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Danilo e Federico - Parte I: Cicatrici (12)


di vgvg91
31.01.2022    |    4.049    |    5 9.4
"«È stato l’unico discorso che ho seguito da cima a fondo»..."
L’ultimo giorno della nostra permanenza a Firenze, Danilo avrebbe dovuto tenere la sua conferenza. Mentre era in bagno a prepararsi, decisi che avrei assistito anche io, ma evitando accuratamente di informarlo prima, così da fargli una sorpresa.
Fantasticavo sulla notte di sesso infuocato appena trascorsa, quando lo squillo di un cellulare mi riportò sul pianeta Terra. Mi guardai attorno. Il mio era accanto alla pila di compiti che stavo correggendo, ma non emetteva alcun suono. Voltai la testa e mi accorsi che si trattava del cellulare di Danilo. Esitai un attimo: poteva essere una chiamata di lavoro importante, ma a quanto pare non si accingeva ad uscire dal bagno. Mi morsi le labbra e mi avvicinai. Sul display lampeggiava un nome: “Serena”.
Lottai contro la mia curiosità: non avevo la minima intenzione di impicciarmi dei suoi affari privati. E poi, con ogni probabilità, Serena poteva benissimo essere una sua collega di lavoro. Lasciai perdere e, facendo a pugni contro la mia stessa curiosità, tornai a sedere allo scrittoio.
Dopo qualche secondo, Danilo uscì dal bagno, già vestito di tutto punto in un completo formale elegantissimo.
«Stai davvero bene» gli dissi, sorridendo.
«Il mio cellulare ha suonato?» mi chiese lui, senza rispondere al mio complimento.
«Sì, ma ero impegnato a correggere i compiti e ho lasciato squillare a vuoto» risposi, sollevando le spalle.
Osservai Danilo raccogliere il telefono e informarsi sulla chiamata persa: la sua espressione cambiò, in un modo molto simile a un’altra occasione che avevo notato negli scorsi mesi. Poi sbuffò e intascò il cellulare. Mi trattenni dal rivolgere alcuna domanda, ma scrutai con interesse le sue azioni.
Dopo essersi specchiato rapidamente, si avviò verso la porta. «Allora io vado, ci vediamo stasera».
«Non dimentichi nulla?» chiesi io, sollevando le sopracciglia e piegando la bocca.
«Dimentico qualcosa?» mi fece eco lui, passandosi una mano sulle tasche.
«Lascia perdere» risposi, accigliandomi e tornando a guardare in direzione dello scrittoio. Poi lo sentii attraversare la stanza a grandi falcate e girare la sedia sul quale mi trovavo verso di lui, facendomi trasalire.
«Non fare questi giochetti con me. Se vuoi un bacio, me lo dici» mi disse, con il viso a pochi centimetri dal mio. Poi mi baciò delicatamente.
«D’accordo» risposi, dandogli un buffetto sulla guancia. «Ma non spaventarmi così».
«Questo non posso promettertelo» disse, uscendo.
Aspettai qualche secondo, poi mi alzai, infilai il giubbotto e lo seguii, mantenendo una discreta distanza. Purtroppo, non avevo idea di dove si tenessero le conferenze, quindi fui costretto mio malgrado a pedinarlo.
Ebbi l’impressione di essere quasi un criminale ma, fortunatamente, la sede non era troppo distante dall’hotel: sollevato, entrai nel palazzo una manciata di secondi dopo di lui.
C’era più gente del previsto, però mi fu d’aiuto per trovare la stanza giusta, seguendo il flusso di persone.
Presi posto in una delle ultime file, facendomi piccolo piccolo per non dare nell’occhio, e attesi pazientemente il suo turno. Le orazioni si susseguirono piuttosto rapidamente, ma il loro contenuto mi annoiò nel giro di pochi minuti. Sbadigliai vistosamente, mentre una signora seduta accanto a me mi guardò con la coda dell’occhio, profondamente sdegnata: soffocai una risata.
