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La leggenda dei Re Magi


di adad
06.11.2021    |    6.496    |    3 9.2
"Di seta sgargiante, proveniente da paesi sconosciuti, erano infatti le vesti e i turbanti, che coronavano le belle teste..."
Il gruppo avanzava sotto il sole abbacinante del deserto al ritmo lento e dondolante dei cammelli, sulla pista sabbiosa che dalla lontana Babilonia portava verso la Giudea. Erano tre e nessun servo li accompagnava, nonostante il loro ricco abbigliamento facesse supporre una loro indubbia agiatezza. Di seta sgargiante, proveniente da paesi sconosciuti, erano infatti le vesti e i turbanti, che coronavano le belle teste.
Davanti a tutti procedeva un vecchio dalla carnagione, bianca come la sua fluente barba, e il volto severo. Poteva avere circa sessanta anni e il suo viaggio era iniziato nella lontana Circassia. Dietro di lui, quasi affiancati un etiope dalla pelle scura, di forse quaranta anni, la cui aria era resa ancor più tenebrosa dalla corta barba nera come la notte, e un giovane poco più che trentenne, dal colorito olivastro, la barba appena accennata e gli occhi di giaietto che sembravano assorbire la luce del sole per rendersene ancor più luminosi.
“Quello che non capisco, Kaspar, - fece ad un tratto quest’ultimo, dopo aver bevuto dal suo otre una lunga sorsata d’acqua – è perché abbiamo dovuti trovarci a Babilonia e da lì venire tutti assieme, quando sarebbe stato più agevole che ci fossimo dati appuntamento da queste parti, dopo essere venuti ognuno per conto suo. Avremmo fatto prima, non trovate? invece di fare tutta quella strada fino a Babilonia e poi tornare indietro. ”
L’etiope stava per dargli una rispostaccia, quando Kaspar gli fece cenno di tacere e voltosi al giovane:
“Il tuo dubbio è comprensibile, Melchior, - disse con tono grave – ma vedi, il nostro viaggio fa parte di una profezia, e la profezia dice che tre Re sarebbero venuti dall’Oriente per rendere omaggio al nuovo Sovrano: se fossimo venuti direttamente dalle nostre case, la profezia non si sarebbe avverata. Io vengo dalla Circassia, come sapete, che si trova dove sorge il sole, Baltasar viene dalla nera Etiopia e tu dalla Numidia, dove il sole tramonta. Era necessario che ci riunissimo in una località in Oriente, da cui partire tutti e tre insieme, e Babilonia è sembrata la più adatta al Messaggero che ci ha convocati. Capisci adesso?”
“Capisco, - disse il giovane, chiamato Melchior – vi ringrazio nobile Kaspar.”
Questi chinò la testa in segno di accettazione, ma Baltasar gli si voltò con stizza:
“Avete altri dubbi, giovane Melchior?”
“No, nobile Baltasar, - rispose questi con garbo – e vi chiedo perdono se la mia giovane età mi rende importuno.”
“Su, su, calmatevi. – intervenne Kaspar – Questo lungo viaggio ci ha estenuati. Ma siamo quasi alla fine, ormai: vedete laggiù? – e indicò davanti a sé – Secondo le carte, quella è Al-Kamira, una postazione dell’esercito romano, dove potremo riposarci, prima di proseguire il viaggio. Ormai siamo a pochi giorni dalla meta.”
Quella vista li rinfrancò e anche i cammelli sembrano ritrovare le forze, via via che la postazione si avvicinava.
La postazione era in realtà un accampamento, fortificato da una semplice palizzata: evidentemente, la sua sicurezza si basava sulla vasta estensione di deserto che lo circondava.
All’avvicinarsi del gruppo, i militari di guardia imbracciarono le armi, mentre un
graduato usciva da una tenda e si faceva avanti.
“Sono il tribuno Marco Valerio Minucio della XX Aquila Fulgens, comandante di questa postazione; e voi chi siete, cosa vi porta da queste parti e dove siete diretti?”
Fatto inginocchiare il cammello, Kaspar smontò e si avvicinò, ossequioso.
“Gli Dèi della tua gente ti assistano, tribuno, - disse - io sono Kaspar di Circassia e i miei compagni sono Baltasar di Etiopia e Melchior di Numidia – e indicò l’uno e l’altro, che salutarono, chinando la testa – Siamo Re nelle nostre terre e dobbiamo raggiungere un luogo, detto Betlemme, per una missione diplomatica.”
Ora, qualcuno si chiederà: ma se venivano da posti così lontani, avranno parlato lingue diverse: come facevano a capirsi fra loro e a capire il tribuno Marco Valerio, che parlava il più schietto latino? Il fatto è che i tre erano in missione per conto dell’Onnipotente, che li aveva forniti della capacità di capirsi fra loro: li aveva dotati, in pratica, di una sorta di traduttore simultaneo incorporato in ciascuno di essi.
