a Firenze. Alla fine, avevo deciso che sarebbe stato meglio per entrambi lasciare che il tempo operasse pazientemente per mettere a posto le cose, in un modo o nell’altro. Raggiunta questa consapevolezza, ripresi a pieno ritmo la mia vita. Eppure, per quanto provassi a ignorarlo, un angolino del mio cuore sperava ardentemente che il destino girasse verso una ben precisa direzione…
Durante una lezione a scuola, il mio cellulare prese a suonare incessantemente. Il numero non era memorizzato in rubrica, ma non avrei potuto comunque rispondere in quel preciso momento, quindi lo lasciai squillare a vuoto varie volte.
Terminata la giornata di lavoro, ero sulla strada di casa quando il cellulare riprese a squillare, così mi decisi a rispondere.
«Pronto?» feci, chiaramente spazientito da quella insistenza.
«Federico?». Era la voce di una donna.
«Sono io, chi parla?».
«Sono Vanessa».
Mi fermai in mezzo alla strada, impietrito. Un signore che camminava giusto dietro di me, mi venne addosso, non riuscendo a scansarmi di riflesso. Imprecò nella mia direzione e si allontanò, ma lo sentii a malapena: in quel momento la mia mente era del tutto assente, incapace di formulare pensieri e parole di senso compiuto.
«Pronto, mi senti?» chiamò la voce.
«S-sì, ci sono» balbettai.
«Ti chiamo per Danilo».
Il respiro mi si fece corto. Ebbi un’orribile sensazione.
«È tutto a posto?» dissi, tradendo una forte preoccupazione.
«A dire il vero… no» mi rispose la ragazza dall’altra parte dell’apparecchio.
«Cosa è successo?».
«Hai tempo per ascoltarmi?».
«Non preoccuparti, sono libero in questo momento». Adocchiai un panchina sgombra lì vicino e mi sedetti: temevo che le gambe cedessero da un momento all’altro.
«Sono stata da Danilo stamattina. È… non so nemmeno definire in che stato si trovi».
«Spiegati meglio, per favore» feci io, tentando di spronarla a continuare.
«Ok. Dopo che ci siamo lasciati…».
«A proposito di questo…» dissi io a disagio, ma mi interruppe immediatamente.
«Stai tranquillo, Federico. Il nostro amore, me ne rendo conto solo ora, era terminato già da tempo. Sempre ammettendo che Danilo mi abbia mai davvero amata». Percepii della profonda amarezza nella sua voce.
«Perché dici questo?» chiesi io.
«Sono mie sensazioni, ma non te ne curare. Non sono qui per parlare di questo. Dicevo… Dopo che ci siamo lasciati, abbiamo continuato a sentirci costantemente. Eravamo troppo legati dall’affetto per troncare il rapporto di netto. Finché, di punto in bianco non ha smesso di rispondermi, all’incirca un mese fa. Credevo fosse solo una coincidenza, ma il suo silenzio si prolungava. Per avere sue notizie, ho chiamato la sua sede di lavoro e lì mi hanno comunicato che si era licenziato già da due settimane. Così, sono venuta a Milano. Guido, il custode del palazzo, è stato così gentile da darmi una copia della chiave dell’appartamento di Danilo. Quando sono entrata, non potevo credere ai miei occhi».
Cominciai a sudare freddo, temendo ormai il peggio.
«L’ho trovato nel suo letto, in stato catatonico. Non ha battuto ciglio quando sono arrivata, credo che non si sia nemmeno accorto che io fossi lì. Ho provato a parlargli, a scuoterlo, a farlo alzare… è stato tutto inutile. Ho cominciato a sistemare un po’ la camera nel frattempo, quando ho sentito che stava bisbigliando qualcosa. Mi sono avvicinata con cautela per riuscire a sentire quei sussurri: piangeva con gli occhi sbarrati e ripeteva “Mi dispiace, Federico. Sono un mostro, un mostro”».
Mi portai una mano alla testa, oscurando la vista. Il racconto di Vanessa sembrava assurdo, eppure si trattava della realtà.
«Non riuscivo a capire a cosa si stesse riferendo. Così, ho preso il suo cellulare dal comodino e, scorrendo le chat, ho trovato la tua. Ho preso il numero, ti ho chiamato ed eccoci qui».
«Vanessa, io… non so cosa dirti, né so cosa fare» dissi io, esitante.
«Sai bene cosa fare, invece. Io purtroppo devo tornare a Roma, sono già in stazione. Ma partirò solo se avrò la tua parola che andrai da lui. Non sopporterei di saperlo abbandonato così».
«Io…» stavo tremando, mentre le dita stringevano con forza il bordo della panchina.
«Federico, ti prego. Ha bisogno di te. Sei l’unico che può aiutarlo».
