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Gay & Bisex

Nel mezzo del cammin di nostra vita - 1


di adad
05.07.2022    |    7.956    |    2 9.4
"Non ho idea di quanto tempo durasse lo scempio: in un flash mi rivedo in ginocchio, con la faccia stretta fra le mani di Renzo, mentre mi martellava la bocca..."
No, tranquilli, non intendo tenervi una lezione sulla Commedia, detta anche Divina: ho paura che non interesserebbe a nessuno; il fatto è che, ripensando a tutto quello che mi è capitato, mi è sembrato di trovarmi in una situazione per molti versi identica a quella di Dante: forse perché, svoltati i trent’anni, molti di noi si ritrovano, per un motivo o per l’altro, a fare un consuntivo della propria vita. E spesso non è dei migliori.
Prendete me: mi chiamo Tarcisio Panzirolli… un nome altisonante, non è vero? Un nome che ti riempie la bocca: Tarcisio Panzirolli. Ma solo la bocca, dietro c’è solo il vuoto… almeno nel mio caso.
Avevo all’incirca trentacinque anni, dunque, quando all’improvviso aprii gli occhi e mi ritrovai in una selva oscura, ché la diritta via era smarrita.
Avevo trentacinque anni, adesso ne ho quarantadue e sono tutt’altra persona, grazie a… Ma andiamo per ordine, non credo che sia corretto anticipare gli eventi.
Mi chiamo… L’ho già detto. La mia infanzia credo che sia stata simile a quella di tanti altri bambini, che al momento dell’adolescenza si sono ritrovati nel vuoto di rapporti familiari inesistenti e comunque insoddisfacenti.
Avevo quattordici anni, quando cominciai a frequentare un gruppo di bulletti, il cui capo mi impose, come rito di iniziazione, di fargli un pompino davanti a tutti. Cercai di rifiutare disgustato: come gli passava per la testa che potessi succhiargli l’uccello, e per di più davanti a tutti? Ma che volete?… lui, il Capo, era un ventenne, devo ammetterlo, molto carismatico, con la sua moto rombante, le ragazze al seguito e l’immancabile pacchetto rosso delle Marlboro, perennemente fumanti fra le sue belle labbra carnose; gli altri ragazzi ci erano passati tutti e non vedevano l’ora che ci passassi pure io; quanto a me… beh, la cosa non mi attirava, certo, ma troppo forte era il desiderio di far parte di un gruppo… di “quel” gruppo.
Così, in un tardo pomeriggio d’estate, Renzo, il Capo del branco, ci riunì nel cortile di una casa abbandonata, si sbottonò i jeans e se li calò fino a mezza coscia. Io gli stavo davanti a fissare imbambolato le sue mutande, non proprio fresche di bucato, sotto le quali il cazzo già si protendeva turgido. Con l’immancabile sigaretta fra le labbra, lui mi poggiò una mano sulla spalla, costringendomi in ginocchio; poi, mi artigliò dietro la nuca e mi attirò verso il suo pacco.
Appena respirai l’odore rancido che emanava dalle sue mutande luride, tentai di liberarmi, ma lui mi tenne saldamente col viso premuto sul suo inguine:
“Sta fermo, finocchietto.”, biascicò con la sigaretta fra le labbra.
Sentii gli altri ragazzi ridacchiare divertiti e probabilmente allupati, mentre il mio naso cominciava ad abituarsi al tanfo del tessuto umidiccio.
La mia resistenza andò affievolendosi, via via che mi rassegnavo a quello che doveva succedere, finché, vedendomi ormai sottomesso, Renzo si abbassò gli slip, tirò fuori l’uccello, che mi parve enorme, rapportato al mio ancora adolescente, e me ne strusciò sulle labbra la punta appena scappucciata.
L’afrore acido e il viscidume della presborra mi chiusero immediatamente lo stomaco e feci un goffo tentativo di scansarmi, ma lui mi tenne fermo.
“Sta buono, - ringhiò – credevi che fosse una passeggiata entrare nella mia gang? Apri la bocca, cazzo!”, sbraitò, premendomi il cazzo sulle labbra con ancora più forza.
Cedetti, che altro potevo fare? E subito lui mi forzò in bocca la cappella nel frattempo sguainata. Rimasi senza fiato, trovandomi d’un tratto a strusciare la lingua su questo corpo viscido e maleodorante ed ebbi un istintivo conato di vomito, che mi fece risalire in gola la bile. Ma la mano ferma di Renzo mi teneva bloccato con il suo cazzo per oltre la metà nella mia bocca, così fu giocoforza superare il panico e affrontare la prova.
