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Frate Martino - 5


di adad
04.04.2021    |    5.871    |    7 9.3
"– spiegò Al-Nadir - Era stata presa durante una razzia in un paese delle tue terre e venduta schiava a Tunisi, dove mio padre la comprò per farne la sua..."
L’attesa fu lunga. I pirati si presero tutto il loro tempo per depredare la cocca di quanto prezioso trasportasse, dopo di che l’affondarono con il suo carico di poveri morti. Tornati a bordo della loro nave, fecero vela verso oriente e diverse ore dopo approdarono in una isoletta selvaggia, in cui avevano la loro base.
Per tutto quel tempo, frate Martino era rimasto legato all’albero maestro, senza che nessuno si prendesse cura di lui, tranne un brutto ceffo che ad un certo punto gli portò una ciotola piena d’acqua, tenendogliela sgarbatamente, mentre lui beveva. Il liquido era caldo e molle in bocca, ma nell’attuale situazione fu per lui un vero sollievo.
Quanto ad Al-Nadir, frate Martino lo vedeva aggirarsi per la nave, impartire ordini con fermezza e decisione, occuparsi di questo e di quello; mai una volta però mostrò il minimo interesse nei suoi confronti.
Perché lo aveva salvato? Cosa aveva in serbo per lui quel pirata, nei cui confronti il giovane non poteva negare una forte ammirazione… o forse un’inconfessata e inconfessabile attrazione. Del resto, come rimanere indifferenti di fronte a quella vera forza della natura, di fronte all’energia esplosiva, alla vitalità che vedeva trasparire da ogni suo gesto, da ogni suo comando, ogni sua parola? E poi, quella signorilità, quella finezza, quell’eleganza di portamento, che frate Martino non ricordava di aver mai visto in nessuna delle persone con cui aveva avuto a che fare nella sua vita.
Era ormai scesa la sera, quando un paio di energumeni vennero a prenderlo: lo slegarono, lo tirarono su di peso, perché la lunga immobilità gli aveva aggranchiato le gambe, e lo trascinarono a terra, conducendolo poi ad una casupola, dove lo rinchiusero. Di nuovo solo e tuttora incerto sul suo destino.
Ma per lo meno era vivo e, come diceva sempre frate Salterio al momento di proporre i suoi medicamenti: finché c’è vita c’è speranza.
Dopo un po’ di tempo, gli portarono una ciotola di zuppa calda e una brocca d’acqua. Il profumo della zuppa era invitante e, come scoprì dopo averla assaggiata con qualche esitazione, il sapore era ricco e speziato: la divorò in un lampo, affamato com’era, e in quel momento gli parve quasi una fortuna essere stato fatto prigioniero da quei feroci pirati.
Rimesso a nuovo da quel pasto a suo modo lauto, frate Martino si dispose nuovamente ad aspettare che si chiarisse quale sarebbe stata la sua sorte. Questa volta non dovette attendere molto: poco dopo, infatti, un ragazzo venne da lui e gli fece capire che doveva seguirlo. Senza legarlo, né con alcun altro mezzo di costrizione, lo condusse in un’altra sala più grande e lussuosa, il cui pavimento era coperto da un soffice tappeto: avvolto in una tunica di seta cangiante, Al-Nadir lo aspettava comodamente sdraiato su una pila di cuscini.
Intimidito da quel lusso inaspettato, frate Martino si fermò sulla soglia. Il pirata lo fissò, poi:
“Spero che i miei uomini ti hanno trattato bene.”. esordì.
“S… sì, vostra eccellen… perdonate, ma non so come chiamarvi.”
“Sono lo sceicco Al-Nadir, padrone di questa terra e signore dei mari che la circondano. Ma puoi chiamarmi come si usa nelle tue terre.”, disse Al-Nadir.
“Sì… messere, i vostri uomini mi hanno trattato bene… Vi ringrazio”, disse allora il giovane.
Al-Nadir annuì soddisfatto, poi fece cenno ad un servo e gli impartì alcuni ordini.
“Vai col mio servo. – disse quindi a frate Martino – e fa quello che ti dice. Poi torna da me.”
Frate Martino fece un lieve inchino, poi seguì il servo, che lo accompagnò in un locale con una grossa conca di terracotta al centro e un focolare acceso su cui era messa a scaldare dell’acqua in recipienti di rame.
Il servo gli fece capire a gesti che doveva spogliarsi ed entrare nella conca. Tremando per l’imbarazzo, frate Martino si tolse gli abiti sdruciti che aveva indossato sulla nave e saltò nella conca, dove rimase impalato, coprendosi l’inguine con entrambe le mani. Celando a stento una smorfia di disgusto per il fetore che aveva riempito la stanza, il servo andò a prendere una brocca d’acqua calda e dopo averlo fatto inginocchiare gliela versò addosso, dandogli poi un pezzo di sapone e facendogli capire che doveva passarselo addosso.