Quando arrivai all’appartamento, mi avvicinai al gabbiotto di Guido.
«Ciao, Guido. Ti ricordi di me?». Il custode alzò lo sguardo e sorrise.
«Ma certo, ragazzo! Posso esserti di aiuto?».
«Ho… bisogno della chiave dell’appartamento di Danilo» dissi, esitante.
«Sei la seconda persona che mi chiede le chiavi del suo appartamento, oggi» fece lui, corrugando la fronte. «Dimmi, è accaduto qualcosa?».
Sospirai. «È una lunga storia, Guido. Ti prego, ne ho bisogno» supplicai.
Dopo qualche secondo, il custode mi porse le chiavi che aveva ancora sul bancone, sorridendo lievemente. «Avevo la sensazione che Vanessa non sarebbe stata l’unica a presentarsi qui oggi».
«Grazie mille, davvero». Presi le chiavi e salii di fretta con l’ascensore, poi infilai le chiavi nella toppa ed entrai.
La prima cosa che notai fu la sedia ancora capovolta in un angolo della stanza e mi raggelai: sembrava essere rimasto tutto cristallizzato a quella dannata sera in cui tutto era andato inesorabilmente in frantumi. Mi feci coraggio e avanzai verso la camera da letto.
Danilo era riverso sul letto di fianco, coperto dalle lenzuola e con le mani sotto il cuscino. La stanza emanava un odore terribile. Quando avvertì la mia presenza sulla soglia, voltò il capo e sgranò gli occhi. Poi prese a rantolare: «No… vattene».
«Non vado da nessuna parte» gli risposi con voce ferma.
«Non voglio farti del male».
«Non me ne farai» e mi avvicinai al letto. Danilo, nello stesso momento, si ritrasse contro la spalliera. Ignorando la sua reazione, mi sedetti accanto a lui. Non riusciva a guardarmi, teneva il viso basso. La barba era scarmigliata e aveva raggiunto una notevole lunghezza. Riuscii a intravedere incastrati tra i peli dei residui di cibo.
«Devi darti una sistemata» provai a dire, ma Danilo scosse violentemente la testa e ripeté: «Vattene, non dovresti stare qui».
«Perché no?» chiesi, ma trasalii quando mi urlò d’un tratto in faccia: «Perché non me lo merito!», poi nascose il viso tra le mani e prese a tremare.
«Hai ragione» replicai. «Tu non meriti che io sia qui. Ma sono io a meritare qualcosa, cioè capire cosa sia successo…».
«Che senso ha voler capire? Tu non puoi guarirmi!» continuò, con il viso affondato ancora nelle mani.
Persi la pazienza: mi accostai a lui e gli tolsi le mani dalla faccia. Poi, mentre sollevava lo sguardo verso di me, gli assestai un violento ceffone. I suoi occhi, però, rimasero vitrei.
«Adesso mi stai a sentire, idiota. Sì, sei un idiota e anche un grandissimo stronzo, ma sono ancora qui. Quindi ora ti alzi e fili in bagno a sistemarti. Io nel frattempo ripulirò un po’ questo scempio di stanza. Non voglio sentirti fiatare o protestare. Vai» gli intimai perentoriamente, indicando la direzione del bagno con la mano.
Credetti che avrei dovuto persuaderlo più vigorosamente; poi Danilo si alzò dal letto lentamente e si trascinò verso il bagno. Mi guardai attorno e mi feci forza, mentre tendendo l’orecchio mi assicurai che l’uomo avesse aperto il rubinetto dell’acqua.
Passai un quarto d’ora a cambiare le lenzuola, raccogliere i vestiti e dare una riassettata alla camera, poi raggiunsi Danilo in bagno. Lo trovai nella vasca, con le gambe piegate contro il petto e circondate dalle sue braccia, che guardava il vuoto.
«Non hai ancora finito?» gli feci.
«Non ho nemmeno iniziato…».
«D’accordo… me ne occupo io». Mi avvicinai e mi sedetti sul bordo della vasca. Raccolsi la spugna e cominciai a lavargli la schiena. La spugna passò sulla cicatrice e la osservai nuovamente. La mia mente rievocò gli eventi di quella sera, ma rimasi in silenzio.
«È opera di mio padre, quella…» sussurrò Danilo.
«Come?» replicai con aria interrogativa.
Danilo deglutì, poi riprese a parlare lentamente.