Trascorsa un’oretta abbondante, vidi Danilo salire finalmente sul podio e salutare l’uditorio con formalità. Mi riscossi dal torpore, poi mi posizionai ben eretto sulla sedia, quando notai che con gli occhi l’uomo percorreva la sala. Poi posò gli occhi su di me e mi intravide: sorrisi.
«Ehm…» fece lui, in difficoltà, ma si riprese immediatamente. Potevo giurare di averlo visto abbozzare un sorriso compiaciuto.
«Ci sai davvero fare con le parole!» esclamai, mentre eravamo in macchina, di ritorno verso Milano.
«Non era necessario che venissi, ma ti ringrazio. Ho apprezzato molto».
«È stato l’unico discorso che ho seguito da cima a fondo».
Danilo rise: «Allora potrei interrogarti, per verificare che tu abbia ascoltato con attenzione».
«Il professore qui sono io» gli ricordai, ironicamente.
«Perfetto, avrei giusto bisogno di un ripasso. Che ne dici di passare la notte da me, stasera?» mi propose.
«Con piacere. Devo assicurarmi che tu non abbia delle lacune».
«Il mio compito è riempire le tue, di lacune» rispose, marcando l’ultima frase con particolare enfasi. Divenni di fuoco e borbottai: «Hai ragione».
Il viaggio trascorse tranquillamente. Danilo mi chiese quali lezioni dovessi tenere nei giorni successivi e il suo interesse mi procurò un moto di gratitudine. Mi ascoltava, senza parlare, ma ebbi l’impressione che fosse interessato dai miei discorsi. Avevo il vizio di parlare a raffica e diventare particolarmente prolisso, se si trattava di un argomento che mi piaceva. Terminata la mia orazione, calò il silenzio. Danilo accese la radio, che ci fece compagnia lungo il tragitto. Senonché, alle porte di Milano, il cellulare di Danilo squillò nuovamente. Levai lo sguardo dal registro elettronico che stavo consultando e lessi sul display per la seconda volta quel nome: “Serena”. Danilo si apprestò a rifiutare la chiamata, piuttosto impaziente. Stavolta, non riuscii a trattenermi.
«Chi è?».
«N-nulla di importante. Non preoccuparti».
«Se lo dici tu…» conclusi, turbato da quella reazione. L’aria si fece più pesante.
Varcammo l’ingresso del palazzo. Danilo non aveva più proferito parola: si limitava a camminare con lo sguardo fisso davanti a sé. Ebbi l’impressione che fosse assorto profondamente nei suoi pensieri, e ne ricevetti la conferma quando una voce lo chiamò: «Danilo! Sei tornato, allora».
Un signore di mezza età lo guardava dal gabbiotto accanto all’ingresso, con un largo sorriso. Danilo scosse la testa, dando segno di essere ritornato nel mondo reale, poi si voltò verso la fonte della voce.
«Ciao, Guido. Tutto a posto?».
«Sì, non ci sono stati problemi» fece il signore amabilmente, poi volse lo sguardo su di me.
«Oh, certo. Lui è Federico…» rispose Danilo, esitando.
«Piacere di conoscerla» mi affrettai a dire, imbarazzato.
Il custode sghignazzò: «Non è la prima volta che vieni qui, vero ragazzo?».
«A dire il vero, sono stato qui un paio di volte» confermai con un cenno del capo.
«L’ultima volta ti ho visto passare come una belva davanti al gabbiotto, ma non ho fatto nemmeno in tempo a chiederti chi fossi. Poi, se non erro ti ho visto scendere due giorni dopo. Non ti ho detto nulla, perché ho capito subito che fossi un bravo ragazzo e non un delinquente» disse, ridendo. Dal canto mio, avvampai e rimasi in silenzio.
«Non ne ha proprio l’aspetto, Guido. Ora dobbiamo proprio andare. Buonanotte» replicò Danilo, interrompendo quella imbarazzante conversazione.
«Buonanotte a voi, ragazzi. Divertitevi!».
Mi allontanai con gli occhi sbarrati, mentre Danilo al mio fianco riprese a camminare velocemente, senza tradire emozioni.