Non che frate Martino ignorasse l’esistenza del sapone e dell’uso che se ne faceva, era lui che in pratica non se n’era mai servito: a quei tempi l’igiene personale in occidente non era una priorità, neppure per i signori. Così il poveretto pasticciò un po’ con questo sapone scivoloso, finché il servo spazientito glielo strappò di mano e, borbottando chissà quali contumelie, cominciò a insaponarlo energicamente prima la testa, poi la schiena, il petto e infine, fattolo alzare e staccategli con forza le mani dall’inguine, anche il pube cespuglioso, arrivando a scappellargli l’uccello, per sgrommarlo del sudiciume che vi era incrostato.
Dopo averlo insaponato e strigliato su ogni centimetro del corpo, il servo andò a prendere altre brocche d’acqua calda e gliele versò addosso per risciacquarlo.
Completata la pulizia, lo aiutò ad asciugarsi con un telo di lino e infine gli fece indossare una tunica di morbido panno.
Era stata un’esperienza umiliante, ma frate Martino dovette riconoscere che si sentiva innegabilmente molto più fresco e leggero.
Riaccompagnatolo da Al-Nadir, il servo si lanciò in un discorso infervorato che fece più volte scoppiare a ridere lo sceicco, il quale alla fine lo congedò con un gesto della mano.
Si rivolse, allora, a frate Martino:
“Avvicinati”, gli disse, facendogli poi cenno di accomodarsi.
Non c’erano sedie, così frate Martino si accosciò a terra, incrociando le gambe, e rimase in attesa.
“Credo che vada meglio, adesso. – riprese Al-Nadir – Il mio servo era scandalizzato per… sì, per la sporcizia che ha dovuto scrostarti di dosso. Mi sono sempre chiesto come mai voi infedeli amate così poco la pulizia.”
Frate Martino avvampò al ricordo di quelle mani che lo avevano strigliato e frugato dappertutto, perfino nello spacco del culo… e c’era mancato poco che gli ficcasse perfino le dita dentro…
Il frate abbassò gli occhi, con le guance rosse, e non rispose: come spiegargli che fin da bambino gli era stato insegnato che curare il proprio aspetto è un peccato di orgoglio nei confronti di Dio?
“Ti starai chiedendo perché ti ho risparmiato.”, continuò il pirata.
Frate Martino lo guardò, aspettando che continuasse.
“Mia madre era cristiana. – spiegò Al-Nadir - Era stata presa durante una razzia in un paese delle tue terre e venduta schiava a Tunisi, dove mio padre la comprò per farne la sua concubina. Era bella, davvero bella, e lui l’amava molto, tanto da lasciare che continuasse a praticare la sua fede finché non morì. Prima di morire, essa mi fece giurare che mai avrei alzato la mano su un uomo di Dio: ecco perché sei vivo.”
Frate Martino si fece il segno della croce:
“Il Signore l’abbia con sé nel Paradiso dei beati.”, mormorò riconoscente.
“Amen”, fu la risposta del pirata, che lo fissò a lungo, con uno strano sorriso sulle labbra.
“Ti ho risparmiato la vita, per tener fede a una promessa, - riprese dopo – ma non puoi aspettarti che ti lascerò libero. Un giovane sano come te è un bottino pregiato: non ti venderò, per amore di mia madre, ma ti terrò per me… sarai il mio schiavo personale… e non è poco.”
Non sarà stato poco, ma frate Martino si sentì morire a quelle parole: non sarebbe più stato un uomo libero… avrebbe dovuto passare la vita a servire quell’uomo… un nemico della sua gente, un nemico di Dio! Il fatto che anche prima, di libertà ne aveva vista ben poca non gli sfiorò la mente: era quella qualifica di “schiavo” che lo atterriva. Aveva sentito parlare di come certi padroni trattavano i loro schiavi, delle sofferenze che infliggevano loro… “Che ne sarà di me?”, gemette in cuor suo.
Al-Nadir sembrava leggere i suoi pensieri via via che la mente li concepiva e ad un tratto:
“Non aver paura, - gli disse – se ubbidirai senza protestare e senza ribellarti, non ti succederà nulla di male. Adesso appartieni a me per diritto di preda, sei solo un’espressione della mia volontà.”
In quel momento, entrarono dei servi: alcuni servirono vassoi di frutta secca e confetture dolci, una brocca colma di qualcosa e una coppa, altri versarono incenso sui bracieri accesi agli angoli della stanza, i cui fumi profumati in breve si diffusero nell’aria, creando un’atmosfera di avvolgente sensualità.
Al-Nadir si volse a frate Martino:
“Come ti chiami?”, gli chiese.