«Vivevo con la mia famiglia in un quartiere popolare di Roma. Sono figlio unico, ma nonostante i miei genitori dovessero tirare su un solo figlio, eravamo disperatamente indigenti. Con il suo lavoro precario, mio padre non riusciva a offrirci una vita dignitosa, ci accontentavamo davvero delle briciole. Quando ero piccolo, mia madre non aveva nessuno a cui lasciarmi per cercare lavoro; una volta che mi affacciai alla pubertà, provò a raggranellare qualcosa, ma mai nulla di definitivo o che potesse risollevarci. Questa situazione economica tremenda l’ho sempre vissuta, da che io ricordi. Lo sconforto cominciò a divorare mio padre, che finì per abbandonarsi all’alcool e al fumo. Così…». Danilo esitò un attimo, prima di riprendere il racconto. Io non replicai: temevo di interromperlo, pertanto continuai a lavargli la schiena e i capelli con estrema delicatezza.
«Così, prese a sfogare le sue frustrazioni su mia madre. Mio padre è sempre stato un uomo burbero, ma sotto gli effetti dell’alcool diventava una vera bestia. Ormai era all’ordine del giorno che mia madre ricevesse un ceffone in pieno viso o un pugno nello stomaco. Dal momento che mia madre aveva perennemente il volto coperto di lividi ed ematomi, si rifiutava di mettere piede fuori di casa. Allora mi occupavo io di sbrigare le commissioni. Mio padre o era a lavoro, oppure quando era a casa menava mia madre. Non riuscii mai a capire perché mia madre non trovasse la forza di ribellarsi, di prendere tutto e scappare quando lui non c’era. Su di me quell’uomo non ha mai alzato un dito, però fui costretto ad assistere per anni a quelle torture fisiche e psicologiche incessanti sulla persona più importante della mia vita. Finché…».
Danilo si bloccò: prese a singhiozzare sommessamente. Gli poggiai una mano sulla schiena: «Se non riesci a proseguire, non sentirti costretto a farlo» gli sussurrai, con la gola strozzata. Avevo gli occhi umidi, profondamente scosso da quel racconto straziante, ma decisi di mantenermi forte, per lui.
«No, devo. Meriti di sapere» rispose, prendendo un profondo respiro. Poi riprese con la sua storia: «Finché non crebbi. Potevo avere tredici o quattordici anni: crescevo in altezza di giorno in giorno, a vista d’occhio, e non riuscivo più a tollerare tutte quelle vessazioni. Una sera, la goccia fece traboccare il vaso della mia sopportazione. Mio padre tornò a casa più ubriaco del solito e ansioso di sfogarsi su quella povera donna. Le diede un calcio negli stinchi… Poi, con un ceffone, la fece cadere a terra. Mia madre urtò la testa e perse i sensi… Vidi mio padre avventarsi su di lei, ma io fui più veloce: mi frapposi tra di loro, gettandomi su mia madre per proteggerla e dando la schiena a quell’uomo. D’un tratto, mi bloccò la testa contro il petto di mia madre e sentii la mia pelle bruciare insopportabilmente: stava sadicamente spegnendo il mozzicone della sigaretta sulla mia schiena. Urlai, implorai di smetterla, ma non sembrò ascoltarmi: con un calcio, mi girò di schiena e mi pestò di botte. Fino a quel momento non mi aveva mai torto un capello. Uno, due, tre… Persi il conto degli schiaffi e dei pugni che mi scaricò addosso… Poi, vide il mio volto coperto di sangue e sembrò rendersi conto di quanto aveva appena fatto… si alzò e uscì da casa. Da allora, non si fece mai più vivo».
Avevo smesso di lavare Danilo, troppo sconvolto dal suo racconto. Continuavo a massaggiargli la schiena con la mano, come a volergli infondere coraggio.
«Da quel momento, giurai a me stesso che nessun altro in vita mia avrebbe osato mettermi i piedi in testa. Ho studiato sodo, mi sono spaccato la schiena partendo dal basso e sono arrivato dove mi trovo ora».
Sorrisi amaramente, soffocando a stento le lacrime. Poi baciai delicatamente la sua schiena. Al tocco delle mie labbra, Danilo si irrigidì, ritraendosi e voltandosi a guardarmi. Fu in quel momento che riuscii a intravedere in quello sguardo di ghiaccio tutti i suoi demoni.
«Non toccarmi, ti prego».
«Danilo, non fare così» lo supplicai, «ora è tutto chiaro…».
«No Federico, non hai capito un cazzo! Io sono esattamente come quell’uomo! Sono un mostro, sono violento! Io… devo proteggerti» riprese a piangere a singhiozzi, come quella sera di un mese prima.
«Non sei come lui!» ribattei io, ormai coinvolto dal turbinio delle emozioni.
«Non lo vedi?» fece lui, portandosi un dito alla tempia e stringendo i denti; gli occhi erano rossi e fradici di lacrime, rivoli di saliva schizzavano fuori dalla bocca ad ogni parola. «C’è qualcosa che non funziona, qui dentro! Sono pazzo, non sono capace di amare… nessuno, né Vanessa, né te».
