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Gay & Bisex

Diritti d'Autore - 2


di adad
18.08.2020    |    4.290    |    2 9.2
"” “Finora m’hai solo amato… - sospirò Francesco, baciandolo – Quale sarà la punizione?” “E’ questa la punizione, - rispose l’altro, rinnovando il bacio –..."
QUEST’INVERNO A ROMA

L’aroma dolciastro dei pini gli arrivava a tratti, diffuso dalla brezza leggera che spirava verso il mare in quelle ore ancora mattutine, e gli riportava alla mente ricordi lontani, o forse fantasie di altri tempi e altri luoghi.
Francesco era giunto a Kouvalos il giorno prima. Era un’isoletta dimenticata, poco più grande di uno scoglio e forse neanche menzionata negli atlanti: quattro case, una locanda senza grosse pretese, un piccolo emporio e un porticciolo per alcune barche di pescatori: un luogo incantato, ma troppo povero e ristretto per essere toccato dal flusso del grande turismo.
Francesco ci si era imbattuto per caso, quando il battello che lo stava portando verso un’altra isola ben più famosa si era fermato per sbarcare la posta, i giornali del giorno prima e qualche altra cosa: ne era stato conquistato all’istante e aveva deciso di sbarcare e fermarsi lì per la sua settimana di vacanze.
La proprietaria della locanda lo aveva indirizzato verso quella spiaggetta difficile da raggiungere e forse proprio per questo del tutto deserta. Bisognava, infatti, allontanarsi qualche chilometro dal paese, salire un’erta rocciosa per un centinaio di metri, tra cespugli di ginestre, mirto e oleandri, e poi scendere dall’altra parte un sentierucolo pietroso, fino ad arrivare…
Appena Francesco si trovò per la prima volta di fronte a quello spettacolo, dimenticò all’istante il sudore e le imprecazioni che gli era costato arrivarci: in fondo al sentiero si apriva una caletta ampia qualche centinaio di metri, chiusa ai lati da due alti speroni impraticabili e alle spalle da una minuscola pineta, che risaliva fino a metà della costa. Per il resto, il verde dei pini, l’oro finissimo della sabbia e l’azzurro del mare, le cui onde si smorzavano sussurrando sulla battigia.
D’impulso, Francesco si era liberato dello zainetto con le provviste, si era spogliato, lasciando tutto ai margini della pineta ed era corso a tuffarsi. Era rimasto un pezzo a sguazzare, sentendosi ritemprare nelle acque di quel mare, così pure da essere abitate dagli dei. Quando si sentiva stanco, si lasciava andare sulla schiena, facendo il morto, e poi riprendeva a nuotare, godendosi la frescura dell’acqua che gli scivolava in mezzo alle gambe, gli carezzava i coglioni, gli scorreva sul buco de culo, facendogli un effetto stranissimo.
Poi, ai primi brividi di freddo, Francesco era tornato a riva, aveva steso sulla sabbia il telo da bagno e si era sdraiato ad arrostirsi al sole, beandosi del tepore come una lucertola selvatica. Una volta che il sole fu troppo forte, si ritirò ai margini della pineta, dove c’era sufficiente ombra, e si sedette con la schiena appoggiata ad un pino, immerso nella bellezza ineffabile del luogo.
Un pensiero gli attraversò fulmineo la mente: “In questo posto abita un dio…”, tanta era la suggestione che ne traeva.
Mangiò uno dei panini preparatigli alla locanda, bevve l’acqua della borraccia, per fortuna ancora fresca, e infine si distese all’ombra e si appisolò.
A destarlo fu uno scalpiccio di pietre smosse sul sentiero.
“Chi cazzo è?”, si chiese seccato.
Si drizzò a sedere e si volse a guardare: quello che vide lo lasciò per la seconda
volta senza fiato: un giovanottone veniva verso di lui con un sorriso radioso sulla faccia. Indossava solo un paio di pantaloncini corti, che mettevano ancor più in risalto il suo fisico magnificamente modellato. Le ciocche scomposte dei suoi capelli biondastri, gli conferivano un’aria sbarazzina che lo rendeva in qualche modo ancora più affascinante.