Non so come me la cavai, anche perché fece tutto lui: tenendomi ferma la testa con entrambe le mani, prese a scoparmi il cavo orale, mentre gli altri ragazzi della banda mi incitavano al colmo dell’eccitazione:
“Succhia! Succhia! Succhia!”, ripetendo quel rituale a cui anche loro erano stati sottoposti.
Ormai mi sentivo completamente inerte, subivo stralunato questa oscena violazione della mia bocca, senza neanche rendermi conto di cosa mi stava succedendo. So che dovrei trovare delle parole per giustificarmi, per condannare quell’atto, ma che senso avrebbe? Io stesso me l’ero cercata, con la mia smania di entrare nella gang del Motociclista.
Non ho idea di quanto tempo durasse lo scempio: in un flash mi rivedo in ginocchio, con la faccia stretta fra le mani di Renzo, mentre mi martellava la bocca con il cazzo e ad ogni affondo le sue palle sciolte mi sbattevano sul mento… Ecco, ricordo il tonfo morbido dello scroto che mi sbatteva sul mento… Poi, d’un tratto il suo cazzo si fece enorme, lui si fermò e dopo un attimo l’organo gli prese a vibrare e scattare, mentre la bocca mi si riempiva di liquido denso e amarognolo.
Mi resi conto che stava sborrando… che mi stava sborrando in bocca, e feci per staccarmi, ma lui mi tenne ancora più saldamente e fui costretto a ingoiare quella melma che mi raspava la gola.
Rimasi lì imbambolato, mentre lui mi sfilava il cazzo molle dalla bocca e se lo rimetteva nelle mutande. Finché:
“Sveglia! – mi disse, rifilandomi uno scappellotto dietro la nuca – Hai superato la prova, sei dei nostri.”, e gli altri intorno a ululare e applaudire.
Ero dei loro… ma ero solo all’inizio di quel sentiero, che si addentrava nella mia personale selva oscura.

Mi unii alla gang, ma debole com’ero di carattere, ne divenni ben presto succube,
tanto che ad un certo punto i miei, esasperati, mi cacciarono di casa e cominciai a vivere di espedienti, mangiando quello che riuscivo a trovare, dormendo dove capitava, partecipando alle malefatte organizzate dal nostro Capo.
Ma la cosa peggiore era l’insana passione che iniziai a nutrire nei confronti di
Renzo; quel pompino che mi aveva obbligato a fargli come iniziazione per essere
ammesso alla gang, passato il disgusto iniziale, era diventato un assillo per me. Continuavo a sentirmi in bocca il suo glande levigato, il sapore della sborra che mi scorreva sulla lingua. Mi struggevo dalla voglia di rifarlo, ma non avevo il coraggio di chiederglielo… Cominciai, allora, a ronzargli attorno; lo spiavo, quando era seduto col pacco ben in rilievo, ne immaginavo il cazzo molle, raggomitolato nelle mutande, e mi sentivo torcere lo stomaco.
Finché un giorno, che eravamo da soli, lui mi colse a contemplarlo con aria particolarmente languida.
“Che cazzo hai da guardarmi in quel modo?”, mi chiese, forse già immaginandolo.
Allora, mi avvicinai a lui, che era in piedi e stava leggendo qualcosa, col sedere poggiato al sedile della moto, nel retro della sua baracca, e con la testa che mi turbinava, allungai una mano a sfiorargli sfrontatamente il pacco.
Scoppiò a ridere.
“Mi chiedevo quando ti saresti deciso, – ghignò – lo avevo capito subito che sei frocio nell’anima!”
Chinai la testa a quell’insulto, che tuttavia non mi ferì più di tanto: troppo urgente era la voglia che avevo del suo cazzo. Gli tenni la mano sul pacco.
“Avanti, troietta, cos’aspetti a tirarlo fuori? – mi giunse la sua voce morbida, crudele – E’ già duro per te… tiralo fuori…”, e il tono non era una richiesta.
Gli slacciai la cintura dei jeans, glieli sbottonai e strattonai a mezza coscia. Gli slip, un tempo bianchi, erano tesi dalla sua erezione. Ignorando il tanfo, che ne emanava, afferrai l’elastico, lo scostai e infilai la mano ad afferrargli il cazzo duro.