«Smettila!» urlai, sovrastando le sue parole. «Io ti ho visto, so come sei fatto nel profondo. Non sei come quell’uomo, sei diverso da lui…».
«Io sono quell’uomo! Il vero me lo hai visto quando ti ho violentato, quando ti ho spinto contro il muro facendoti del male!».
«No! Il vero Danilo è quello che ho visto in cima al Campanile, quello che mi abbraccia forte a sé, che è in grado di fare l’amore, di accarezzarmi dolcemente i capelli… sei tu che non devi soffocare la tua vera natura!».
«Come fai ad esserne così sicuro, me lo spieghi?» urlò lui, senza porre un freno alla sua disperazione.
«Perché sento qualcosa per te!» gridai. Danilo smise di piangere, strabuzzò gli occhi e rimase impietrito, scrutandomi con i suoi occhi glaciali. «No, tu non puoi…» fece lui, in un sussurro.
«Invece sì» ammisi io, finalmente più a me stesso che a lui. «Non potrei mai sentire qualcosa per il mostro che descrivi. Invece, proprio perché ho scoperto tutto quello che tu sei, che puoi essere se solo volessi, sono qui ora, accanto a te. Lo capisci?».
«La tua è solo pietà che provi nei miei confronti, non lasciare che ti accechi».
Scossi la testa: «Non sono qui per pietà. Sono qui perché è dove voglio essere. Non so se sia sbagliato… Dall’esterno potrebbe sembrare di sì, anche tu lo pensi, ma solo io so cosa ho dentro». Mi avvicinai con cautela alle sue labbra, poi lo baciai. Quando mi allontanai, Danilo mi penetrava col suo sguardo; poi mi carezzò delicatamente la guancia. «Mi… ami?» sussurrò.
Non risposi: non avevo idea se quello che provavo per Danilo fosse amore. Sapevo solo che era un sentimento intenso mai provato prima; mi limitai ad alzarmi dal bordo della vasca. «Finisci di sistemarti. Poi raggiungimi in salotto» dissi, uscendo dal bagno. Anche lì, sistemai i residui della sua furia auto-distruttiva, come finalmente avevo compreso: sollevai la sedia e la rimisi al posto e pulii il pavimento con una passata di scopa.
Danilo mi raggiunse dopo una ventina di minuti: aveva accorciato la barba alla sua lunghezza consueta, pettinato i capelli e indossato dei vestiti puliti.
«Ti senti meglio?» gli chiesi, battendo una mano sul divano per invitarlo a sedersi accanto a me.
«Sì… Fede, mi dispiace così tanto…» rispose addolorato, accomodandosi.
«Basta scuse» dissi io, chiudendo la conversazione con fermezza. Poi mi misi a cavalcioni su di lui: Danilo non mi sfiorò, si limitò a scrutare i miei movimenti. Fui io a prendergli le mani e a condurle sui miei fianchi.
Facemmo l’amore in quella posizione: per la prima volta, guidai io il nostro amplesso. Quando il membro di Danilo si fece duro e possente a contatto con lo sfregamento del mio ano, lo inumidii con un po’ di saliva e con la mano lo spinsi nelle mie viscere, gemendo di piacere. Poi, cominciai a salire e a scendere sul suo membro. L’uomo era rapito dalle mie azioni, non mi staccava gli occhi di dosso. Le pareti del retto cedettero immediatamente all’avanzata del caldo palo di carne, desiderose di accoglierlo, finché la cappella non arrivò a colpirmi la prostata. Aumentai la velocità, auto impalandomi su quel magnifico cazzone, mentre affondavo le mie mani sul suo petto massiccio e Danilo mi stringeva i fianchi.
Ansimammo, confondendo il nostro piacere in un unico impulso sessuale: quando giungemmo all’orgasmo, fu come toccare le vette del paradiso. Danilo scaricò il suo seme dentro di me, producendo un vero e proprio torrente caldo e denso che prese a gocciolarmi dal buco. Io, con un leggero movimento di mano, mi segai e schizzai sul suo petto. Poi mi accasciai su di lui, entrambi sporchi dei nostri umori.
Mentre ancora ansimavo, Danilo mi circondò con le sue possenti braccia e mi sussurrò all’orecchio: «Grazie».
«Dove si trova tua madre ora?» gli risposi, poggiando la testa sulla sua spalla.
«Dopo quel giorno, mia madre venne ricoverata in una clinica psichiatrica ed io finii in affido. Quando ho cominciato a guadagnare cifre più importanti, l’ho fatta trasferire nel centro di recupero migliore di Roma. Si trova ancora lì e non so per quanto tempo ci resterà».
Annuii, poi aggiunsi: «Come si chiama?».
«Serena» rispose Danilo. Alla fine, tutti i pezzi del puzzle collimarono.
«Vorrei incontrarla».
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