“Ciao.”, fece quello, avvicinandosi.
Era indubbio che veniva proprio per lui.
“Ciao”, rispose Francesco, allungando la mano a prendere qualcosa con cui coprirsi l’inguine.
“Oh, non serve: qui non c’è mai nessuno, si può stare tranquillamente nudi.”, osservò lo sconosciuto.
Francesco aveva la mente in subbuglio.
“Sei italiano?”, chiese stupidamente.
“No, sono greco. - fece l’altro, accosciandoglisi vicino – Conosco la tua lingua perché ho lavorato in Italia qualche anno, prima di tornare a vivere qui.”
E infatti Francesco si accorse di quella leggera inflessione straniera, che lo rendeva ancora più seducente.
“Sono il figlio della proprietaria della locanda, - continuò il giovane - è stata lei a dirmi che eri qui e ho pensato che avresti gradito un po’ di compagnia. Ti disturbo, forse?”
“N… no, affatto… anzi…”, balbettò Francesco, ormai mezzo impallato.
“Ok, mi chiamo Markos.”, e gli tese la mano.
“Francesco”, fece lui e gliela strinse, sentendo una vibrazione risalirgli il braccio a quella stretta.
Markos tirò fuori un telo dallo zainetto e lo stese accanto al suo, lisciandolo per bene. Poi si rialzò e gli diede le spalle, dando mostra di sbottonarsi i pantaloncini.
Francesco lo fissava con il cuore in gola, mentre quello con mosse lente se li sfilava, esibendo due chiappe polpose appena velate da una rada peluria paglierina. Non indossava mutande, sotto!...
Poi si voltò verso di lui. Francesco cercò disperatamente di mostrarsi indifferente davanti al suo cazzo lungo e carnoso, che sbucava dal folto cespuglio del pube, penzolando verso il basso.
Come indovinando il motivo dello stupore dipinto sul volto dell’altro, Markos si coprì l’inguine con le mani e fece spallucce sorridendo. Poi gli si distese accanto a così poca distanza, che Francesco si sentì subito avvolgere dal sentore del suo corpo, specie quando Markos sollevò le braccia, incrociandosele sotto la nuca, sprigionando così l’afrore inebriante delle ascelle sudate.
Qualcosa cominciò a sommuoversi nel basso ventre di Francesco, tanto da indurlo a girarsi a pancia in giù, puntellandosi sui gomiti, ufficialmente per poter parlare meglio, ma in realtà per allungare meglio l’occhio sulle desiderabili grazie del nuovo amico.
E come dargli torto, del resto? Il fisico di Markos sembrava uscito dalle mani sapienti di un antico scultore: le ciocche scomposte dei capelli, i tratti del volto, il torace morbidamente plasmato… tutto gli richiamava alla mente un passato lontano, in cui la bellezza virile era seducentemente valorizzata, tranne l’uccello, che nella sua vigoria sembrava uscito invece da un video porno di ultima generazione… l’uccello molle e indolente, ripiegato in basso, a lato dei coglioni, fra le cosce divaricate.
Avrebbe voluto dire qualcosa, Francesco, avrebbe voluto fare qualcosa, ma si limitava a sogguardare l’altro che si godeva, ad occhi chiusi, la mezza ombra della pineta: lo carezzava con gli occhi e si inebriava al suo odore, con la mente, e non solo, in subbuglio.
Fu Markos a rompere il silenzio.
“Rischi di bruciarti la schiena, - disse, sollevando la testa a guardarlo – dovresti metterti qualcosa. Il sole picchia qui da noi.”
“Mi sono dimenticato di portarmi la crema, - rispose Francesco – Pazienza, cercherò di rimanere all’ombra.”
“Aspetta”, fece Markos e, tiratosi a sedere rovistò nello zainetto, tirandone fuori un flaconcino.
Francesco allungò la mano per prenderlo, ma:
“Sta giù, - disse Markos – faccio io.”