Una volta entrati nell’appartamento, Danilo mi piantò in asso senza darmi spiegazioni, recandosi in bagno. Lo sentii aprire l’acqua del rubinetto: la mia irrefrenabile curiosità, stimolata dal suo comportamento misterioso, ebbe il sopravvento, quindi mi accostai alla porta e percepii dopo qualche secondo la sua voce, che aveva cercato di camuffare con lo scorrere dell’acqua.
«Ti ho già detto che ero impegnato in questi giorni… Sì, sì lo so. Verrò non appena mi sarà possibile». Quell’atteggiamento bizzarro mi suscitò ulteriori domande: sembrava volesse nascondermi qualcosa. Perso nei miei pensieri, non mi resi nemmeno conto che Danilo aveva chiuso il rubinetto, interrompendo lo scrosciare dell’acqua nel lavabo. Spalancò la porta e mi trovò lì, immobile come una statua di sale. La sua fronte si corrugò.
«Stavi origliando?». Sarebbe stato inutile mentire.
«Sì, scusami…».
Danilo mi scostò con il braccio. «Odio queste cose. Non farlo mai più».
«È che non mi dici mai nulla. Sono mortificato, davvero».
Sospirò profondamente, mantenendosi però visibilmente teso: «Va bene, Fede, ma fidati di me. Quando sarò pronto, te ne parlerò».
Annuii e desistetti: per ora, mi accontentai della sua parola. «Dai, mi faccio perdonare. Hai detto che ho molte lacune da colmare, no?».
«Già» fece lui, mentre gli occhi gli brillarono maliziosamente. Lo presi per mano e lo condussi in soggiorno. L’uomo torreggiava su di me, con la sua imponenza fisica. Tremai dall’eccitazione e cominciai a sbottonargli la camicia, mentre Danilo, più rilassato, apprezzò il trattamento che gli stavo riservando. Affondai le mani sul suo petto caldo: Danilo mi prese il volto fra le mani e mi scoccò un bacio.
Lo feci voltare e gli sfilai la camicia, poi percorsi con le mani le spalle, scendendo lungo la schiena. Gli diedi un paio di baci, gustando il sapore della sua pelle. Poi le mie labbra toccarono una piccola increspatura che andava a interrompere la perfetta trama della sua pelle in un punto preciso. Aprii gli occhi e osservai con attenzione il punto: si trattava di un cerchio dal diametro poco esteso, in cui la pelle era leggermente raggrinzita e di colore marcatamente diverso dal resto. Lo sfiorai con le dita: la memoria tattile mi ricordò di averlo già percepito durante i nostri amplessi, ma non l’avevo mai visto direttamente.
«Cos’è questo?» gli chiesi.
Danilo si irrigidì di colpo, ma non si girò. Avvertii i suoi muscoli contrarsi nel medesimo momento.
«Nulla» disse. La sua voce era fredda, tagliente. Mi accigliai e insistetti, noncurante della sua reazione.
«Sembra una sorta di cicatrice» notai, percorrendone il diametro con l’indice.
«Ti ho detto che non è niente» disse lui, ringhiando. Si voltò: il viso era in fiamme e l’espressione ancor più corrucciata di prima.
«D’accordo, calmati. Ho fatto una semplice domanda» mi difesi, alzando le mani.
«Non ho più voglia». Il suo volto si rabbuiò. Danilo si allontanò e prese a infilarsi la camicia. «Se vuoi tornare a casa tua, fai pure» disse, procedendo verso il corridoio.
Rimasi di sasso: l’idillio vissuto nei giorni precedenti si stava inesorabilmente sgretolando davanti ai miei occhi. Il repentino cambio di umore di Danilo cominciava a turbarmi seriamente, poiché non riuscivo a coglierne il motivo.
«Spero che tu stia scherzando!» replicai, alzando la voce. L’uomo si arrestò.
«No, per niente». La sua voce tremava, era visibilmente scosso ma non riuscivo a capacitarmi di quella reazione esagerata.