Kaspar consegnò al tribuno i documenti suoi e dei compagni. Marco Valerio li scorse, ma non ci capì niente, perché ognuno era scritto secondo la propria lingua e la propria scrittura; tuttavia, fece finta di leggerli e alla fine:
“E’ tutto a posto, - disse – ma non potete passare.”
“Che significa, nobile tribuno, perché non possiamo passare?”
“E’ scoppiata una pestilenza in Giudea e gli ingressi alle frontiere sono chiusi.”
“Ma noi dobbiamo passare! – esclamò Kaspar, sbiancando in volto – Dobbiamo passare assolutamente, dobbiamo essere a Betlemme il sesto giorno di gennaio!”, e si volse a guardare i compagni, costernato.
I due lo fissavano dall’alto dei cammelli, a loro volta smarriti: rischiavano di non mantenere la promessa all’Onnipotente, di infrangere la profezia!
“Ma ci dev’essere un modo…”, gemette Kaspar rivolto al tribuno.
In quel momento, un legionario si avvicinò al superiore e gli bisbigliò qualcosa all’orecchio. Quello fece spallucce, poi rivolto al vecchio:
“Beh, in effetti, un modo ci sarebbe…”, disse esitante.
L’altro lo fissò con aria interrogativa.
“Il nostro medico, Calpurnio, ha messo a punto una pozione…”
“E funziona?”
Il tribuno alzò le spalle:
“Se volete provare… - disse – E’ l’unico modo che avete per proseguire.”
Kaspar e Baltasar accettarono di bere la pozione, che risultò particolarmente sgradita al loro palato.
“Ma cosa diavolo ci ha messo dentro!”, disse schifato Baltasar, sputacchiando le ultime gocce.
“E’ meglio che non lo sappiate! – ghignò il tribuno – E tu, giovane numida, non bevi?”
Quello annusò la coppa, poi fece una smorfia e gliela restituì.
“Ti ringrazio, tribuno, ma ne faccio a meno.”
“Come preferisci, - disse il tribuno, riprendendo la coppa
– però devi fermarti qui.”
“Ma come, sciagurato! – saltò su Baltasar, che per qualche motivo ce l’aveva con lui – Hai dimenticato la nostra missione, è l’Onnipotente che ci manda…”
Melchior fece spallucce:
“Io quella schifezza lì non la bevo! Se l’Onnipotente mi voleva a Betlemme, poteva fare a meno di mandare la pestilenza. Andate voi, se volete. Ecco, prendete il mio dono e dateglielo a nome mio. Io vi aspetto qui, quando ripassate.”
“Come, andate voi? – si inalberò Baltasar – Hai dimenticato la profezia? Dobbiamo essere in tre! I tre Magi! Bevi quella cazzo di pozione e falla finita!”
“Calmati, Baltasar, - intervenne Kaspar conciliante – non possiamo costringerlo a bere. Proseguiamo noi, il suo dono glielo consegniamo noi a suo nome L’Onnipotente capirà. E tu, giovane numida, aspettaci qui. Ci rivedremo al nostro ritorno.”, e preso il pacchetto con il dono di Melchior, risalì in sella al cammello e si allontanò sulla pista sabbiosa assieme a Baltasar, che continuava a sacramentare.
Melchior li vide sparire nel baluginio che il calore del sole sollevava dalla sabbia del deserto: che se ne andassero pure; per quanto avesse desiderato rendere omaggio al Sovrano della profezia, non sopportava più quel pallone gonfiato di Baltasar. Che se ne andasse pure al diavolo.
Aspettarli al ritorno? Ma neanche per idea! Decise di riposarsi un paio di giorni e poi tornarsene in Numidia per conto suo. Comunicò il suo progetto al tribuno, che si fece una cordiale risata, prima di fargli la doccia gelata:
“Mi dispiace, giovane numida, - gli disse, infatti – ma non puoi ripartire, devi fare la quarantena.”
“La che?”
“Dovrai stare qui, in isolamento, quaranta giorni e solo dopo, se non sarai morto nel frattempo di pestilenza, potrai ripartire. Certo, se vuoi saltare la staccionata e andartene fallo pure, ma il tuo cammello resta qui… A meno che non decidi di bere la pozione di Calpurnio.”, e gli tese nuovamente la tazza.
Il giovane girò la testa con una smorfia molto eloquente, strappando un’altra sonora risata al tribuno, che buttatone a terra il contenuto:
“Seguimi, giovane numida.”, gli disse e lo guidò ad una grossa tenda cinta da un’alta palizzata.
Aprì il cancello, che richiuse dopo averlo fatto entrare.