“Martino, messere.”
“Martynu… mi piace. Versami una coppa di sidro.”
Il giovane riempì la coppa con del liquido ambrato dal profumo gradevole e gliela porse. Al-Nadir bevve un lungo sorso.
“Sidro di Spagna, - disse, sollevando la coppa a indicare il suo contenuto – lo conosci?”
“No, messere.”
“Vieni, Martynu, sdraiati vicino a me, assaggialo.”, e gli porse la coppa da cui lui stesso aveva bevuto.
Un po’ imbarazzato, frate Martino si sedette sui cuscini accanto e lui e prese la coppa, portandola alle labbra. Il liquido acidulo, leggermente alcolico gli pizzicò la lingua, ma era buono… straordinariamente saporito.
Al-Nadir lo fissava intensamente.
“Ti piace?”, gli chiese.
“Sì, messere…”
L’altro sorrise, riprendendo la coppa:
“Credo che anche le huri ne gustino in paradiso.”, ne bevve un sorso e gliela ripassò.
In breve, la coppa fu vuota, venne riempita e nuovamente vuotata. Tra l’alcol e il profumo intenso dell’incenso, frate Martino cominciò a sentirsi la testa leggera, come galleggiante su una nuvola di nebbia. Nemmeno si accorse che l’altro lo aveva tirato più vicino a sé, passandogli un braccio attorno alle spalle, né che d’un tratto gli sfiorò con le sue le labbra ancora bagnate del sidro appena bevuto.
“Dalle tue labbra è ancora più saporito…”, mormorò Al-Nadir.
Un uomo lo aveva appena baciato… ma frate Martino non ci trovò nulla di sconveniente, anzi ebbe quasi la sensazione che non vedesse l’ora che succedesse. Al-Nadir aveva bevuto di nuovo e gli sorrideva… le sue labbra erano bagnate… desiderabili… irresistibili… sembravano sprigionare un potere misterioso che lo attirava… e lui rispose: si protese in avanti e poggiò le sue labbra su quelle anelanti dell’altro.
Non fu un bacio fuggevole: le labbra rimasero incollate, finché simultaneamente le lingue scivolarono l’una nella bocca dell’altro e si avvinghiarono in una danza dapprima esitante, almeno da parte di frate Martino, e poi via via più frenetica, mano a mano che ne gustava per la prima volta la voluttà.
Qualche istante dopo, frate Martino era nudo, stretto fra le braccia di Al-Nadir, che ne esplorava il corpo con carezza fameliche e impudiche. Quando sentì le mani dell’altro lisciargli il culo, indugiare vogliose sulle polpose rotondità, insinuarsi nello spacco fino sfiorargli l’orifizio, frate Martino provò un brivido strano e un altrettanto strano languore, che nulla avevano a che vedere con i piaceri goduti fino ad allora.
Fu in quel momento che Al-Nadir si scoprì, rivelando un sesso forte e carnoso in piena erezione. Fu istintivo per il frate avvolgerlo con la mano e iniziare a segarlo, del resto non era la prima volta che stringeva e masturbava la virilità di un altro uomo. Ma non era questo che Al-Nadir voleva, aduso com’era ai piaceri raffinati dei postriboli levantini; e infatti, dopo un po’, cominciò a manovrare in modo da spingere la testa di frate Martino sempre più vicina al suo cazzo.
Inebriato dall’euforia del momento, il giovane non se ne accorse, finché la cappella bagnata di Al-Nadir non gli sfiorò le labbra: tentò allora di scostarsi, sopraffatto da un moto di repulsione, ma la presa sulla sua nuca divenne ancora più ferma e più forte la pressione del cazzo sulle sue labbra.
“Aprì la bocca, mio diletto, - gli sussurrò Al-Nadir, fermo ma ciononostante con il solita dolcezza – prendi in bocca il mio fiore… succhiane il nettare…”
E inspiegabilmente, frate Martino cedette: dischiuse le labbra e l’uccello del pirata oltrepassò la chiostra dei denti, diffondendogli uno strano sapore sulla lingua, strano ma non ripugnante, come si sarebbe aspettato.
“Non stringere coi denti… - continuò sussurrargli Al-Nadir, più suadente del serpente all’orecchio di Eva nel giardino dell’Eden – carezzalo con la lingua… gustane il miele che sgorga per te… Così, mio diletto…”
E frate Martino non strinse i denti, lo carezzò con la lingua e ne gustò il miele che spargeva copioso per lui. E gli piacque. Gli piacque il sapore… e l’odore… e la consistenza… A poco a poco, si ritrovò a succhiare l’uccello del suo padrone se non con perizia, certo con passione ed entusiasmo.