«Non posso nemmeno farti una semplice domanda e tu reagisci in questo modo. Sei assurdo!».
«Federico, ti avverto… basta così». Le sue mani si strinsero a pugno, le nocche si fecero bianche.
«No, finiscila tu! Stai avendo una reazione esagerata per una cicatrice del cazzo! Come posso…».
Non terminai mai la frase: in un balzo, Danilo si avventò su di me, il volto contorto in una espressione di incontrollabile ira. Mi afferrò dai polsi, stringendoli violentemente.
«Ho detto BASTA!». Poi mi spinse, con tutte le sue forze.
A malapena ebbi coscienza di finire catapultato all’indietro, finché il mio corpo non incontrò il muro. La mia testa sbatté violentemente contro la parete: sentii un dolore sordo e mi accasciai a terra. La vista si annebbiò, respiravo a fatica, mentre il dolore alla testa si fece insopportabile. Tentai di sollevare la mano, ma tutto intorno a me girava vorticosamente: potevo sentire il cuore accelerare il proprio battito all’impazzata e le palpebre battere freneticamente, provando a dissipare il velo che si era formato davanti.
«No… no, no, no…» sentii dire Danilo, ripetendo ossessivamente quella parola. Con la vista offuscata, lo vidi avvicinarsi a me e accovacciarsi. Mi prese il viso tra le mani, ma ero ancora troppo stordito per mettere a fuoco, così gli restituii uno sguardo vacuo e disorientato. A quella visione, Danilo allentò la presa su di me e piombò a terra.
«Sono un mostro…» la sua voce tremava. Sentii un singhiozzo, poi il suono del suo respiro farsi più affannoso.
«Danilo…» sussurrai a fatica, cominciando a distinguere i contorni. La testa mi pulsava terribilmente, il dolore si faceva sempre più acuto. Mi sfregai gli occhi: Danilo era seduto a terra, a pochi passi di distanza da me e si guardava le mani, percorse da un tremito incontenibile. Gli occhi erano gonfi di lacrime: non l’avevo mai visto così.
«Danilo…» ripetei, mettendomi in piedi.
«No!» urlò lui ritraendosi, fuori controllo. «Vattene!».
«Ho… ho bisogno di un po’ di ghiaccio» dissi io, avanzando verso di lui e lottando contro la nausea provocata dalle vertigini.
Anche Danilo si alzò in piedi.
«Devi andartene di qui». Gli occhi erano iniettati di sangue.
«No, devo capire…».
«Sparisci!» gridò all’improvviso, con quanto fiato aveva in gola. Era un grido disperato, di profondo dolore. Le sue labbra schiumavano, le lacrime scendevano ormai copiosamente. Ero terrorizzato, ma lui sembrava più terrorizzato di me: sembrava terrorizzato da se stesso.
«Esci fuori di qui! Fuori! E non tornare mai più!». Era fuori di sé, affondava le dita nella carne delle sue guance e piangeva senza sosta.
Rimasi immobile, paralizzato. Quasi dimenticai il dolore alla testa quando, vedendomi sordo alla sua richiesta, Danilo sollevò di peso una sedia e la scaraventò dall’altra parte della stanza, lanciando un urlo. Il frastuono si propagò per tutta la camera.
«Ti ho detto di sparire dalla mia vita! Sono un mostro! So solo farti del male, perché non lo capisci?». Si accasciò di nuovo per terra, carponi. A quella vista di profonda disperazione, le lacrime mi pervasero il viso.
«Danilo, io…» tentai di dire.
«Federico, ti scongiuro… Vattene via!». Urlò quelle parole con una violenza inaudita, mentre le vene sul collo arrossato sembrarono sul punto di esplodere. Il grido mi investii in pieno, colpendomi allo stomaco come se qualcuno mi avesse assestato un pugno, al punto che cominciai ad indietreggiare. Afferrai il trolley e varcai la soglia, chiudendomi la porta alle spalle, sotto choc.
Dall’altra parte della porta, sentii Danilo piangere e urlare tutto il suo dolore.
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