Vi risparmio le emozioni che provai: chi ama il cazzo e ne è stato a lungo privo, può capirmi benissimo. Mi inginocchiai e me lo avvicinai alle labbra… il suo tanfo era ancora più atroce, ma che potevo farci? Tirai fuori la lingua e cominciai a leccare il glande, via via che lo snudavo dal prepuzio. Adesso che sono un uomo diverso, che sono uscito dalla mia selva oscura, mi chiedo come potessi sopportare quell’abominio, come potessi tollerare di sottomettermi ad un uomo del genere… Ma che posso dire? solo quello conoscevo, allora.
Stavo adorando quel cazzo così magnificamente turgido, quasi incredulo di averlo fra le mani, quando:
“Cos’aspetti a succhiarlo, troia di una puttana?”, mi giunse il suo ordine assieme a uno scappellotto.
Per farla breve, divenni il suo schiavo sessuale, usandomi per sfogare ogni sua depravazione e ne aveva tante! Tutto quello che non si permetteva di fare le sue donne, lo sfogava con me, inculandomi e pisciandomi, spesso anche davanti agli altri e a volte assieme a loro. Se ero lo schiavo sessuale di Renzo, infatti, in breve e col suo beneplacito, divenni la puttana dell’intera banda.
Intanto, la gang si era rafforzata, ampliando il proprio raggio d’affari dai piccoli furti, al traffico di droga, alla prostituzione.
Ho già detto che Renzo aveva il suo giro di donnine: col tempo, una alla volta erano state avviate alla strada, diventando una delle principali fonti dei suoi illeciti guadagni.
E quando furono stanchi di divertirsi con me, non potevo certo essere il loro mangiapane a tradimento. Avevo vent’anni, se ricordo bene, quando Renzo mi affittò per la prima volta a degli amici desiderosi di fare esperienze trasgressive, inculandosi un uomo.
Le prime volte, lo accettai quasi con gioia, sperando che questo servisse a riconquistare i loro favori, ma ben presto mi resi conto di essere null’altro che una puttana alla pari delle altre, solo che non mi costringevano a battere per strada… almeno questo.
Quando non ce la feci più, scappai dalla banda. Ricordo che mi allontanai dalla base con una scusa, avevo pianificato tutto da tempo, e raggiunsi un parcheggio di camionisti. Aspettai il momento e il tipo giusto, poi mi feci avanti e chiesi un passaggio, senza neanche sapere dove fosse diretto.
Quello subodorò che ci fosse sotto qualcosa e rifiutò, tirando in ballo che non gli era consentito prendere autostoppisti. Ma tanto lo implorai, che alla fine, immagino per togliermisi dai piedi:
“Beh, se mi tieni in caldo la cuccetta…”, buttò lì con un sorriso perfido.
Mi sentii gelare il cuore: a quanto pare, il passato non ti abbandona mai. Ma ero disperato.
“Ok”, dissi a fiori di labbra.
“Salta su, dolcezza!”, disse allora lui, aprendomi la portiera del passeggero.
Misi il piede sull’alto predellino e mi afferrai al maniglione per tirarmi su, ma quello:
“Aspetta, ti aiuto.”, fece, piazzandomi una mano sotto il sedere e catapultandomi in su.
Atterrai sul sedile, progettato indubbiamente per culi molto più grossi del mio.
Sbattuto il mio sportello, l’uomo passò dall’altra parte e si issò sul sedile di guida con sorprendente agilità, nonostante la sua costituzione robusta.
“Dove sei diretto?”, mi chiese, allacciandosi la cintura e mettendo in moto.
“Il più lontano possibile…”, mormorai.
“Devi averla combinata grossa. – ridacchiò, mentre con un rombo del motore il camion si muoveva verso l’uscita del parcheggio – Non è che ci vado di mezzo pure io?”
“No, non preoccuparti… Voglio solo andar via di qua il più presto possibile… - dissi, stringendomi le braccia – e il più lontano…”
“Da chi stai scappando?”
“Da brutte persone…”
Vidi con la coda dell’occhio che si girava a guardarmi con aria preoccupata.
“Storie di droga?”, mi chiese.
“No, tranquillo. Né droga, né polizia.”
“Ok”, fece e si concentrò sulla guida, immettendosi nel traffico della statale.