“Qui farai la tua quarantena, - gli disse – non potrai uscire per nessun motivo. Un inserviente si occuperà di te. Akontios!”, chiamò a voce alta.
Un giovane sui vent’anni uscì dalla tenda e si avvicinò. Era bello di volto ed aggraziato nel fisico snello. Vestiva una corta tunica, che gli copriva a malapena l’inguine, lasciandogli libere le gambe. Melchior lo fissò con interesse: dopo mesi di viaggio con quei due, sentiva una certa voglia di divertirsi.
“Questo principe numida, - gli disse Marco Valerio – sarà nostro ospite per i prossimi quaranta giorni. Ti occuperai di lui e farai in modo che non gli manchi nulla e non abbia a lamentarsi di te. Hai capito?”
“Sì, tribuno.”, rispose quello, chinando la testa.
Il tribuno Marco Valerio Minucio si allontanò per tornare ai suoi doveri.
“Seguimi, principe.”, disse allora l’inserviente e si diresse verso la tenda.
L’interno del grande padiglione era diviso da tendaggi in una decina di scompartimenti, ognuno dei quali costituiva un minuscolo alloggio fornito di un lettino da campo e pochi altri accessori destinati alla comodità degli ospiti in quarantena. Akontios condusse Melchior verso quello più vicino alla porta all’ingresso rivolto a nord.
“Qui il sole batte un po’ meno, - gli disse – starai più fresco.”
“Come ti chiami?”
“Akontios, signore.”
“Sei greco?”
“Sì, principe, della Tessaglia.”
Uno schiavo portò il bagaglio del principe.
“Il mio cammello?”, gli chiese Melchior.
“E’ con gli altri animali nel serraglio, signore.”
Lo schiavo si inchinò e uscì.
“Immagino che sarai stanco, - gli disse Akontios - purtroppo non abbiamo acqua sufficiente per un bagno. Posso farti un massaggio, se vuoi.”
“Oh, magari… Ho il culo fracassato e la schiena a pezzi.”
“Spogliati, allora… arrivo subito.”, disse Akontios e uscì dalla tenda.
Quando rientrò, Melchior era già disteso sul lettino a pancia in giù, mentre i suoi abiti erano sparsi sul pavimento. Indossava solo un perizoma di lino, un tempo bianco, adesso fradicio di sudore e alquanto maleodorante.
L’odore graveolente del corpo non lavato da giorni aveva riempito il minuscolo spazio. Reprimendo una smorfia di disgusto:
“Perdonami, principe, - gli disse Akontios – ma forse è meglio se trovo un po’ d’acqua… sembra che tu ne abbia bisogno.”
Melchior gli rivolse uno sguardo grato: in effetti era dalla partenza da Babilonia che non riusciva a lavarsi.
Akontios ricomparve poco dopo con due schiavi che portavano un largo catino, una brocca piena d’acqua, un’ampolla d’olio e un vasetto di cenere. Appena gli schiavi furono usciti, il giovane greco fece alzare il numida, gli sciolse il perizoma, senza apparentemente degnare di uno sguardo quello che vi si celava sotto, e prese a spalmargli l’olio sulla schiena. La mano che si muoveva leggera sulla sua pelle gli provocò un brivido e un formicolio involontario nel basso ventre. Il cazzo cominciò a riscuotersi dal letargo e Melchior, arrossendo, cercò di nasconderlo con la mano aperta.
Ma Akontios sembrò non accorgersi di niente e continuò la sua opera cospargendogli d’olio prima la schiena, poi le natiche, spingendosi con noncuranza anche nello spacco e poi sulle cosce… era solo professionale nel suo lavoro o c’era anche una nota di piacere?
Quando il giovane passò ad occuparsi del davanti, il cazzo di Melchior era ormai in pieno turgore e non valeva più la pena nasconderlo. Akontios, allora, sorrise:
“Succede, principe…”, mormorò, prendendo a spalmargli l’olio sul bel petto muscoloso.
Melchior era ormai preda di una furibonda erezione, quando Akontios gli agguantò l’uccello con la mano untuosa di olio e prese spalmarglielo per tutta la mazza e fin sotto le palle, che si incordarono, quasi stessero per sborrare. Il numida fremeva, cercando di reprimere i gemiti e il piacere montante, mentre il greco insisteva quasi con perfidia a manipolargli l’uccello, insistendo con una mano sulla cappella e con l’altra sulle palle, neanche avesse imparato quest’arte mei bordelli siriani. In realtà non aveva mai visto un cazzo circonciso e la cosa lo incuriosiva e lo eccitava non poco, tanto da cominciare a mostrare un certo sollevamento sul davanti della tunica.