Lui si appiattì sull’asciugamano e l’altro gli si pose accanto in ginocchio, gli versò del liquido tiepido sulla schiena e cominciò a massaggiare con una delicatezza, che nessuno avrebbe supposto in quelle mani.
Il sollievo sulla pelle fu immediato, ma fu immediata anche la reazione in un altro luogo, soprattutto quando le mani di Markos presero a spalmargli quella crema lenitiva sempre più in basso, fino ad arrivare prima a sfiorargli e poi a manipolargli anche le natiche. Fu qui, anzi, che le mani unte di Markos sembrarono indugiare con una cura maggiore, quasi voluttuosa, spingendosi ogni tanto fin dentro lo spacco.
D’un tratto, Francesco si sentì sfiorare il fianco da qualcosa, qualcosa di caldo e bagnaticcio. In qualche modo riuscì a padroneggiarsi.
“Cosa sta succedendo lì sotto?”, bofonchiò in tono scherzoso.
“Quello che natura pretende…”, rispose Markos con voce un po’ arrochita.
Allora Francesco allungò la mano e andò a sbattere nel cazzo eretto dell’altro.
“Ma che diavolo?...”, fece, girandosi e fissando con occhi sgranati quell’enorme erezione.
“E questo cosa sarebbe?”, esclamò scioccamente, impugnando quella mazza spessa quanto il suo polso e lunga quasi quanto l’avambraccio.
Markos scoppiò a ridere.
“Questo è l’omaggio che facciamo ai turisti.”, rispose con gli occhi che brillavano di cupidigia e di felicità.
“Sarebbe scortese non accettarlo, allora.”, esclamò Francesco, la cui confusione era del tutto scomparsa.
E giratosi, senza mollare quel grosso arnese, lo scappellò e cominciò con foga a slinguazzarne il glande. Sapeva di miele, sapeva di cannella, sapeva delle più misteriose spezie orientali; ogni slinguata era una sferzata di libidine, che lo invogliava a continuare, finché in preda ad una foga ormai incontrollabile, lo avvolse tutto con le labbra.
Ma la cappella era troppo grossa, non riuscì a ingoiarla tutta, allora si concentrò a lavorarla con la lingua come poteva, mentre con una mano impugnava il tronco e lo segava lentamente, e con l’altra gli impastava le chiappe, spingendo le dita fin dentro lo spacco del culo.
Markos non fu da meno: dopo un po’ che si fu goduto quell’omaggio alla sua virilità, gli si pose sopra a cavalcioni e gli si avventò sul cazzo, ingoiandolo tutto intero fino alla radice con un mugolio di soddisfatta cupidigia.
Stettero così a succhiarselo, gustando il sugo che sgorgava ad entrambi copioso ed entrambi attenti a non oltrepassare la soglia di non ritorno. Troppo grande era la voglia di protrarre quel piacere più a lungo possibile.
Ma era un altro l’obiettivo di Francesco: ad un tratto, infatti, smise di succhiare il cazzo di Markos, gli infilò la testa fra le cosce, gli affondò il volto nello spacco del culo e cercò con la punta della lingua l’ingresso proibito. E quando lo trovò, ci si immerse famelica, prendendo subito dopo a slinguarlo come non mai.
Markos si irrigidì, evidentemente era la prima volta che glielo facevano, ma poi si rilassò con un sospiro e riprese a succhiare con maggiore goduria il cazzo di Francesco. Proseguirono questa piacevole occupazione, finché, d’un tratto, Francesco sentì lo sfintere di Markos contrarsi ripetutamente attorno alla sua lingua e nel contempo il pulsare del cazzo sul suo petto, mentre una sensazione di calore e subito dopo di bagnato gli dilagava sulla pancia.
Subito dopo fu lui a venire, nella bocca di Markos, che ingoiò tutto senza battere ciglio.
“Ma guarda come mi hai ridotto!”, finse di rimproverarlo Francesco, una volta ripreso fiato.
“Avevo una voglia… - sorrise Markos – Dai, andiamo a lavarci.”, e presolo per mano, lo tirò in piedi e corsero insieme a tuffarsi in mare.