Viaggiammo per un po’ in silenzio, ogni tanto guardandoci di sottecchi, entrambi con velato interesse, anche da parte mia, non lo nego. Non era un adone, certo, ma nel complesso era un bell’uomo; sui quarant’anni, aveva un filo di pancetta, ma il fisico era asciutto e, soprattutto, mostrava un consistente malloppo alla convergenza delle cosce robuste. Un malloppo che continuava a sprimacciare con evidente goduria.
“Sei culattone?”, mi chiese a un tratto.
Feci spallucce.
“E tu?”, chiesi, tanto per dire qualcosa.
“Naaaa! Etero al cento per mille!”, rispose convinto.
“Però ti piace fartelo succhiare dai culattoni…”
“E a chi non piace farselo succhiare!”, ghignò e, adocchiata una piazzola di sosta, ci si diresse, fermando il camion.
“Abbiamo fatto abbastanza chilometri. – disse slacciandosi la cintura – Vieni.”
Si alzò e scostò la tenda che celava la cuccetta dietro i sedili. Stava chiaramente scoppiando dalla voglia. Lo seguii e quando fui dentro, richiuse la tendina.
“Un po’ di pràivasi...”, disse e gli brillavano gli occhi, mentre si slacciava i pantaloni e se li calava assieme alle mutande.
Il cazzo scattò in avanti turgido ed era corredato da un paio di palle, forse troppo pelose per i miei gusti, ma belle consistenti, di quelle che uno si immagina in un vero maschio. Mi sedetti sulla cuccetta, mentre lui mi rimaneva in piedi davanti e con una mano gli afferrai lo scroto, stringendo forte i due grossi ovuli. Lo sentii rabbrividire e questo mi eccitò. Con l’altra mano afferrai la sua mazza protesa e me l’accostai alla bocca.
Era abbastanza pulito e questo mi confortò, anche se negli anni avevo dovuto abituarmi a situazioni a dir poco indicibili. Tirai fuori la lingua e lambii la boccuccia alla sommità del glande, raccogliendo la goccia di sugo che vi ristagnava. L’uomo gemette e, posta la mano sulla mia, si tirò giù la guaina, scoprendo interamente la grossa cappella, col chiaro intento di farsela prendere in bocca. E io lo accontentai, lasciandomela scivolare fra le labbra socchiuse e avvolgendola con la lingua, che ci mulinò attorno, prima di risucchiarla ancora più dentro.
“Cazzo, che troia!”, sospirò lui, cercando di spingermelo ancora più in gola.
Ma io feci resistenza e dopo un po’ l’uomo si arrese, lasciando che proseguissi a modo mio. E non rimase certo deluso, visto come prese a fremere e vibrare in tutto il corpo, gemendo a piena gola, mentre, imperterrito, continuavo a leccare, succhiare, slurpare… adorare quell’organo straordinario. Se quello era il biglietto che dovevo pagare per il passaggio, mi ritrovai quasi a sperare che mi chiedesse un sovrapprezzo.
Ma ogni cosa bella prima o dopo finisce e anche quel pompino finì… in gloria, come ogni salmo che si rispetti. Sul più bello, infatti, l’uomo si incordò e mi agguantò le spalle con le mani ad artiglio, dopo di che, tremando in tutto il corpo e con un grugnito dal fondo della gola, prese a schizzarmi in bocca il suo carico denso e dolciastro, che mi rigirai a lungo sulla lingua, prima di ingoiarla.
“Accidenti! – esclamò, sfilandomi dalla bocca il cazzo mezzo moscio e dandoci un paio di vigorose scrollate, prima di tirarsi su le mutande – Ci sai fare davvero!”
“Me lo dicono in tanti”, risposi leccandomi le labbra.
“Senti, - disse lui, allacciandosi i pantaloni – adesso rimani qui, stenditi e dormi, se vuoi. Io devo prendere l’autostrada e se mi ferma la Stradale sono guai seri: non ho i documenti assicurativi per un passeggero. Stai qui buono buono e goditi il viaggio.”
Annuii, quasi riconoscente: non mi dispiaceva affatto starmene per i fatti miei e
riposarmi un poco. Ed in effetti, ne avevo un gran bisogno, perché ben presto, cullato dal rollio del camion in corsa e dal ronfo del motore, le immagini cominciarono a confondersi nella mia mente e le angosce a sopirsi, sfumando ovattate nel mondo dei sogni.

(continua)
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