Prima ancora che giungesse la fine, frate Martino era conquistato e quando essa giunse, accolse e degustò senza esitazione il dono che l’altro gli riversava sulla lingua, chiedendosi con meraviglia come avesse potuto farne a meno fino ad allora. Ne era talmente estasiato, che durò fatica a togliersi il cannolo dalla bocca, almeno finché non fu molle e improduttivo.
Quando sollevò lo sguardo, vide Al-Nadir abbandonato sui cuscini ad occhi chiusi, con un’espressione così beata sul volto, da fargli quasi venire le lacrime agli occhi. Ma una volta gustata una tale delizia, difficilmente se ne può fare a meno, e diverse altre volte, quella notte, frate Martino si ritrovò a poppare il capezzolo e degustare il succo cremoso di Al-Nadir.
Tutto procedeva per il meglio: Al-Nadir era soddisfatto del suo nuovo schiavo, a cui si era sinceramente affezionato, e questi sembrava aver riacquistato il suo equilibrio e la sua voglia di vivere. Ogni giorno il suo bagaglio si arricchiva di nuove esperienze, via via che Al-Nadir lo guidava alla scoperta del sesso fra uomini. Il culmine lo raggiunse quando, una sera, Al-Nadir, dopo averlo fatto mettere a quattro zampe, intinse un dito nel miele e glielo spinse nell’ano. Frate Martino era vergine, ma sapeva che prima o poi quel momento sarebbe arrivato, ne aveva il terrore ma in un certo senso non vedeva l’ora. Per questo non fece niente per sottrarsi a quanto stava per accadere e quasi si stupì della facilità con cui il dito, unto di miele, gli scivolò dentro senza causargli alcun fastidio. Quello che non si aspettava fu il fatto che, dopo averglielo pistonato dentro alcune volte, Al-Nadir estrasse il dito, poi si accosciò e, premendogli il volto nello spacco, cominciò a leccare avidamente l’orifizio sbavato di miele! L’imbarazzo gli strozzò un momento la gola, ma subito dopo un piacere indescrivibile lo invase, un piacere più morale, che fisico, al pensiero che un uomo come Al-Nadir lo stesse leccando in quel posto lì. Ad un tratto, provò l’impulso di offrirglisi al massimo, di aprirsi il più possibile, e allora fu lui stesso ad allargarsi le natiche con le mani, onde rendergli più agevole l’operazione.
Ma era anche il segnale che l’altro stava aspettando, il segnale che era pronto a riceverlo. Allora Al-Nadir si spalmò il membro di miele, ne poggiò la punta sull’orifizio aperto e spinse dentro. Il pirello era grosso e il miele non era il lubrificante ideale, ma frate Martino strinse i denti e lasciò che l’atto si compisse.
Il dolore iniziale andò via via attenuandosi, mutandosi in un senso di stiramento, poi di pienezza e infine di piacevole languore, quando, assestatoglielo bene, Al-Nadir iniziò a muovere il pistone avanti e indietro. Ecco quello che si prova a stare dall’altra parte del cazzo! Un piacere non meno grande di chi ti sta possedendo… un piacere altrettanto coinvolgente… sia pure diversamente. Finora aveva conosciuto il piacere “davanti”, adesso stava conoscendo il piacere “dietro” e non aveva termini per figurarlo a se stesso. E poi sentirsi un altro uomo sopra… dentro… un altro uomo che ti stringe, ti ansima sul collo… Ma la cosa che più lo strabiliò e lo mandò in estasi fu di sentire, sentire palpabilmente, dentro di sé l’orgasmo di chi lo stava possedendo, sentire le pulsazioni del suo cazzo contro la stretta del buco, mentre stava sborrando!
Poco dopo erano sdraiati fianco a fianco, Al-Nadir con l’uccello molle e arrossato riverso sul ciuffo crespo del pube, entrambi straniti e ancora ansimanti. Frate Martino si toccò allora il buco indolenzito, trovandolo aperto, imbrattato di sperma e di miele, ma soprattutto con una gran voglie di averlo nuovamente riempito.
La vita procedeva dunque felice, la migliore che frate Martino potesse aspettarsi, quando la fortuna volubile, che mai si stanca di ribaltare le nostre vite, decise di stroncare quella felicità e predispose per il frate nuove terribili sciagure.
Era, infatti passato poco più di un mese dalla cattura, quando Al-Nadir decise di partire per una nuova scorreria sui mari, lasciando però a terra frate Martino, onde non esporlo ai pericoli che possono capitare.
Ma le vele non erano ancora scomparse all’orizzonte, che le sue quattro mogli, inviperite per essere state trascurate a favore di un uomo, oltretutto un infedele, appena scesa la notte lo fecero prendere e ordinarono a due servi di caricarlo su una barca, andare al largo, legargli una pietra al collo e affogarlo in mare.

(continua)
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