“Quando sono arrivato, stamattina, - disse Francesco più tardi, mentre erano seduti fianco a fianco sulla battigia – ho sentito in questo posto la presenza di un dio… e poco dopo sei arrivato tu.”
“Infatti, questo luogo mi è sacro, - rispose Markos, assumendo un tono serioso – e tu l’hai violato.”, e veramente non sembrava più lui, mentre parlava, tanto la luce del sole al tramonto lo trasfigurava.
“Sei venuto per punirmi, allora?”, fece Francesco, perso nei suoi occhi.
“Per punirti e per amarti.”
“Finora m’hai solo amato… - sospirò Francesco, baciandolo – Quale sarà la punizione?”
“E’ questa la punizione, - rispose l’altro, rinnovando il bacio – che non potrai più fare a meno di me… sei condannato per sempre ad essere mio.”
“Per sempre?”
“Per sempre…”
“E se ti dicessi che non potrei chiedere di meglio?”
“Vediamo se lo dirai ancora, quando sarai impalato qui sopra…”, ghignò Markos, impugnandosi l’uccello di nuovo duro.
Si baciarono ancora, sulla riva del mare, come due antiche creature emerse dal fondo marino, mentre la risacca si smorzava placidamente attorno ai loro piedi.
Era quasi buio, quando tornarono alla locanda.
“Verrai domani?”, gli chiese Francesco.
“Domani esco a pesca. – rispose Markos – Ci vedremo domani sera: pescherò qualcosa di buono per te.”, e si salutarono con un bacio furtivo.
Ma contrariamente alle aspettative e alla promesse, la sera dopo Markos non venne e i due non ebbero più modo di vedersi: nelle isole vicine si era nel pieno della stagione turistica, come gli spiegarono, la richiesta di pescato era al massimo nei ristoranti e nei mercati, per cui spesso le barche restavano in mare pressoché giorno e notte.
I primi giorni, Francesco attese con ansia che Markos comparisse, dalla terra o dal mare, dovunque volesse, purché venisse da lui, tenendo fede alla sua promessa; ma poi si arrese all’evidenza e si rassegnò a godersi da solo quel residuo di vacanza.
La mattina della partenza, Francesco saldò il conto e salutò la padrona della locanda, assicurando che si era trovato benissimo e promettendole di tornare.
Sarebbe stato difficile, ma le promesse non costano niente, come aveva imparato a sue spese.
Era sulla banchina, in attesa del traghetto, assorto a guardare per l’ultima volta quel mare straordinario, quando sentì una mano che gli sfiorava la spalla. Si voltò.
“Ehi!”, fece illuminandosi di gioia alla vista di Markos.
“Parti…”, era una constatazione, più che una domanda.
Francesco annuì: un groppo alla gola gli impediva quasi di parlare.
“Ti ho aspettato.”, disse alla fine.
“Perdonami. – fece quello – Ho lavorato molto questa settimana. Le barche non sono neanche rientrate… Capisci, è l’unico lavoro che abbiamo.”
Francesco annuì: sapeva benissimo che c’era un dio sconosciuto a cui gli stessi dei si devono piegare.
“Lo so, tua madre me l’ha detto.”
Si fissarono a lungo.
“Eccoci alla fine…”, mormorò Francesco.
“Alla fine? – protestò vivacemente Markos – Scordatelo: sei condannato ad essere mio per sempre. E io non ti lascio.”
“Cosa fai parti con me?”
“Il mio cuore parte con te, io non posso. Già mi è costato strappare al capo questi pochi minuti per salutarti. Ascolta, - aggiunse, stringendogli la mano – fra due mesi si chiude la stagione di pesca, qui non c’è più niente da fare: posso raggiungerti, se vuoi.”
Il cuore di Francesco ebbe un balzo di felicità.
“Se voglio? Sono condannato ad essere tuo…”, disse, portandosi la mano dell’altro alle labbra.
“Per sempre…”, completò Markos la promessa.
“Per sempre…”
“Due mesi passeranno in fretta, vedrai. E poi… quest’inverno a Roma.”
“Quest’inverno a Roma”, ripeté Francesco, mentre il battello attraccava per portarlo via.

(continua)
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