Finalmente, Akontios passò a oliargli le gambe e i piedi, ma ormai il processo era innestato e i brividi del povero Melchior non furono di meno. Avrebbe voluto
cacciarlo via con un calcio quel maledetto torturatore e sfogarsi in qualche modo, ma gli piaceva troppo quanto stava succedendo, gli piacevano troppo quelle mani impudiche sul suo corpo.
Finito di cospargergli d’olio il corpo, Akontios si deterse le mani, poi lo ricoprì di cenere finissima, trasformandolo nell’aspetto quasi una statua di grigio marmo; infine, prese uno strigile di bronzo e cominciò a raschiare via delicatamente lo strato di untume dalle belle membra del principe numida. La tortura, se così possiamo chiamarla, non fu meno piacevole e straziante della precedente oliatura, specialmente quando Akontios prese a raschiargli via lo strato di cenere zuppo d’olio e sudore dalla zona inguinale, evitando per fortuna di insistere sulla cappella.
Come gli Dèi vollero, l’operazione giunse a termine, Akontios fece entrare il principe nel catino e cominciò a versargli addosso l’acqua tiepida un poco alla volta, lavando via il residuo di sporco.
Melchior si sentì rinato, mentre l’altro gli poggiava sulle spalle un telo di lino e lo aiutava ad asciugarsi. Ma l’eccitazione non gli dava tregua.
“Ho sentito che nei vostri paesi gli uomini si accoppiano fra di loro…”, disse ad un tratto, lanciando ad Akontios uno sguardo intenzionale.
“L’ho sentito pure io… - rispose quello con tono indifferente – Ma ho sentito che anche nei vostri paesi gli uomini si accoppiano fra di loro.”, aggiunse.
“Sì, ma noi facciamo i maschi e lo mettiamo…”, disse Melchior, allungandogli una manata sulle chiappe.
“Se voi lo mettete, ci sarà qualcuno che fa la femmina e se lo fa mettere…”, rispose filosoficamente Akontios, impugnandogli spudoratamente l’uccello turgido, teso allo spasimo.
Melchior gemette, e a quel punto perse il controllo: afferrò il greco, lo fece piegare a novanta, gli scostò la fascia del perizoma dallo spacco del culo e, individuata l’apertura, ci puntò sopra il cazzo e spinse dentro. Akontios non batté ciglio: aveva desiderato quel cazzo dal momento stesso in cui lo aveva liberato dal perizoma e aveva fatto di tutto per accenderlo di lussuria.
La penetrazione improvvisa gli diede innegabilmente un po’ di fastidio, ma il piacere superava di gran lunga il dolore. Avrebbe dovuto insegnargli qualche piccolo trucco… e lui ne conosceva parecchi… parecchi, infatti, ne aveva imparati nelle palestre della nativa Tessalonica, dove prestava la sua opera ed offriva i suoi servigi agli atleti dopo le gare.
Lo sfintere non fece quasi resistenza all’intrusione del gagliardo cazzo numida e Akontios cominciò a godersi la piacevolezza di quella calda presenza, pregustando già lo scorrere del pistone dentro e fuori, la foga con cui l’altro lo avrebbe afferrato per i fianchi, il languore con cui avrebbe accolto il frutto di quel maschio esuberante, ma purtroppo, eccessiva era l’eccitazione accumulata e Melchior cedette prima ancora di essere arrivato al traguardo. Era ancora nel bel mezzo della penetrazione, infatti, quando una fitta lancinante gli trafisse le palle e lui non riuscì a trattenere oltre la marea di sborra che gli si era accumulata dentro nel lungo periodo di astinenza e portata ad ebollizione dalle sapienti, quanto perfide manovre del giovane greco.
Il quale giovane greco, evidentemente non soddisfatto del premio ricevuto, appena sentì affievolirsi le pulsazioni del cazzo dentro il suo culo, se lo sfilò rapidamente e, inginocchiatosi con altrettanta repentinità davanti a Melchior, aprì la bocca e protese la lingua a raccoglierne le ultime emissioni, ingoiando poi buona parte dell’organo untuoso e risucchiandone con ingordigia gli umori.
“E questo dove lo hai imparato?”, chiese stranito il principe numida.
“Dove ho imparato tante altre cose, che ti mostrerò… se vuoi.”, ridacchiò Akontios.
“Altroché, se voglio…”, esclamò il principe numida, tirandolo a sé e cominciando a strappargli di dosso la tunica e il perizoma.
Quella quarantena inaspettata cominciava a rivelarsi davvero interessante… molto, molto interessante, pensò, mentre sentiva la lingua saettante di Akontios, cominciare a lambirgli l’orlo del vergine buchetto.
Fu a quel punto che pregò con tutte le sue forze gli altri due si perdessero nel deserto e non si facessero vedere mai più.
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